Speciale
Monticchiello / Paesi e città
A Monticchiello si arriva percorrendo una strada che sembra un serpente tra campi dorati di grano tagliato e radi alberi e cespugli. È un paese medievale di antica cultura agricola riposto nella Val d’Orcia, una terra un tempo dura, oggi da cartolina. Da quarantasei anni questo borgo che d’inverno arriva a malapena a duecento anime è sinonimo di Teatro Povero. A gennaio ci si ritrova in settanta-ottanta, quasi la metà degli abitanti, vecchi, adulti, giovani, bambini, per pensare allo spettacolo da mettere in scena in piazza tra la fine di luglio e la prima quindicina di agosto. La cronaca, già intinta di mito, parla di feste e rappresentazioni popolari che negli anni caldi intorno al 1967 sentono il bisogno di raccontare le trasformazioni che stava vivendo il paese, andando a scandagliare la memoria del passato, le “radici”. Dal dramma storico si passa all’“autodramma”, alla messa in scena di sé, dei propri problemi di piccola comunità in via di estinzione.
I toni saranno sempre quelli di un’autoanalisi tesa e inventiva che spazia dalle crisi economiche attraversate con la fine della cultura mezzadrile e dell’economia contadina al ricordo delle tradizioni, dalla favola arguta all’analisi storica al dibattito di questioni contemporanee. Sono stati trattati la guerra partigiana e l’assedio a Monticchiello di Carlo V, le lotte per la terra degli anni ‘50 e l’emigrazione succeduta alla sconfitta dei lavoratori e pure la crisi di ispirazione del Teatro Povero in anni in cui sembrava aver già parlato di tutto. Negli ultimi anni non si è taciuto sulle polemiche e sulle divisioni nate all’interno della comunità in seguito al progetto di costruzione di novanta nuovi appartamenti in un complesso definito “ecomostro”, un insieme di case basse che appaiono paradisiache a chi vive in una qualsiasi periferia di città italiana, ma che qui sembravano un oltraggio alla conservazione del paesaggio. Già, ma conservare vuol dire tenere in vita un tempo che non c’è più, e emigrare, magari, per andare a lavorare a Firenze o a Siena, o trovare i modi (quali?) per rimettere in moto l’economia?… Questione controversa, accentuata dalla presenza di seconde case di illustri villeggianti delle capitali che oltre al paesaggio vedrebbero minacciati i loro “buen retiro”“ da avanguardie del vituperato turismo di massa... Non se ne esce: e Monticchiello mette la questione in scena in uno spettacolo intitolato A(h)ia (2007), dando spazio, dialetticamente, alle diverse posizioni.
I traumi di questo piccolo mondo, trasformatosi da una vita regolata sul duro lavoro di campi a cultura estensiva (ereditati ancora dai romani e dal medioevo) a paradiso di agriturismi di qualità, forniscono i soggetti e gli umori agli spettacoli del Teatro Povero: di conseguenza, possiamo dire che il paese può essere raccontato dalla storia di quegli spettacoli come raramente avviene in altri luoghi d’Italia (i copioni, dal 2001, si possono leggere sul sito). Negli anni la cultura contadina diventa sempre di più una specie di paradiso perduto, anche se nessuno ne dimentica la precarietà e la fame. Ma Monticchiello non sta fermo: in scena accanto a anziani campioni come Alpo Mangiavacchi, defunto di recente, uno degli ultimi “balzellini”, intermediari e cantastorie che narravano i fatti e combinavano matrimoni, ci sono sempre giovani e ragazzi che perpetuano una tradizione fatta di voglia di lavorare insieme, di trasmettere lingua e esperienza e di ragionare sui nuovi scenari, polemizzando anche, dicendo la propria, sempre, in modo collettivo. I testi e gli spettacoli sono firmati “autodramma ideato, scritto e realizzato dalla gente di Monticchiello”, senza nomi di interpreti e registi. A gennaio si inizia a mettere mano all’idea che porterà al copione: quello definitivo, interpretato sempre da una quarantina di attori, nascerà da discussioni accese, perfino da scontri, da aggiustamenti continui.
Lo spettacolo di quest’anno parla dell’apocalisse della crisi, del timore per un mostro che non dominiamo e che sembra straziarci, divorarci. Ma la situazione internazionale e quella nazionale vengono rivissute riprendendo un’antica, sapida, divertente favola, che già era stata messa in scena, con altri echi, qualche anno fa: quella di Campriano contadino. Il Campriano di oggi è un cassaintegrato, un licenziato o forse un esodato che prova a campare vendendo vasetti di miele fatti nel podere. Al posto degli antichi speziali che provano a comprarglielo frodandolo, guadagnandoci oltre il dovuto, ci sono tre tipi di pescecani contemporanei: il politico che parla di figli e parenti da sistemare, il tecnocrate che punta tutto sulla comunicazione, l’esperto di alta finanza, il più vorace di tutti, con figli avviati a diventare sciacalli, iene, avvoltoi… Tutti e tre fanno offerte indecorose per il miele, e il buon contadino le rifiuta con sdegno, ricordando anche le lotte del passato. Il piano realistico, quello favolistico, quello simbolico-onirico si intrecciano continuamente in una recitazione epica, sotto luci cariche di colore da melodramma, in una scena semplice, con interni disegnati in modo naif rivelati via via e una tenda di fondo che genera spettri di un presente minaccioso o cari fantasmi di antenati consiglieri.
Il novello Campriano, spinto dal bisogno, farà di necessità virtù, accettando le proposte dei tre delinquenti (sempre più al ribasso), ma frodandoli, a sua volta, mettendo sotto uno strato superficiale di buon miele dello sterco. La storia prosegue con beffe successive agli speziali che vanno da lui a protestare e che Campriano attrae con oggetti “miracolosi” sempre più mirabolanti, fino alla trombetta che resuscita i morti: i tre la proveranno sulle mogli, dopo averle debitamente uccise, ma esse non ne vorranno sapere di tornare a vivere. La storia prosegue in modo divertente e indignato. Lo spettatore ne accetta le ingenuità, i (non troppi quest’anno) momenti predicatori, trasportato dalla passione dei quasi sempre convincenti attori, dalla loro lingua carica di umori e di immagini che figurano una domestica confidenza col mondo. Soprattutto si trova davanti a un teatro diretto, forse poco raffinato formalmente ma efficace, che dà voce a ansie comuni senza banalizzare.
Tornano i temi più brucianti degli ultimi anni, per un luogo proclamato patrimonio dell’Unesco e simbolo dei borghi abbandonati: la necessità di difendere il territorio di questo paese intatto, con la sua splendida struttura medievale, e le campagne intorno, ma anche la domanda di come si faccia se i suoi abitanti per sopravvivere devono andare a lavorare altrove. E i cascinali come utilizzarli? Trasformarli in agriturismi è un po’ stravolgerli. A pochi chilometri da qui c’è il sogno di città ideale rinascimentale: Pienza, di cui Montalcino è una lussuosa frazione. La città voluta da Pio II oggi è un succedersi di affittacamere e negozietti di souvenir e cibi locali, con le strade avvolte da un odore penetrante di pecorino (il famoso Pienza). Le linee matematiche volute dal papa umanista sono nascoste da frotte (quest’anno meno numerose) di turisti. Non si nega a nessuno un tuffo nel passato, sia quello dell’arte e della cultura, sia quello della campagna di un tempo. Solo che quel mondo non c’è più: e a Monticchiello, perlomeno, il problema se lo pongono. Ogni estate.
Palla avvelenata è intitolato il lavoro di quest’anno, come l’unico gioco che si può ancora fare in un Paese che sta perdendo la voglia di vivere e che tutto intossica grazie a un’economia drogata. Si può vedere fino al 14 agosto (pausa 30 luglio e 6 agosto).