COMPLEX TV / Moriremo tutti!
Non molti giorni fa qui abbiamo letto del libro di Marco Malvestio Raccontare la fine del mondo. Non c’è dubbio: nella nostra filogenesi è profondamente installato questo sentore della fine del tutto, che proietta nella nostra specie l’angoscia per la nostra morte corporea individuale. Darwin, Freud e Haeckel sono stati ovviamente aggiornati al momento dalla biologia evolutiva dello sviluppo, ma questo assillo del “potrebbe succedere all’improvviso qualcosa di catastrofico cui sarò impreparato” (che da “naturale” nel tempo si è implementata di svariate catastrofi cosmiche… meteoriti… comete… alieni cattivi…) è nel nostro inconscio, e fluisce variamente – di inconscio collettivo junghiano parlando – in molte creazioni letterarie e cinematografiche.
Il dominio delle piattaforme in abbonamento, e la discesa nel campo produttivo di Hbo, Hulu, Netflix, Apple TV, Disney+, amazon Prime, Sky sta trasformando la stessa definizione di cinema: film stupendi come Dune di Denis Villeneuve (qui parleremo di tendenze attuali della sci-fi) sono paradossali: lunghissimi come minutaggio da sala, si trovano rinviati a nuovi episodi in un finale del tutto sospeso, che ha senso in una logica di complex tv; ma il respiro estetico del film è squisitamente “cinema”, soprattutto per la possibilità di ingaggiare un cast di attori stellare, con interpretazioni certamente eccezionali e costose; sarebbe improbabile avere Chalamet, Zendaya (che dalla complex tv arriva), Brolin, Rampling, Goslin, Bardem per 10 ore di girato, forse 20 o 30 se la prima stagione funziona in audience. Improbabile il dispendio produttivo per strabilianti special effects (35 addetti!), per le scenografie e i costumi sontuosi, o per i davvero unici ipertecnologici sound effects (41 addetti!).
Serie tv sci-fi come Foundation, invece (tratte dal ciclo di Asimov come Dune viene dal ciclo di Herbert) hanno invece realizzato perfettamente la mutazione della saga cinematografica in più film in una serie tv dal grande respiro cinematografico. Gli autori Josh Friedman e David S. Goyer si accontentano di avere la sola star Jared Harris e riescono a darci una visione di una umanità di molteplici popoli colonizzatori della galassia che regge molto bene il raffronto con Star Wars (e i suoi spin-off recenti, da The Mandalorian al nuovissimo Boba Fett) e Dune. In questo filone c’è una umanità che colonizza, che va in giro per le galassie, e che ovviamente incrocia in qualche caso specie aliene, ma le costanti sono sostanzialmente tre:
- un impero centralizzante maschilista e autoritario, sleale e con turpi segreti in genere ipertecnologici;
- una opposizione repubblicana, femminista, empatica e inclusiva gli si oppone con pochi numeri e risorse ma con il supporto di straordinari poteri spirituali/religiosi garantiti da:
- una religione spirituale e piuttosto non tecnologica che somiglia alle mistiche pagane, mediorientali o asiatiche (lo zen degli jedi monaci guerrieri in Star Wars, le dee madri e le sacerdotesse politiche in Foundation e Dune).
Qui vorrei dire la mia (non ce n’è uno fra noi che non si sia fatto una opinione piuttosto personale su questo film) su Don’t Look Up, arrivando poi a quelle che sono le serie tv e film di fantascienza lunari al momento più plausibili (non posso dire “probabili”) e inedite: For All Mankind e The Silent Sea (più l’imminente Moonfall di Roland Emmerich che esce a febbraio 2022 e che mette insieme catastrofe terrestre e Luna, in modalità furbissima e non improbabile).
Torno al tema iniziale dell’angoscia filogenetica della catastrofe del nostro amato e bistrattato pianeta. Non dobbiamo essere pro o contro Don’t look up, perché in realtà io penso che si tratti del primo prodotto che patisce la mutazione genetica in corso: infelice di tanti film in serie tv mancate e felice di tante serie tv in storytelling esteso. Come si potrebbe avere per una serie tv un cast che mette insieme Di Caprio, Lawrence, Streep e Blanchett? Impensabile, come budget. Eppure, questo “film” avrebbe bisogno di molte più ore per non apparire schizzato e in tanti passaggi assurdo, financo pacchiano. Ci sono tre sequenze scritte, girate e recitate in modo fenomenale:
- la presidentessa Streep che sembra uscita da vp e che riceve affiancata dal figlio spin doctor insopportabile (Jonah Hill in caratterizzazione comica gustosissima) i due scienziati nervosissimi che annunciano che tra sei mesi la Terra verrà spappolata da una enorme meteora in orbita diretta e che qualcosa bisogna tentare;
- i due scienziati che in diretta al talk show “giornalistico” annunciano la catastrofe nella più totale atarassia salottiera dei due conduttori e in cui Lawrence sclera umanissimamente sputtanando la tv etiquette; dopo che la star anchorwoman e cougar Blanchette ha adescato sotto il tavolo lo stupefatto Di Caprio;
- in un’altra diretta del talk show “giornalistico” Di Caprio sclera in una davvero memorabile invettiva contro il muro di gomma del sistema mediatico e politico alla verità di una vera imminente morte di tutta l’umanità.
Poi il montaggio scarta in siparietti di frame quasi subliminali più volte, per dirci che tante cose succedono ma che non c’è tempo per raccontarle, e la stessa catastrofe finale è precipitata in una interessante soggettiva globale, che lascia alla fine esterrefatti e insoddisfatti. Volete dirmi che Dan McKay, regista e sceneggiatore con David Sirota, è così stupido, dopo aver diretto film come Vice, da non essersi accorto di questi pasticci? Non credo: in questo caso le sue origini al Saturday Night Live contano; così come conti molto una certa predilezione di Netflix per il mockumentary, lo pseudo documentario che parodia la televisione e il giornalismo televisivo. Se però Borat ha reso unico il genere con il suo sacrificio nel farsi pagliaccio in pagliacciate che rivelano le pagliacciate vere del potere e del sistema mediatico, McKay e quelli di Death to 2020 (e del mediocre Death to 2021) sono certo cavie coraggiose di una mutazione genetica in corso tra vari sottogeneri.
Cosa conta in Don’t look up? Conta Leonardo Di Caprio, che nel film è attore che impersona un personaggio verissimo e che nella sua realtà di cittadino civilmente impegnato combatte contro le ipocrite resistenze capitaliste allo stop del degrado climatico planetario. Quello che per la prima volta vediamo rappresentato in Don’t look up è proprio la incapacità del social networking istantaneo globale di metabolizzare l’eccezione alla eccezionalità continua del tragico commisto allo stupido, del vero commisto al falso, del banale commisto all’inedito. È un lavoro che ci svela che il cielo più pericoloso, che non guardiamo, è proprio quello dentro di noi, è proprio la nostra metacognizione ontogenetica ad essere anestetizzata dalla distrazione cognitiva globale. Quello che dice Don’t look up è poco fantascientifico e molto umanistico: quando staremo per morire non saremo pronti, e quando anche avessimo il tempo di prepararci a morire tutti di colpo, faremmo gli struzzi (e gli stronzi). Solo Lars von Trier dieci anni fa in Melancholia aveva rallentato l’attesa della apocalisse astronomica, ed era riuscito a farne una morbosa, psichica predisposizione alla morte di ognuno insieme a tutti.
Ora, occhi alla Luna.
Di For All Mankind è imminente è la terza stagione. Qui siamo in alternate history: come sarebbe andata se la NASA non avesse rallentato la sua corsa alla Luna già dagli anni Sessanta? E i russi sovietici l’avessero costantemente seguita e sfidata? Saremmo a una palese colonizzazione della Luna, con le prime estrazioni minerarie, continui viaggi e ritorni di navicelle con equipaggi, soldati nelle missioni lunari che si sparano e muoiono in un silenzio surreale. Le vite private degli astronauti, il loro sogno di andare e tornare e restare sulla luna sono la stoffa della serie. Qui arriviamo a problemi oggi appena accennati da veritiere legislazioni per l’extra pianeta: la Luna è come un territorio di nativi da rubare e spartirsi creando una nuova mappa di confini difesi con le armi? Di risorse necessarie alla vita sulla Terra come a successive esplorazioni nello spazio? Gli episodi di Guerra Fredda si moltiplicano nello spazio e sulla superficie lunare: scienziati e tecnici americani e russi si legano per stima e amicizia e cercano di frenare la brutalità scontrosa dei militari. Le donne sono finalmente ovunque: sulle astronavi, sulla Luna, ai vertici della NASA dopo che von Braun ha lasciato lo scettro. La seconda stagione arriva ai tempi di Reagan e Andropov: (1983). Si immagina che forse, finalmente USA e Russia collaboreranno. Nessun alien, nessun mistero: è l’umanità che esporta se stessa e i suoi conflitti nella prima stazione del cosmo. Ultima sequenza: un drone che si alza in verticale dalla tomba monumentale di John F. Kennedy e sale tra le nuvole… su… su… verso Marte… sino ad atterrare e a inquadrare lo stivale di un astronauta: sarà il 1995.
La fucina del nuovo cinema coreano ha già prodotto il fenomeno seriale Squid Game; ora le serie coreane sono sbarcate sulla Luna. Con The Silent Sea possiamo cominciare a capire quanto Squid Game non sia un unicum; le nuove generazioni di registi e sceneggiatori coreani stanno affrescando un grande, tragico quadro del capitalismo ipertecnologico, e leggono il dolore sociale e individuale che un sistema economico e digitale produce; è qualcosa di paragonabile alle generazioni di registi e sceneggiatori italiani (sopra tutti Pasolini) che dopo il 1945 raccontarono la vera storia contemporanea di un’Italia che in pochi decenni si ristrutturava con una “terraformazione” filoamericana dei sostrati di cultura popolare autentica. Come nell’agenzia spaziale giapponese del filone nipponico della serie Invasion, anche in Corea le donne sono al vertice: amministratrici delegate delle agenzie, astronaute, scienziate nei centri di controllo. Ma non sono necessariamente le buone contro il potere maschilista; il punto di partenza è una catastrofe plausibile del pianeta Terra; il cambiamento climatico ha prosciugato tutte le risorse idriche, fiumi laghi e oceani, e l’acqua è diventata bene prezioso; viene distribuita con il contagocce con carte annonarie; i pets sono vietati; chi è ricco beve quando vuole e sta meglio, chi è povero può morire disidratato.
Una missione, con sospette intrusioni nell’equipaggio all’ultimo istante di membri militari antipaticissimi, deve recarsi sulla grande stazione lunare, per indagare su un “incidente” gravissimo che ne ha comportato la chiusura. La produzione è risparmiosa, gli effetti speciali sono pochi, e prevale l’angoscia di thriller claustrofobico nello spazio profondo. Come nell’episodio nipponico di Invasion la Terra viene salvata dall’amore di un’astronauta e di una ingegnera spaziale, qui il legame profondo tra due sorelle motiva l’inserimento nella missione di una astrobiologa che se ne stava sulla Terra, contenta della sua dose privilegiata d’acqua. Regista Choi Hang-Yong, sceneggiatore Eun-kyo Park. Protagonista un’altra bravissima fotomodella scarna, Bae Doona (già in Sense 8). L’agenzia spaziale ha deciso di autorizzare cose molto brutte, ma a fin di bene per la Terra, e i cattivi sono una società privata con i suoi soldati mercenari. Devo dirlo? Ma sì: sulla Luna c’è acqua ghiacciata! come hanno svelato poche settimane fa sonde cinesi sul lato oscuro del nostro satellite grigio. Il sentimento sororale e materno della scienziata salverà una strana bimba, e più non dico.
Questo è quello che si è visto. Si sono visti già, infine, i primi cinque minuti integrali del nuovo blockbuster catastrofico di Roland Emmerich, regista di Stargate (1994), Independence Day (1996) e Independence Day. Resurgence (2012), Godzilla (1998), The Day After Tomorrow (2004), 2012 (2009) … dopo tutte queste sue catastrofiche anticipazioni di imminenti catastrofi siamo ancora qui, eppure questa volta gli ricrederò di nuovo un po’, per due ore almeno: in Moonfall due astronauti fischiettano in attività extraveicolare riparando l’IIS quando una botta spaventosa di un apparente flusso compatto di detriti spaziali li strappa agli ancoraggi…. Emmerich in una intervista a “Vanity Fair” ha detto che lui ai complottismi crede sempre un po’, perché pensa che siano un po’ come le calunnie… qualcosa di vero in fondo in fondo ci sarà. Così, certo, vedremo che il lato oscuro della Luna è scavato da una gigantesca spaventosa installazione aliena, che a un certo punto dirotterà come una Morte Nera la dolce Luna contro la Terra.
Al punto di partenza quindi torno: se non ci estinguerà il Covid dovrà bene estinguerci qualcos’altro, e gli alieni cattivi fanno sempre spettacolo. Ma non vi scoraggiate: gli alieni cattivi vanno, gli alieni buoni restano e resteranno insieme a noi, sulla Terra, parola di plausibile complottista.