L'Italia (linguistica): un'ultra-nazione
“L'Italia rimane ancor oggi in molti aspetti fondamentali un precario amalgama di regioni profondamente diverse, animate da diffidenza reciproca o da mutua incomprensione. Quella che si definisce lingua italiana è perlopiù un mezzo di comunicazione al quale si fa ricorso per comodità. Le parlate regionali, le cui molte particolarità e incomprensibilità reciproche vanno ben al di là della loro qualifica di dialetti […] continuano a dominare”.
George Steiner si è così espresso sull'Italia e sull'italiano in un articolo comparso sul New Yorker una ventina di anni fa e recentemente pubblicato in traduzione italiana.
A cavaliere dei secoli ventesimo e ventunesimo e, con la traduzione, a un passo dal centocinquantesimo anniversario dell'unità politica italiana, lo scritto di Steiner ribadisce a un pubblico internazionale un luogo comune e agli Italiani ciò che gli Italiani sanno bene, perché sta giornalmente sotto i loro occhi, nelle loro orecchie, sulle loro bocche. Ricorda poi che esistono punti di vista ragionevoli (che non vuol dire condivisibili necessariamente) a partire dai quali è lecito ritenere che l'Italia unita si è rivelata e si rivela giorno dopo giorno un fallimento. Lo si può dire ormai (si spera) senza che nessuno ne meni scandalo. Si prenda il fondamento concettuale, prima ancora che ideologico del cosiddetto Risorgimento italiano che si trovò (magari solo casualmente) a essere il prevalente; si prenda la forma di stato italiano che ne risultò e che, come si è visto, ha anche trasceso l'opposizione tra monarchia e repubblica. Si mettano fondamento concettuale e forma statuale in rapporto con certi loro correlati, se non si vuol propriamente dire con certi loro esiti: per es., per citare fatti storici di un qualche peso e non la minuteria municipalistica che riempie le gazzette, con le guerre in cui l'Italia si è gettata, in quanto unita.
L'Italia unita le ha appunto perdute tutte, anche la Grande Guerra. Quale prova di una catastrofica débâcle nazionale più chiara dell'avvento del Fascismo? È vero che, profittando con destrezza di qualche apparenza, differenti propagande si son provate volta per volta ad affermare il contrario, parlando nonostante tutto di vittorie. Fasi esiziali e postumi della Seconda Guerra Mondiale furono in proposito esemplari. Ma si trattò appunto di rigirare frittate gigantesche, riuscendo così magari a convincere chi aspettava solo d'essere nuovamente convinto: non importa di cosa, ma nuovamente convinto. Come non parlare allora di un fallimento e di un fallimento già pagato a carissimo prezzo? Con lo sguardo profondo della letteratura, il Giovanni Verga dei Malavoglia lo raccontò del passato: che diavolo ci faceva infatti il siciliano Luca Toscano a Lissa?
Raccontandolo del passato, lo prefigurò però di un futuro poi realizzatosi ben oltre la sua fantasia. D'altra parte, per far un'Italia politicamente unita forse non si sarebbe potuto fare altrimenti. Quando le circostanze precipitarono, la cultura politica italiana ch'era corrente non avrebbe potuto pensare l'Italia unita diversamente da come essa fu arrangiata alla meno peggio. Dalle rape non si cava sangue e, come si sa, l'unità si trovò fatta in modo imprevisto e imprevedibile. Criticando, si rischia di far la figura barbina di chi si impanca a a giudice e censore con la più facile risorsa per le intemerate degli stupidi: il senno del poi. Per prima cosa, tuttavia, non di senno del poi si tratta, dal momento che i lavori per l'unificazione d'Italia non hanno in realtà mai smesso d'essere in corso (come è costume per ogni altra questione nazionale). Secondariamente, potrebbe essere utile capire se essi non siano ab ovo destinati al fallimento, dal momento che è forse fallace il modo di considerare gli Italiani cui essi s'ispirano. Non per celia, si direbbe tale modo mesto e iettatorio, prima ancora che rigido e perfidamente pedagogico. Una figura di spicco del movimento risorgimentale medesimo ne fece ironico controcanto quando affermò für ewig che, fatta (come pareva) l'Italia, bisognava fare gli Italiani. Ebbene, con gli Italiani, parve ovvio allora e, da allora, sempre, che bisognasse fare anche l'italiano. Le parole di Steiner poste in esordio dicono di una deficienza linguistica nazionale che da molti è stata ed è tenuta giustamente per cruciale. Essa ebbe del resto autorevoli certificatori.
Tale fu Alessandro Manzoni, già allora nume tutelare delle patrie lettere. Meglio, tale fu l'Alessandro Manzoni di cui si fece codazzo la schiera di coloro che, non avendo idee proprie, stavano conformisticamente all'accatto delle altrui. E le manzoniane parvero adattissime alla bisogna, ben al di là delle intenzioni di una figura divenuta eponima. L'Italia non ha una lingua? Eletta una norma, come era già stata dal magistero manzoniano, che i chierici si incarichino d'impartirla prescrittivamente ai laici, destinati altrimenti al peggio e alla perdizione.
Certificatore della deficienza linguistica nazionale fu anche Graziadio Isaia Ascoli, con sensibilità e prospettive diverse e più profonda intelligenza di fatti linguistici. Il glottologo (così il tapino, per primo, definì professionalmente se medesimo) godette d'un seguito più sparuto di quello toccato al feticcio del letterato. A ciò lo destinavano la sua specifica competenza e un'idea dell'Italia linguistica e di ciò che da essa era richiesto ai dotti che minacciava impegni di studio invece di promettere ghiotte occasioni per predicozzi e fervorini o per quelle baruffe intellettuali che confermano ruoli e funzioni e assicurano notorietà.
Prima di lanciarsi nella programmazione del meglio, i dotti avrebbero dovuto infatti farsi competenti, rendendosi conto degli esatti valori di una realtà linguistica multiforme e articolata, come quella presentata da un'area geografica pur tutt'intera definibile come italiana. Una lingua nazionale, pensava Ascoli, si sarebbe così magari prodotta, per propagazione culturale, maturando lentamente tra i commerci via via sempre più elevati delle differenti voci di tale realtà.
Si è così giunti al nocciolo dell'autentica questione linguistica italiana e a ciò che, a partire da essa, si può apprendere di profondo quanto agli Italiani. Sulla soglia del nuovo millennio, un valente storico della lingua come Alfredo Stussi, mirando al sodo, ha affermato che “descrivere l'area linguistica italiana significa innanzi tutto indicarne l'articolazione dialettale”. Sette secoli dopo (mirabile dimostrazione della permanenza di tratti caratterizzanti), sono parole in cui si riflette quanto sentenziava Dante Alighieri: “E perciò se volessimo calcolare le variazioni principali, le secondarie e le sotto-secondarie del volgare d'Italia, persino in questo piccolissimo angolo del mondo ci accadrebbe di giungere non solo a mille varietà ma anche a un numero maggiore”.
La varietà: il tratto permanente della nazione italiana, dal punto di visto linguistico. Poco importa precisare adesso se, a proposito della varietà italiana, si tratta solo di dialetti o delle molteplici forme sotto le quali si presenta quella diversità linguistica che invita naturalmente alla comparazione e alla coordinazione concettuale. Importa invece osservare che, a chi ha una visione rigida dell'espressione linguistica (che è forse la cosa umana meno rigida e più plastica che ci sia), la varietà può parere frammentazione, disordine. Se a qualcuno pare tale, però, la ragione sta nel suo punto di vista. Basta adottarne uno diverso, infatti, e la varietà linguistica (quella italiana in particolare) si presenta come articolazione sistematica, composita armonia.
E se chi pensa rigidamente ritiene la varietà causa d'isolamento umano e culturale, da un diverso punto di vista, essa appare come continua occasione di arricchimento dell'esperienza di vita. Il sempre che si può evocare in questo scritto è, naturalmente, quel sempre che, come arco cronologico, alberga la transeunte esistenza di uno strutturato consorzio umano. Ebbene, in funzione di tale sempre, l'Italia si presenta da sempre come un'area linguisticamente varia e plurale. L'esperienza di tale varietà è da secoli disponibile per qualunque viaggiatore, anche il più semplice e digiuno di filologia, come lo è per gli osservatori competenti.
Tra costoro, primo, e non solo per ragioni cronologiche, Dante. Il brano sopra riportato, in traduzione, è tratto dal De Vulgari Eloquentia, operina incompiuta che, come la maggiore del suo autore, resta irrinunciabile per capire l'Italia linguistica, anzi (come Dante vi scriveva) l'Ytala silva. Il riferimento a una selvatichezza italiana suona provocazione. Si potrebbe quindi dirlo dantesco per antonomasia. Con ironia, Ytala silva qualifica dalla prospettiva culturale il dominio che, dal punto di vista naturale, era ai tempi di Dante ed è ancora forse il meno selvatico d'Europa e del Mediterraneo.
Ben lungi dall'albergare propriamente selve, tale dominio fu culla di un modello della civiltà urbana continentale, precisamente di un modello intricato, in apparenza, come è intricata una selva. L'Italia è selva di borghi e città. Nessun borgo, nessuna città italiana è culturalmente trascurabile. L'Italia è quindi selva delle loro espressioni, nessuna culturalmente trascurabile. Non c'è virtù che non possa tuttavia presentarsi come vizio. La circostanza di tale diffusa significatività culturale e linguistica non è quindi estranea al prosperare di uno dei maggiori difetti nazionali (come Dante ben sapeva, considerandolo manifestazione di stupidità): il municipalismo.
L'insegnamento fornito dal paradigma dantesco non si ferma tuttavia al riconoscimento di una varietà linguistica intricata come una selva. In funzione della selva linguistica, Dante disse infatti possibile l'inventio dell'odorosa pantera. Così chiamò con deliziosa metafora un'espressione, nel volgare del sì, che andasse oltre, al di là della varietà e ovviamente al di là delle sciocchezze dei municipalismi. Disse possibile tale inventio razionalmente: meglio, rationabilius, in modo più razionale. Sapeva infatti che c'era chi (come poi c'è sempre stato tra i chierici italiani) prendeva a scusa del proprio fallimento il lampante intrico della selva e concedeva alla sua pigrizia di negare l'esistenza della pantera odorosa, di dichiararne inutile la ricerca ed impossibile l'inventio. Rispetto a costoro, Dante rivendicava un'applicazione più razionale nei metodi di ricerca. Perché, si badi bene, per Dante, inventio non era, ovviamente, invenzione, come oggi s'intende. Era ritrovamento, scoperta.
E di cosa, allora, se non di un sistema che, nella contingenza, coordina e armonizza la varietà, senza rinnegarla? La prova del ritrovamento dell'odorosa pantera da parte di Dante esiste: è la Commedia. È prova concreta, ottenuta direttamente in corpore vili. Piuttosto che attardarsi a dire, in teoria, come si dovesse condurre la ricerca del volgare del sì, Dante si impegnò a trovarlo in una prassi espressiva. Lo trovò e lo esibì, smentendo i suoi negatori. Da allora e per ogni epoca della storia culturale italiana, non si dirà cosa diversa di chiunque ha posto cura (come sempre si dovrebbe) alla sua espressione. Manzoni e Verga, sopra ricordati, in modi diversi hanno condotto la medesima ricerca: con esiti felici.
Per fare esempi più recenti e di nuovo tra loro differenti, Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini sono stati due italiani del secondo Novecento che, cercando l'italiano, l'hanno trovato. E caso in apparenza paradossale, di là d'ogni giudizio di valore letterario, è quello recentissimo di Andrea Camilleri. Con grande soddisfazione personale, lo scrittore siciliano, da autentico sperimentalista, s'è concesso il lusso di trovare un ulteriore punto di equilibrio dell'espressione italiana, in condizioni formali estreme che paiono dialettali ma sono italiane, come dimostra il suo straripante successo commerciale dal Gottardo a Capo Passero.
Anche, anzi soprattutto fuori della letteratura e in ogni aspetto della vita sociale della nazione, del resto, l'espressione italiana (giornalistica, istituzionale, personale) comporta una scoperta, un ritrovamento, se aspira a essere autentica, felice ed efficace. Nel caso contrario, essa è fallimento: un sontuoso fallimento, magari, ma un fallimento. Mille e più di mille sono le varietà dell'Ytala silva. Esse sono una continua sfida all'intelligenza di chi sospetta nell'apparenza della variazione l'esistenza di un processo generatore di varietà, in ciò che si manifesta come variazione quanto ne rende possibile la manifestazione e prova a sintonizzarsi con l'identità soggiacente cui le variazioni si riferiscono.
Attribuire a una nazione un'identità linguistica non equivale infatti ad assegnarle una lingua, anche se, sotto altri cieli, tale circostanza si verifica. L'Italia si incarica di dimostrare che la rigidità di una lingua nazionale (o anche di più lingue nazionali: l'accento cade sulla rigidità, non sul numero) non è il solo modo con cui un'identità linguistica si stabilisce. Sarebbe peraltro ben strano che, quanto all'aspetto della vita umana che ha prodotto il mito di Babele, si desse al mondo una sola possibilità. L'identità italiana va infatti ben oltre una lingua, come va ben oltre le mille e più di mille parlate albergate dall'area geografica. L'espressione italiana non ha una regina (come l'inglese) né ha avuto un Lutero (come la tedesca). E non ha nessuna Parigi (come la francese): neppure quella Firenze con cui, per ragioni contingenti, si trova da qualche secolo a dovere fare i conti. È ancora mobile. È impossibile acquistarla già bella e fatta, perché non trova ragioni nella fissità di un canone (così avviene per altre comunità linguistiche europee) ma in un processo, che comporta costantemente un'attitudine comparativa.
Comparandosi, gli Italiani si riconoscono. Sarà questa la ragione che spiega la loro attitudine a un'accesa socialità, amichevole o polemica poco importa? C'è da crederlo, dal momento che gli Italiani si riconoscono per quelle rigorosissime approssimazioni che possono dare felice luogo a interminabili contenziosi. In ogni loro interazione, calcolano somiglianze e differenze reciproche, si collocano e collocano il loro interlocutore nel territorio, fanno mappe fonologiche e grammaticali della selva. L'Italia non esisterebbe senza un gioco comparativo del genere. Non esisterebbe senza la sofisticata competenza delle somiglianze e delle differenze che tale gioco comporta, senza l'attitudine che ne deriva di spaccare in quattro ogni capello.
Il gioco serve sovente a dividersi, ma come ci si potrebbe dividere se non ci si pensasse in funzione di un intero? Meglio, dividersi sarebbe impensabile se non ci si considerasse come un ultra intero, un Überganzes, per adoperare una parola che fu cara a Robert Musil e nel primo elemento della quale occhieggia Friedrich Nietzsche. Gli Italiani lo sanno bene: non c'è italiano più italiano di chi si sente e proclama d'essere, anzitutto e magari esclusivamente, veneto o campano, lombardo o siciliano e, a chi lo intende, rivela così ciò che conta: d'essere ultra italiano.
C'è forse un eccesso di compiacimento e un gusto per il raggiro della dabbenaggine foresta in questo specchiarsi degli Italiani nello spettro della loro varietà. Come Dante diceva, lo spettro è peraltro amplissimo: ma non è indefinito. È labirintico ma non caotico come pare. Sconcerta e istupidisce gli osservatori ingenui, abituati a o desiderosi di situazioni linguistiche più semplici e ovvie. Ne ottunde le capacità analitiche. Li induce a giudizi che si risolvono in corrività e luoghi comuni. Nel tentativo di comprendere l'Italia, li fa così prede intellettuali di quei chierici prescrittivi e di quegli eminenti mandarini che, comunque orientata quanto a ideologia, la cultura italiana non smette mai di produrre in quantità.
Dalle loro prospettive, gli Italiani, in quanto tali, sono eternamente deficienti, perché, per esser tali, mancherebbe loro sempre qualcosa e, come Italiani, sarebbero sempre da fare, come da fare sarebbe l'italiano. È la prospettiva di coloro che fecero a modo loro l'Italia unita e domani, sempre a loro modo e esattamente per le medesime ragioni, potrebbero farla disunita. Per eternarsi come ceto, l'hanno infatti volta per volta fatta clericale e anticlericale, fascista e antifascista, comunista e anticomunista, fino ai cascami odierni, troppo corrivi perché sia qui richiesta una loro menzione. L'odorosa pantera esiste, però, e l'identità linguistica italiana va oltre il dissidio tra unità e suo contrario. L'Italia linguistica non è unita (e mai forse lo sarà). Ciò non significa però che essa sia disunita (disunita, del resto, non è mai stata). L'Italia linguistica svela agli Italiani, come agli stranieri che amorosamente desiderano capirli, ciò che gli Italiani sono, forse, non solo dal punto di vista linguistico. L'Italia linguistica dice che gli Italiani non sono una nazione. Sono un'ultra nazione.