Daniel Mendelsohn dai Greci a Mad Men

8 Agosto 2024

“Trasformando in narrazione il loro pensiero, spiegando su cosa basavano i loro giudizi e lasciandoti intravedere i meccanismi mediante i quali esercitavano il loro gusto (individuale, personale, pieno di idiosincrasie), tutti questi critici sottintendevano che tu potevi esprimere un tuo giudizio diverso dal loro – che una determinata opera poteva agire sulla tua sensibilità in modo differente. Ciò che ogni settimana imparavo da loro era come pensare, pensare criticamente [...] Pensare è, in estrema sintesi, formulare giudizi basati sulla competenza”. Questa lunga citazione è rubata dal “Manifesto di un critico”, penultimo saggio della raccolta di scritti vari di Daniel Mendelsohn, Estasi e terrore. Dai Greci a Mad Men (Einaudi, 2024), pubblicati tra il 2003 e il 2022 sulla “New York Review of Books” e sul “New Yorker”. Parto da qui per molte ragioni, la prima delle quali è la sua perfetta aderenza al tono, alla cifra profonda della riflessione critica di Daniel Mendelsohn, indipendentemente dalla potenza dell’oggetto cui si applica; il talento di questo autore mette al lavoro un sapere erudito, raffinato da lunghi studi, all’interno di una scrittura vivace, libera e generatrice di libertà (non di arbitrio) per chi legge. La seconda ragione è la rivendicazione onesta, coraggiosa di questi tempi, del valore del lavoro critico come mediazione tra opera e lettore comune, in ragione di competenze che permettono una migliore comprensione del testo e dunque una moltiplicazione del piacere stesso della lettura, in un accordo o disaccordo sempre ragionato, mai banalmente estemporaneo (di fatto: “La verità è dunque che non tutti sanno fare i critici”). 

Dare forma alle storie, e alla Storia che ferisce, umilia, uccide, è quanto può fare la letteratura (che è la realtà stessa, non “un gioco, una fuga”), ed è quanto Daniel Mendelsohn ha mostrato già nei libri precedenti, Una Odissea, Gli scomparsi e Tre anelli, in cui temi come il vagabondaggio, la perdita, l’esilio, la morte sono raccontati con la forza di una scrittura dolente di umanità e intimamente redentrice, in grado di interrogare il passato da un presente che non lo attualizza, ma lo strappa a quella dimensione che, se unica, lo incastra, per renderlo disponibile a uno sguardo contemporaneo. Questo vertiginoso intreccio temporale affascina chi legge perché l’io narrante autobiografico, che stia viaggiando verso Itaca, o stia cercando le proprie tracce in un’Europa devastata dal nazismo, o stia inseguendo la vita di tre esuli, Auerbach, Fénelon e Sebald, stringendoli in una composizione ad anello, in cui il cerchio di una vita, di tre vite, diventa la vita di tutti, questo io che scrive si fa straniero a se stesso, diventa articolazione plurale cui convergono, in una condivisa comprensione, autore lettore e testo. 

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Estasi e terrore non delude, ritroviamo in questi scritti il saggista capace di narrare le idee, di studiare con la stessa passione un testo antico, un film di Almodovar, un romanzo o un memoir, e di restituire in ogni pagina un nucleo di senso, anche quando lo scritto è d’occasione, perché “l’impollinazione incrociata fra classici e cultura popolare” è ormai la sua “nota dominante”, e la divisione del libro in tre sezioni di peso equivalente, e in tre linee tematiche, Miti di ieri, Miti in technicolor e Miti d’oggi, ne è dimostrazione efficace (mito è inteso qui come archetipo della nostra cultura, una bussola, non come oggetto di analisi semiologica à la Roland Barthes). 

Il viaggio intellettuale ed emotivo di Mendelsohn comincia dunque da quel terreno della classicità poetica e tragica, greca e romana, in cui l’autore mette una radicata erudizione al servizio di un punto di vista sempre originale, che tratti di un frammento ritrovato della lirica di Saffo, della storia in Erodoto e Tucidide o dell’Agamennone di Eschilo, delle Metamorfosi di Ovidio o dell’Eneide di Virgilio. Ovunque si soffermi la sua scrittura è in grado di trovare quelle connessioni intratemporali che portano il passato a funzionare da lente di comprensione del presente e viceversa, per l’attenzione allo stile di ogni singola opera, metro e allitterazione in Ovidio (“un’elegante sveltezza che conferisce alle sue strofe uno sfarfallante luccichio”), alla “sfida verbale”, il dialogo, che nella struttura del racconto storico trova il suo vettore ideale nella tragedia e nella storiografia, soprattutto in Tucidide, nella Guerra del Peloponneso (testo politico usato a lungo per spiegare la guerra fredda nel mondo bipolare del secondo Novecento), agli accostamenti che si rifrangono come specchi sulla nostra modernità (con Erodoto ad esempio, le cui Storie somigliano a Guerra e pace, e la figura di Serse disegna il despota, e le digressioni funzionano come ipotetici “collegamenti ipertestuali”). Significativo, poi, leggere tra le righe una forte (e sensata) critica alla cancel culture, che può distruggere qualsiasi pensiero, monumento, opera, se sottratti a una consapevole contestualizzazione. 

Tra le molte suggestioni che sollecitano la lettura scelgo due prelievi che spero esemplari: l’Enea virgiliano e l’Antigone sofoclea. Molti sono i capovolgimenti rispetto alla vulgata corrente (il “pio” Enea è, secondo filologia, non pio, ma “zelante nell’obbedire ai progetti degli dei” e Didone, “donna appassionata, tenera e grandiosamente tragica è di gran lunga il personaggio più notevole del poema”), ma il colpo d’ala più interessante riguarda la capacità di vedere in Enea non l’eroe, ma “un tipo umano che ci è fin troppo noto: un sopravvissuto”. Ecco, lo studioso dell’Olocausto non sovrappone due epoche, né la propria storia a quell’altra così lontana, ma la vive attraverso l’altro da sé, si mette in gioco (non in scena) e vede per questo l’Eneide come la storia di “una piccola banda di reietti sopravvissuti a una terribile persecuzione”. Quanto all’Antigone di Sofocle, meglio ricordare sia la dimensione “pubblica e civica del teatro” greco, sia che nulla sappiamo della ricezione di quelle tragedie rappresentate all’interno di un rito che durava dall’alba al tramonto, davanti a un pubblico ben lontano “dal vuoto anonimato” odierno. DM torna in diversi scritti su questa complessa figura, ne racconta la storia in modo che non la si possa ridurre a “una semplice parabola sui meriti della resistenza individuale all’oppressione da parte dello Stato”, e ne accosta la vicenda a quella del rifiuto di sepoltura per il terrorista responsabile dell’attentato alla maratona di Boston del 2013. Antigone incarna una tale diversità di conflitti (famiglia e comunità, mondo religioso e laico, legge divina e umana ecc.) da aver dominato l’immaginario politico e artistico lungo i secoli secondo molteplici interpretazioni, e seppure non si possa chiedere a DM di darne conto, tuttavia delude la totale assenza di accenni alla specifica originalità, sul conflitto uomo/donna, del pensiero femminista di Weil, Arendt, Butler, Irigaray o Cavarero (ben tradotte in inglese). 

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Con la seconda sezione del libro siamo al cinema. Le riscritture di antiche storie, come Troy di Petersen e Alexander di Oliver Stone, permettono a DM di esercitare il diritto di stroncatura, non sulla base di pedanti precisazioni accademiche, sulla fedeltà o meno ai testi, ma per acute osservazioni strutturali, relative a forme di “realismo” che stravolgono il “genere” su cui lavorano. Anche nella visione dei Segreti di Brokeback Mountain l’attenzione è risvegliata dalla necessità di contrastare letture critiche che etichettano questo amore omosessuale come universale – “non ha senso”, che due mandriani del Wyoming siano gay! – negando che, narrativamente e visivamente, sia “una tragedia sul fenomeno specificatamente gay”. Il profondo dissenso viene argomentato nel merito, ad esempio, attraverso la sottolineatura dell’uso cinematografico degli spazi, chiusi o aperti. Il tema della riscrittura tra romanzo e film torna anche nella terza sezione a proposito di Le ore, il romanzo di Michael Cunninghan che reinterpreta in modo raffinato La signora Dalloway, di Virginia Woolf, e che Stephen Daldry adatta a sua volta per il cinema. Anche in questo caso limiti e forza del gioco che circola tra generi diversi vengono colti con riflessioni sottili e interessanti che vanno oltre il caso specifico. Dopo l’11 settembre, United 93, di Paul Greengrass, sul dirottamento del volo “i cui passeggeri si ribellarono contro i terroristi di al-Qaida”, e World Trade Center di Stone, sono visti nella loro forza emotiva, ma anche come fuorvianti perché la loro strategica reverenza verso la realtà è volta non ad aiutare la riflessione ma a suscitare lacrime e dolore; incapaci di scrivere l’essenza del tragico, fanno tornare l’autore a una nuova lettura dei Persiani di Eschilo, l’unica tragedia antica che drammatizza un fatto storico. A questo pensa DM proprio la mattina dell’11 settembre, a come “ciò che accade diventa la storia di ciò che accade – ovvero come la storia diventa dramma”, e questo gli insegnano oggi I persiani. Allo stesso modo, l’ininterrotta permanenza della storia del Titanic nel nostro immaginario insegna come si forma un mito. Fiumi di parole si possono spendere sulla moda del memoir, le forme diverse in cui si presenta questo genere ibrido, in rapporto all’autobiografia, al romanzo, alla confessione, alla testimonianza (e all’epopea della sopravvivenza), ma soprattutto rispetto a cosa sia verità e cosa menzogna (la freudiana “mendacia”) e “come lo stesso termine ‘realtà’” stia “rapidamente perdendo valore”, e il confine tra realtà e fantasia sia sempre più labile, e ancor più confuso quello tra pubblico e privato. 

Marcel Proust ha scritto che ogni lettore, quando legge, legge se stesso, questo vale per Mendelsohn, e ora per noi, che con questa raccolta abbiamo fra le mani un nuovo, versatile, strumento ottico.

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