La telenovela triste di Britney Spears / Miss American Dream
Strano ma vero, stavolta non è questione di gossip. Se da mesi negli Stati Uniti siamo ossessionati da Britney Spears, è perché la telenovela triste della Pop Princess ha sollevato uno specchio in faccia al paese e l’immagine che rimanda è impietosa, a tratti intollerabile. Non per caso la storia è ormai traghettata dal far west dei social media all’ortodossia del mainstream con tanto di imprimatur del New York Times che le ha dedicato un documentario e perfino del New Yorker che sul tema ha di recente pubblicato un’inchiesta a firma di Ronan Farrow e Jia Tolentino.
A leggerla in filigrana, nella sua vicenda si ritrovano gli snodi cruciali degli ultimi vent’anni in un arco che dalla cultura sessista dei tabloid approda al tempo dei social e del MeToo dopo essersi inabissato nel gorgo più cupo che si possa immaginare – la conservatorship, il meccanismo di tutela che ogni anno in America inghiotte migliaia di anziani, malati, disabili e li risputa privi di diritti e autonomia in una zona d’ombra dove i controlli stentano e gli interessi fioriscono.
Da tredici anni Britney Spears è costretta in questa gabbia legale che non solo le vieta di gestire la sua vita e i suoi affari, benché in questo periodo sia stata capace di quattro album, un tour mondiale e show a Las Vegas dagli incassi milionari, ma la obbliga a stipendiare profumatamente un esercito di conservatori capeggiati dal padre Jamie che, a detta di lei, non le ha lesinato abusi, offese e cattiverie.
A breve il tribunale deciderà se riconsegnarla alla libertà. Se accadrà, sarà grazie alla lucida furente testimonianza che la popstar ha reso a fine giugno in tribunale (la prima, incredibile a dirsi, di tutta la trafila) e all’attivismo social dei suoi fan che riuniti sotto l’hashtag FreeBritney hanno infine spinto i media tradizionali a tornare sul caso e aggiustare il tiro adeguando a una mutata sensibilità collettiva.
Ormai la questione è arrivata a Washington dove ha ispirato una nuova era di bipartisanship. E mentre democratici e repubblicani mettono in discussione il sistema della conservatorship – fra i sostenitori della popstar si contano Elizabeth Warren e Ted Cruz – il neonato movimento Free Britney America si prepara a dare battaglia per una riforma radicale.
In un colpo di scena da lasciare senza fiato, dopo aver dato voce e corpo all’effervescenza dei Duemila Britney Spears si ritrova così a essere diventata il simbolo dei cittadini più fragili e inascoltati della nazione, che grazie a lei oggi si trovano per la prima volta alla ribalta della conversazione pubblica.
La Pop Princess è d’altronde abituata a intercettare lo spirito dei tempi, che nel suo caso non si sa se sia un dono o una maledizione. La sua è una di quelle storie from rags to riches che gli americani adorano. È nata e cresciuta nell’ambiente più rurale e conservatore che si possa immaginare: Kentwood, un pugno di case nel sud della Louisiana. La madre Lynne manda avanti un day care per bambini, il padre fa il cuoco, lavora nelle costruzioni, spesso beve e se la piglia con i suoi.
Da lì lo showbiz è un miraggio, eppure ce la fa. Ha un sorriso esplosivo, una voce che fa tremare i muri e una padronanza del palco che ancor oggi le invidiano. A 16 anni conquista gli Stati Uniti con “Baby one more time”, che vende dieci milioni di copie. I coetanei si identificano in quella ragazzina che nel video si scatena con la gonna corta e la pancia nuda e i padri in lei sognano una conturbante Lolita.
A rivederla oggi, è da recita scolastica ma sono tempi meno smagati e fa sensazione. Diventa Miss American Dream. Le copertine e le interviste fioccano, diventa il volto della Pepsi Cola e la regina di Mtv. Nel Duemila arriva l’exploit di “Oops, I did it again” e a quel punto perfino Mc Donald’s vende una sua compilation.
Basta un decennio perché il gioco arrivi alla sua crudele conclusione ed è come vedere un elastico tendersi finché si spezza. La scolaretta di “Baby one more time” cresce, diventa una donna e la sua innocenza sexy è sempre meno innocente. La si vede sul palco sempre più truccata, scollata e scosciata. In un body color carne incrostato di paillette d’argento che non lascia nulla all’immaginazione, in completini che non sfigurerebbero in un bordello, con un enorme serpente appeso al collo come in certi striptease. È il corpo esibito, svestito e costretto di un’iconografia porno maschilista, non il trionfale empowerment femminile di Beyoncé e diventa il suo marchio di fabbrica. In parallelo, si apre il tempo dei fidanzati, delle bevute e delle feste con le amiche. Ha vent’anni e come tutti sperimenta, ma nel suo caso è sotto gli occhi del mondo.
Per capire quello che succede dopo, si deve tornare a quel periodo. Sono gli anni d’oro della cultura dei tabloid, la ricerca dello scandalo è spasmodica e la preda preferita sono le donne. Alla gogna finiscono Lady Diana, Monica Lewinsky, Withney Houston, Janet Jackson e tante altre. Il pubblico ride, volta pagina e il giorno dopo si ricomincia. A guardarsi indietro, viene da benedire il MeToo e perfino certe strettoie del politically correct: oggi siamo suscettibili fino all’intolleranza, allora era la giungla.
La macchina del fango si accanisce contro di lei. Paparazzi e reporter la prendono d’assalto con una totale mancanza di empatia. “Si verifica una chiara disumanizzazione”, come se le sue azioni esistessero “in un universo parallelo agli stress e alle pressioni di trovarsi sotto i riflettori”, nota Hannah Davies sul Guardian.
Se da bambina le si chiedeva del suo boyfriend, da ragazzina le si domanda se le sue tette sono vere e cosa ne ha fatto della sua verginità. Finché in un’intervista agghiacciante su Abc Diane, Sawyer la accusa di “aver ferito le madri d’America” tradendo il fidanzato e la moglie dell’allora governatore del Maryland minaccia di spararle perché non è di esempio alla gioventù. Lei scoppia in lacrime, ha 21 anni e chi al posto suo non lo farebbe? Il fidanzato in questione, il cantante attore Justin Timberlake, sta intanto vantandosi nelle interviste di essersi “preso” la sua verginità ma nessuno gli dà peso. Let boys be boys.
A queste condizioni, la crisi la raggiunge prima dei trent’anni. Dopo il divorzio i fotografi fanno a gara per ritrarla stravolta, malconcia, in lacrime. E poi mentre guida con il primo figlio in grembo anziché sul seggiolino o inciampa con il piccolo in braccio e piange sotto il fuoco di fila dei flash.
Quando si chiude in bagno e rifiuta di riconsegnare il secondo figlio all’ex marito che ha l’affidamento, arrivano i vigili del fuoco, la polizia, un’ambulanza e quattro elicotteri sorvegliano dall’alto la casa. Un’invasione in piena regola. Bastava aprire la porta, dirà un amico che così aveva fatto ed era con lei al momento dell’irruzione.
Quella sera la legano alla barella e un codazzo di polizia, fotografi e giornalisti la scorta in ospedale. La notizia fa il giro del mondo. La salute mentale non è ancora una categoria della sensibilità pubblica. Se l’atleta Naomi Osaka ha di recente sollevato un’ondata di solidarietà rifiutando di sottoporsi allo scrutinio della stampa, Britney è fotografata mentre la portano via e liquidata come una delle tante donne pazze, isteriche e irragionevoli che minacciano l’ordinato svolgimento delle cose.
Nella sua cerchia, si saprà anni dopo, da tempo si mormorava soffrisse di depressione post partum.
È messa sotto tutela nel 2008, la famiglia adduce problemi di salute mentale e dipendenza. La si dichiara incapace di prendersi cura di sé e dei suoi affari e la si consegna a un apparato di avvocati, curatori e assistenti governati dal padre Jamie. Nessuno, rivela il New Yorker, si preoccupa delle sue ripetute richieste di aiuto, del timore che ha di lui né del fatto che per quattro mesi è rinchiusa contro la sua volontà in un centro di riabilitazione.
Mai come nel suo caso l’istituto della conservatorship mostra le sue contraddizioni e i suoi ampi margini di arbitrarietà. Perché in 13 anni non la si è mai ascoltata? Perché la si considera capace di esibirsi e incassare milioni ma non di scegliere un avvocato e disporre della sua vita? E per quale ragione è tenuta a sborsare cifre da capogiro per un nugolo di conservatori che non ha nominato e dice mirino al profitto anziché al suo benessere? Per un’idea delle cifre in gioco, solo l’avvocato scelto dal tribunale, per dire, le è costato lo scorso anno 500 mila dollari.
La si potrebbe liquidare come una faida di famiglia o una bizzarria da showbiz se domande del genere non risuonassero da anni in troppe case. Sono almeno un milione e mezzo gli americani che un tribunale ha dichiarato “incompetenti”, privato di diritti e affidato a guardiani, familiari o professionisti, che al posto loro decidono, spendono e guadagnano. In base a una stima di qualche anno fa, il patrimonio così amministrato ammonta a 273 miliardi.
Se in molti casi ha le sue ragioni, il meccanismo si presta a tali e tante distorsioni che gli scandali sono all’ordine del giorno e alcuni stati stanno rivedendo le leggi. Per un’idea, basta guardare il film I care a lot con Rosamund Pike su Netflix. La scena di apertura ricalca una magnifica inchiesta di Rachel Aviv che nel 2014 sul New Yorker aveva approfondito il caso di 400 anziani finiti sotto tutela in Nevada grazie a una rete di collusioni fra medici, operatori sociali, avvocati e tribunali compiacenti. Isolate dalle famiglie, le vittime erano istituzionalizzate, imbottite di farmaci e depredate di soldi e proprietà in nome del loro stesso bene.
“Rivoglio indietro la mia vita”, ha esclamato all’ultima udienza Britney Spears. “Le leggi devono cambiare”, ha insistito rimarcando come gli abusi non riguardino solo lei ma migliaia di persone negli Stati Uniti. Voglio sposarmi, ha detto, voglio dei bambini. E a chi, se non a lei, spetta la decisione? Nessuno può assicurare sia quella giusta ma “c’è una dignità nel rischio”, come ha ricordato Zoe Brennan Krohn, avvocato per i diritti dei disabili dell’American Civil Liberties Union.
Si impara e si cresce solo a furia di scegliere e di sbagliare, libertà che a lei come a tanti altri sono negate in nome di una presunta protezione. E allora, l’alternativa è fra un mondo che accoglie, accompagna, tende la mano e un mondo che separa e isola, tacita e costringe. Che cosa vogliamo per Britney Spears? E che cosa vogliamo per noi stessi?