Motta di Livenza / Paesi e città

22 Dicembre 2011

Mita, Mota, Mata, da due fiumi sei bagnata

dal Livenza e ‘l Montegàn, tuti i mati i sta in Alban.

 

Parto da questo motto-scioglilingua locale, dal bilinguismo italiano-dialetto, per parlare del mio paese, perché in esso è contenuta, in geografia e idioma, tutta la mia vicenda umana. E incomincio dai versi centrali dello stesso: il paese in cui vivo è bagnato da due fiumi, il, o meglio, la Livenza, al femminile come qui si usa (fiume dalla duplice sorgente di natura carsica sita nella località friulana di Polcenigo; sinuoso il suo corso, verdastro, assiepato di salici, con continue morbide anse sino alla foce di Caorle) e dal Monticano, che di sorgenti ne ha addirittura tre, sulle pendici del piccolo monte Piai, presso Vittorio Veneto; fiume che, a due passi da dove vivo, viene a confluire proprio nella Livenza. Parto dai fiumi anche perché hanno una certa rilevanza nella storia dello stesso: la Livenza circoscrive il nome del paese, altrimenti abbastanza comune (secondo la maggioranza degli storici l’etimologia del toponimo deriverebbe da Motha, altura, dosso di terra; secondo altri da palude fangosa, mota) in una zona specifica del territorio italiano. Se il nome del paese derivasse da altura, esso si sarebbe rivelato alquanto beffardo, in quanto il territorio è un ampio catino, più basso del corso dei suoi fiumi, tant’è che nella notte del 5 novembre del 1966 l’argine destro della Livenza ruppe causando una inondazione che è ancora impressa nella memoria dei cittadini.

 

 

Parlare di un paese (pur a volergli attribuire la più nobile nomea di cittadina) implica anche parlare di provincia, non necessariamente di quale provincia, ma nel termine che la definisce: di territorio conquistato; e parlando di un paese o di una cittadina posta nel cuore pulsante, vorrei dire, ormai, nel cratere spento del nord est, significa parlare anche di una provincia particolare: già luogo di campagna, culla della millenaria civiltà contadina, divenuto, dagli anni ‘70, motore del miracolo economico dei distretti industriali del legno, ha visto il suo territorio subire una trasformazione epocale: da ampi spazi aperti occhieggianti, fra filari di viti e siepi, allo skyline delle prealpi, a un asfittico reticolo asfaltato cinto di capannoni e centri commerciali, fitto di rotonde. Vivere qui è stato adattarsi a questa rapida metamorfosi del paesaggio e del gesto umano, del lavoro e del passatempo. Ecco che l’Alban del motto in epigrafe, diventa concretamente l’area posta a sud del paese (che inizia proprio dove i suoi due fiumi si abbracciano), in un rettifilo che porta sino al confine con l’abitato di Cessalto, detta Albano, ora un’ampia zona industriale (luogo dove era operante l’azienda per cui ho lavorato, per vent’anni, sino alla fine del 2009, quando fallì, lasciando a casa le sue ottanta maestranze).

Forse siamo noi i mati di Motta del motto in questione, quelli che sta in Alban? Noi che abbiamo creduto nell’immortalità del sogno del nord est, continuando a vagare stolti fra un capannone e un centro commerciale, fra un pannello o un’antina da pressare, da verniciare, e un mobiletto, una specchiera da acquistare il sabato per i nostri asfittici appartamenti in cartongesso? Noi che ci urtiamo l’un con l’altro per passare da una camera al bagno, che ci rubiamo lo spazio vitale e ci becchiamo come le galline quando la stia è troppo angusta?

 

 Parlare del nord est è dover dire, citando l’antropologa Nadia Breda, di canìba, di genti disposte a sacrificare la propria madre, la terra, traviati da un sogno di fine della fatica, di grandezza industriale. È parlarne con dolore, perché è stata e continua ad essere terra amata, luogo di bellezza ancora tangibile. Si provi a seguire il corso della Livenza, lungo i suoi alti argini, verso l’abitato di Lorenzaga, nello sguardo può ancora fluire un incanto (vi ho portato alcuni amici poeti a passeggiare insieme, e tutti ricordano il luogo con affetto e meraviglia); parlare del nord est è dire del mutamento antropologico così tanto indagato da Zanzotto, nella sua opera poetica, e ancor più nei suoi interventi, è dire di lance a recintare minuscoli eden privati, piccole arcadie intrappolate fra scatoloni di cemento, rombi di tir e fumi di un traffico congestionato, dove i cani abbaiano rabbiosi.

 

 

Ogni paese si congiunge all’altro attraverso questa rete, questa ragnatela di distretti e strade, di botteghe e recinti; perde i suoi confini, si dirama in un qualcosa di conformato in cui è più facile perdersi, perdere i riferimenti, la propria unicità. Si realizzano piste ciclabili, perché sennò passeggiare o percorrere le strade in bici o in motorino equivarrebbe a votarsi al suicidio; parlo di un paese e sto dicendo i difetti di una città, proprio perché il paese, ogni paese, si vergogna del suo stato, che sente inferiore, vorrebbe diventare grande, fitto di luci e insegne pubblicitarie, di vitalità, e rischia così di perdere la propria anima, di diventare, allora sì, solo la periferia di una comunità. Mi sembra stia accadendo questo. Anche a Motta, nel centro storico, negli ultimi mesi sono morte diverse botteghe, e a pochi chilometri da qui, nel paese di Giacomo Noventa, è sorto da tempo uno di quei villaggi outlet, con la finta chiesa, il finto campanile… di villaggio di cartapesta all’Alban di ogni paese, tutto si chiuderà, si accorperà, e la tanto decantata identità andrà a farsi friggere nei calderoni di un qualche McDonald’s.

 

 Chissà se questa crisi ci salverà. Chissà se occluderà gli ugelli del ragno.

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