Maria Lassnig e Marisa Merz: il corpo e la grazia
Il premio alla carriera di questa 55a edizione della Biennale di Venezia è stato assegnato a Marisa Merz (Torino, 1931) e Maria Lassnig (Kappel am Krappfeld, 1919), due artiste europee che pur nelle relazioni con i movimenti dei rispettivi paesi hanno seguito percorsi autonomi e altamente individuali. Un'importante selezione di loro opere è ora esposta all'interno della mostra curata da Massimilano Gioni, Il Palazzo Enciclopedico, dove Lassnig e Merz condividono una sala divisa da un tramezzo centrale, interfaccia al tempo stesso di separazione e di incontro.
Senza andare troppo a ritroso nella storia delle due artiste, Gioni ha posto da un lato le pitture ossessive dalle reminiscenze espressioniste di Maria Lassnig, dove colori fluorescenti e dissonanti calcano i profili e scavano le carni di corpi straziati da un disagio interiore più che fisico; dall’altro il cripticismo sensuale ed evanescente dell’artista torinese, Marisa Merz, che sfoggia una libertà compositiva oscillando dal disegno alla scultura, dall’oggetto alla materia, dalla carta allo spazio.
Maria Lassnig, Feistritz 2001. Foto: Sepp Dreissinger
L’artista austriaca, vicina agli ambienti dell’avanguardia viennese, incontra Arnulf Rainer alla fine degli anni quaranta, poi André Breton a Parigi nel 1951, dove soggiornò per qualche mese per ritornarvi stabilmente dal 1961 al 1968, prima di trasferiristi a New York fino al 1980. Rimasta sempre legata, nonostante le lunghe residenze al’estero, alla tradizione culturale austriaca, proprio in quell’anno Lassnig fu scelta insieme a Valie Export per rappresentare il Padiglione nazionale alla trentanovesima Biennale veneziana. Un binomio eccentrico, date le divergenze tra le due personalità, che trovava un terreno comune in una prospettiva d’indagine centrata sul corpo, messo a nudo e provocatoriamente performativo, emblema di un’identità sociale o di una sensibilità interiore.
Maria Lassnig Selbst mit Meerschweinchen [Self-Portrait with Guinea Pig]. 2000, Private Collection
Nodo centrale di tutta la ricerca di Lassnig, dei suoi disegni, delle sue pitture a olio, delle sue sculture, è infatti la corporeità, integrata all’interno di un processo che lei stessa ha definito di “autocoscienza corporea” (body-awareness). I personaggi che popolano il suo mondo sono infatti costruiti sul suo corpo, mostrato senza filtri nella sua fragilità fisica ed emotiva. Lassnig si raffigura nuda, calva, con la pelle cadente, dentro un letto d’ospedale (Krankenhaus [Ospedale], 2005), la testa soffocata da una busta di plastica (Selbstportrait unter Plastik [Autoritratto dentro busta di plastica], 1972) mentre danza con la morte (Der Tod und das Maedchen [La morte e la ragazza], 1999) o con il viso deformato dal terrore e dallo sconcerto mentre si punta una pistola alla tempia con una mano e con l’altra minaccia chi le sta di fronte, osservatore esterno alla tela o personaggio immaginario dentro la dimensione narrativa dell’opera (Du oder Ich [Tu o io], 2005). I gesti duri in cui sono colti i suoi nudi più che a un’accezione narrativa andrebbero ricondotti piuttosto alla personificazione di un sentimento, di un’emotivitià esteriorizzata attraverso il corpo dell’artista ma appartenente a ogni spettatore.
Maria Lassnig, Du oder Ich [You or Me], 2005. Friedrich Christian Flick Collection
La centralità del corpo è tale che esso perde ogni relazione con lo spazio, dunque con il tempo e la storia. Visi, braccia, gambe, si stagliano nette emergendo sulle superfici piane, gialle, bianche, monocrome, del fondo; le dissonanze dei colori danno alla pelle tonalità incongrue, fluorescenti, verdi, gialle; sebbene riconducibili a un’identità precisa, quella dell’artista, assumono tratti androgini, sessualmente incerti.
Maria Lassnig, Krankenhaus [Ospedale], 2005
Il rapporto tra corpo e spazio, sbilanciato a favore del primo nella Lassnig, si inverte nelle opere di Marisa Merz, dove il primo è solo tracciato, evocato, mentre l’opera si trova integrata nella dimensione ambientale.
Marisa Merz con Living Sculpture, Torino, 1966
Rispetto allo scenario artistico italiano, l’artista torinese ha instaurato un rapporto di scambio intermittente, in particolare con gli artisti del gruppo dell’Arte Povera. Questo non solo per la partecipazione ad alcuni degli episodi signficativi, come le mostre Arte Povera + Azioni Povere (Amalfi, 1968), o Op Losse Schröven. Situaties in cryptostructuren (Amsterdam, 1969), curate rispettivamente da Germano Celant e Wim Beeren, ma soprattutto per una condivisione di soluzioni formali ed espressive. Uno dei nuclei centrali dei poveristi, che aveva un suo parallelo nelle poetiche antiformali diffuse in Europa e Stati Uniti negli anni sessanta, era infatti la stretta relazione tra l’opera e lo spazio. La sperimentazione delle possibili interazioni tra le due parti confluiva nella determinazione dell’ambiente a partire dall’opera ed era un tratto evidente nelle prime opere di Merz.
Marisa Merz, veduta dell’installazione
Nel padiglione ai Giardini si ritrova una sintesi di alcuni passaggi che hanno segnato lo svolgersi della parabola creativa di Marisa Merz a partire dagli anni ottanta, con un’opera priva di titolo, un ritratto femminile, dalla chioma raccolta in un gomitolo di linee, occhi e orecchie troppo grandi (Senza titolo, 1981-82), filtrato da una maglia di rame, elemento spaziale, archetipico, e topico di un vocabolario che, tra le altre cose, ha assunto il tempo e la processualità come elemento costitutivo. Se la maglia di rame diventa ciò attraverso cui la superficie pittorica esula i confini bidimensionali includendo lo spazio, altre opere integrano oggetti già dati, che nelle mani di Merz diventano ad esempio occhi, come nella testina in cera dalle forme indefinite e dai lineamenti accennati, avvolta in una lastra accartocciata (Testa, 1984-95), e una teoria di testine disegnate su carte di piccole dimensioni con innesti come foglie d’alloro e simili (Senza titolo, s.d.). Gli oggetti, assunti in termini compositivi, sono assenti nelle ultime opere su carta, come Terra nuova (2013) o Vicino molto vicino (2013), dove l’ambiguità tra la spazialità e la dell’opera si proietta invece nella monumetalizazione di un supporto fragile e leggero come la carta, che sembra elevarsi al livello di pale d’altare spogliate dalla ricchezza sacrale. Le figure rappresentate sembrano infatti angeli e Madonne dai lunghi e lisci capelli, con sinuose ali.
Marisa Merz, veduta dell’installazione
I percorsi di Lassnig e Merz appaiono molto distanti tra loro, a cominciare dalle scelte formali, principalmente pittoriche per la prima, materiche e spurie per la seconda. L’interesse di questo confronto risiede tuttavia proprio nel dialogo tra le due artiste che si concentra rapporto tra il corpo e lo spazio, assunti dalle due estremità che gli corrispondono.
Marisa Merz, Senza titolo, 1981–82
Le opere di Merz eludono la carnalità attraverso l’evocazione, laddove Lassnig la esibisce senza pudori, privo di vesti nella sua natura, e estensione di un mondo interiore, senta tuttavia risolvere questa assenza o centralità all’interno di una dialettica sul “femminile”.
Marisa Merz, Terra nuova, 2013
Non c’è infine, nelle opere di entrambe le artiste, una connessione tra corpo e genere, né le stesse racchiudono i rispettivi gesti all’interno di una griglia strettamente legata al femminile. Il corpo non è, del resto, un privilegio esclusivo delle donne. Si pensi, infatti, oltre alla citata tradizione degli azionisti viennesi, anche solo alle opere di Joseph Beuys o di Vito Acconci. Il corpo vestito di Beuys in La rivoluzione siamo noi (1972) si carica di significati allusivi a una missione salvifica. Acconci, nella performance realizzata alla Galleria Sonnabend di New York, Seedbed (1972), resta nascosto, semisvestito, masturbandosi per diverse ore al giorno, emettendo versi e frasi, espone il pubblico al suo gesto.
Vito Acconci, Seedbed, 1972
Cosa vuol dire allora mostrare o celare il corpo? Nell’oscillazione tra spazialità, tempo e fisicità, delle opere di Marisa Merz e Maria Lassnig il corpo è il nodo in cui si scorge una tensione all’universalità, all’androginia, alla compenetrazione tra razionalità e istinto, tra presenza e assenza. Opposti che svelano e celano il sentimento e la conoscenza, ovvero, per dirla con le parole di Agamben, la natura e la grazia, la nudità e la veste.