New town, retoriche e abbandoni
Sono passati dieci anni dalla frana di Cavallerizzo, il piccolo centro calabro-albanese, in provincia di Cosenza, scivolato via nella notte tra il 6 e il 7 marzo del 2005. Una catastrofe prevedibile, e prevista, che ha messo in fuga e frammentato una comunità. La Protezione Civile diretta, allora, da Guido Bertolaso, adottò Cavallerizzo come laboratorio per mettere a punto il proprio “metodo ricostruttivo”, già sperimentato a San Giuliano e poi, anni dopo, consolidato a L’Aquila. Oggi Cavallerizzo è una new town: guarda, come in uno specchio, l’antico borgo abbandonato. Tutti gli sfollati hanno avuto una casa, sono al sicuro, ma molti di loro sono andati via, scegliendo di non trasferirsi in paese che non sentono proprio, che non assomiglia a quello che hanno perduto e che, dal 2013, il Consiglio di Stato ha dichiarato abusivo. Ho seguito, osservato, studiato la vicenda di Cavallerizzo sin da quella notte. Questo è il breve racconto di questi dieci anni, la storia dolente delle persone e della vita di un luogo che è uscito da sé.
Cavallerizzo vecchia vista dal nuovo abitato. Aprile 2013
Il rantolo del Drago
Pioveva, come pioveva quella notte, San Giorgio martire, patrono di Cavallerizzo, come urlavano i burroni, quella notte tra il 6 e il 7 marzo del 2005. Neppure i grandi e gli anziani ricordavano una pioggia a tratti fitta e insistente, poi lieve e penetrante, che durava da giorni e non accennava a «cedere». E, certo, l’acqua del cielo metteva paura perché incontrava quella che sbucava dalla terra, che inghiottiva il cemento, che penetrava nelle case e che non faceva sperare nulla di buono per un paese che da anni, da secoli, a quanto pare, rischiava di franare, di crollare. Cavallerizzo, piccola comunità calabro-albanese di meno di trecento persone (oggi, ndr), aveva imparato a convivere con la frana della collina su cui poggia fin dal XV secolo. Con cura, con attenzione e con l’aiuto miracoloso di San Giorgio, che uccide il Drago, minacciando e insieme avvertendo la comunità della sua stabilità precaria. Non sono una novità, in Calabria, l’urlo del torrente, lo scroscio improvviso delle acque, il rumore delle pietre che scendono dalle montagne e trascinano tutto a valle. Interi paesi sono stati inghiottiti, spostati, divorati dalla forza delle acque in una terra mobile e ballerina, che ha reso inquieti, precari, in fuga anche i suoi abitanti. L’urlo del torrente, come scriveva Corrado Alvaro, il «ringhio del drago», «Rrëkimi i Dragut», come dicono gli albanesi di Calabria, fa parte della memoria sotterranea delle popolazioni. Il rantolo del drago diventava più forte quella notte e sembrava, forse in un momento di riposo di San Giorgio, capace di uscire e di divorare quanto incontrava in giro.
Processione di San Giorgio a San Giacomo di Cerzeto, 23 aprile 2006
Il disboscamento incontrollato, l’occultamento delle acque, le nuove costruzioni in cemento armato proprio sull’area franosa, lo svuotamento progressivo del paese per emigrazione, l’incuria di alcuni amministratori che non avevano preso sul serio le avvertenze della natura, le strade che si spaccavano, le case che si abbassavano, le avvertenze inascoltate di tecnici e ingegneri, che però si scontravano con i pareri di colleghi che rassicuravano: a Cavallerizzo, come ho raccontato in questi anni, tutto è apparso come la «cronaca di una morte annunciata». E da un romanzo alla Marquez sembra uscito Domenico Golemme, zio di Graziano, conosciuto come Burithi. Burì-u in arbërisht, in lingua albanese: la talpa, il «suriciorvo», topo orbo, a cui era stato dato il compito di vigilare insieme a tanti ragazzi e ragazze del paese. Aveva sistemato i tubi dell’acqua, e si era recato a casa per riposare attorno alle sei della sera. Sapeva che non avrebbe chiuso occhio, ma almeno avrebbe ripreso fiato in previsione della veglia notturna sul paese. Quando si alzò e uscì, la frana era ancora più vistosa, il terreno si stava abbassando. Domenico si mise a suonare i citofoni delle porte, a bussare, a urlare nella notte: «Correte! Correte! Il paese se ne sta andando». Correva la talpa, andava più veloce del drago, magari non lo avrebbe vinto, non lo avrebbe sconfitto, ma avrebbe fatto in modo che non inghiottisse la gente.
Processione di San Giorgio a Cerzeto, verso cavallerizzo, 23 aprile 2006
Restare uniti
Era l’alba quando le case cominciarono a crollare, a sfarinarsi, a inviare rumori dolorosi: dal muretto di Cerzeto la gente guardava, piangeva, si abbracciava. I soccorsi furono veloci: arrivò la Protezione Civile, i politici locali e regionali, qualche deputato e ministro, gruppi generosi di volontari, ma fu la gente di Cavallerizzo, con in testa ragazze e ragazzi, a portare assistenza, a sostenere gli anziani, a pensare subito al da farsi, a quel “dopo” catastrofe che, come ben sa la Calabria, metafora dell’Italia, diventa quasi totalmente altro dal “prima”. Le donne e gli uomini di Cavallerizzo si affacciavano per guardare il paese muto, sbilenco e chiuso, dal muretto di Cerzeto, divenuto un piccolo muro del pianto per una popolazione che conosce nel proprio linguaggio l’espressione «il nostro sangue è sparso», («gjahku ynëi shprishur»), che racconta la coscienza di appartenere a una comune etnia, a una cultura, a una lingua, a una tradizione, mai venute meno, nonostante mille dispersioni.
La Frana di Cerzeto, 2005
Nei giorni successivi alla frana, si teme il peggio, la fuga, la fine di un universo. Decisiva è l’opera di raccordo del Comitato Cittadino per Cavallerizzo, presieduta dal parroco don Antonio Fasano. La gente vuole decidere, riorganizzare, gestire la propria sventura e il proprio destino. La parola d’ordine è: restare uniti, non disperdersi, vedersi. Mantenere la comunità richiede uno sforzo enorme, convinzione, fiducia. La quasi totalità delle famiglie vuole restare a Cavallerizzo. Il paese deve essere ricostruito là dove è nato e dove è sempre vissuto. «Cavallerizzo resta dove sono le nostre case, i nostri morti, dove tornano gli emigrati», dice la gente e in questa direzione si adopera il Comitato insieme alle autorità romane e regionali.
La Frana di Cerzeto, 2005
Retoriche della ricostruzione e problemi della conservazione
Molto presto cominciarono però ad arrivare le voci che la frana non si è fermata, cammina, si allarga. In luglio, a pochi mesi dalla frana, la Protezione Civile annuncia la delocalizzazione (brutto termine) in località Pianette, non lontana dall’abitato. Ma già nei giorni successivi alla frana, alcuni giovani di Cavallerizzo erano andati a visitare (su suggerimento di chi e perché, dal momento che ancora si parlava di ricostruzione in loco, non è dato ancora sapere) la ricostruzione di San Giuliano di Puglia. Quando viene decisa e comunicata la delocalizzazione, in pratica uno sfollamento forzato, la gente si abbandona alla disperazione, al pianto, all’amarezza. Dopo mesi trascorsi a Cerzeto, comune di cui Cavallerizzo è frazione o altrove, avevano pensato a un ritorno nelle loro case. Ma di fronte a valutazioni presentate come “scientifiche” e ineluttabili, la maggior parte delle famiglie accetta il trasferimento (Progetto Cerezeto). I responsabili del Comitato di Cavallerizzo sono i più attivi nel sostenere le famiglie, nel fornire dati e notizie, nell’opporsi a ostacoli che arrivano dall’Amministrazione, ma anche nel tenere rapporti diretti con le autorità regionali, prefettura, Curia, e soprattutto con Guido Bertolaso, che a più riprese viene a visitare gli sfollati, il vecchio abitato e il luogo della ricostruzione, accolto come un eroe, come un santo protettore, come colui che decide in fretta e si impegna a fare velocemente. Per gente in esilio, disseminata, sparsa, senza casa e senza più nulla, la soluzione della delocalizzazione appare amara ma necessaria, anche se nascono i dubbi, le incertezze, le critiche di chi ancora crede che la ricostruzione del paese sia possibile. Quando si comprese che il ritorno nel vecchio abitato non sarebbe mai avvenuto, gli abitanti di Cavallerizzo affermarono con forza: non pensate di mandarci in case dormitorio, di darci palazzoni a più piani, tutti uguali, inabitabili. La gjitonia, il secolare sistema abitativo e culturale delle comunità albanesi, diventa la parola più ripetuta tutti. Non c’è persona, adulta o giovane, che non la rimpianga, che non ne sogni il ripristino, nell’antico paese o, in caso d’impossibilità di recupero, nel nuovo luogo dove si andrà a costruire. L’idea, il modello, il sogno, il mito, la nostalgia della gjitonia in qualche modo svolgevano una funzione di rassicurazione e affermavano un bisogno di presenza. Non a caso. In albanese una stessa radice linguistica «gj-i» è la base da cui si formano i termini che stanno per casa, stalla, parentela, vicinato, gente, nazione. Probabilmente chi vuole procedere in fretta nella ricostruzione, proponendo come inevitabile la delocalizzazione, intercetta o fa finta di intercettare, stravolgendo e strumentalizzando, la storia e il senso di appartenenza delle persone. Per Cavallerizzo la nostalgia autentica delle persone che soffrivano non è diventata una risorsa comune, è stata usata e intrappolata per creare qualcosa che non è né antico né nuovo.
Il nuovo abitato e sullo sfondo l'antico
La presentazione alla popolazione del progetto viene fatta proprio il giorno dell’anniversario della frana. L’architetto Laura Spalla di Roma, incaricata dal Soggetto Attuatore, presenta alla popolazione il progetto preliminare per la nuova Cavallerizzo: la somma prevista per la delocalizzazione verrà fissata in trentasei milioni e settecento mila euro. Di fronte a tanta enfasi su quello che veniva definito «il modello Cavallerizzo» scrivevo che l’unicità e la complessità della gjitonia rendeva impossibile qualsiasi ricostruzione automatica. Peraltro lo schema abitativo e antropologico delle antiche gjitonie era stato eroso da profondi processi di trasformazione, dall’esodo, dall’affermarsi di nuovi criteri abitativi (le case fuori del paese che lasciano vuote quelle dell’interno), dalla fine di antichi legami. Tutto questo non vuol dire, allora – come pretendevano i tecnici impegnati nella ricostruzione – “conservare”, ma significa rinnovare, innovare, e anche inventare, tenendo conto della storia e dei desideri della gente. Ricostruire e rifondare, come sanno le popolazioni arbëreshë, non è un fatto tecnico e materiale, comporta gesti sacrali, rituali, simbolici. Ricostruire non significa gettare cemento; significa creare le basi per una nuova socialità, alimentare la memoria del passato e anche la speranza del futuro, studiare strategie economiche per vivere in maniera dignitosa. Ricostruire è un fatto fondante, impegnativo, delicatissimo, forse incomprensibile a quanti privilegiano l’ottica economicistica. Certo, trecento persone sono poche, ma ogni storia, ogni famiglia, ogni speranza non ha prezzo, non va valutata con la logica del profitto e dei benefici economici.
Cerzeto vecchio e nuovo abitato
New town
La posa della prima pietra nella zona industriale avviene il 7 marzo 2008. Il 5 febbraio del 2011 ha inizio la consegna degli alloggi della new town e, nel corso dell’anno, vengono assegnate le altre abitazioni. Prima della frana, a Cavallerizzo si contavano 105 famiglie; adesso, nella new town, su un totale di 264 case, le famiglie presenti sono 85. La popolazione talmente presente è passata da oltre trecento prima della frana a circa duecento di adesso. Alla fine, a quanto pare, sono stati spesi più di settanta milioni di euro.
Franco Gabrielli durante il sopralluogo a Cavallerizzo insieme al Prefetto di Cosenza e al Sindaco di Cerzeto, febbraio 2011
La comunità si è lacerata, frantumata. Una ventina di famiglie, residenti al momento della frana ed emigrate, non hanno accettato la nuova ubicazione. Alcuni tra i membri di queste, nell’aprile del 2007, hanno costituito l’associazione Cavallerizzo Vive. Antonio Madotto, Massimo Figlia e altri esuli ed emigrati inventano iniziative per prendersi cura del vecchio borgo, dove dal 2008 hanno riportato la festa di San Giorgio. Alcuni sognano e immaginano il ritorno. La signora Liliana Bianca vi abita con il marito e un figlio. Nella sua casa, integra, ma senza acqua e senza luce, considerata abusiva e un pericolo per le autorità che applicano le regole solo con i più deboli. Carmelina Bruno, la donna che anticipa e vive nei suoi sogni il destino del paese, che vive nella nuova Cavallerizzo per necessità, criticando le scelte compiute, sogna il ritorno. La ritrovo, affettuosa, attiva e combattiva come dieci anni addietro. Dalla casa in cui vive, scorge l’antico paese, lo fissa, si amareggia, si commuove, pensando alla modesta e antica casa che almeno parlava di vita, di storie, di affetti. «Questa non è vita. Questa è morte, sepoltura, sepolti vivi, ci hanno sepolti vivi, accanto non è stata costruita neanche una chiesa, nessuna opera pubblica, qui non esiste un’opera pubblica a parte queste costruzioni, questo cemento armato, queste costruzioni, non sappiamo con quali prodotti. La chiesa non c’è perché la Protezione Civile quando è venuta, aveva un progetto già pronto. A San Giuliano, in Africa, dove succedeva qualcosa, portavano quel progetto. Hanno detto: cosa facciamo adesso qua? Aggiustiamo il vecchio paese o rifacciamo il nuovo paese? Facciamo il nuovo paese perché si guadagna di più no?». Carmelina sogna San Giorgio imbronciato e che non vuole venire nel nuovo abitato. Carmelina è stata sempre attenta ai sogni e ai segni, ma ha avuto sempre una lucida visione di quanto è accaduto e accade.
Nel maggio del 2008, l’Associazione Cavallerizzo Vive presenta un ricorso amministrativo contro la delocalizzazione al TAR del Lazio. Comincia un iter giudiziario che si conclude l’11 dicembre 2013, con la sentenza definitiva del Consiglio di Stato: il Verbale della conferenza dei Servizi, che aveva approvato il progetto definitivo della new town, è annullato perché la richiesta di Valutazione di Impatto Ambientale non era stata inoltrata. In altri termini, la new town sarebbe sorta abusiva e resterà abusiva senza una sanatoria a posteriori della Regione. Se l’abbandono di un paese era apparso come la cronaca di una morte annunciata, la costruzione del nuovo abitato sembra la cronaca di una ricostruzione annunciata. Che la buona fede, il bisogno di avere un sito, siano stati in qualche modo strumentalizzati, diventa più di un sospetto dopo le vicende avvenute a L’Aquila, che hanno scoperchiato il modo di procedere della Protezione Civile e del gruppo Anemone. Da un punto di vista urbanistico, architettonico, di organizzazione dello spazio, il nuovo abitato non ha nulla delle antiche gjitonie, non assomiglia nemmeno a una loro caricatura. Non si poteva trapiantare un paese, ma qui è stato costruito qualcosa di informe, un non luogo, modello sperimentale per new town successive, speranzosamente attese da imprenditori che si fregavano le mani ad ogni scossa di terremoto. Un non luogo deserto, chiuso, senza persone per le strade, con scritte «si vende» e «si fitta». Carlo Calabria, geologo esperto di Cavallerizzo, scrive:
«Non c’è più un luogo fisico comune a tutti dove potersi rincontrare, non c’è una fontana, un muretto e le poche panchine sono in un anonimo spiazzo dove sarebbe dovuta sorgere la Chiesa. Ci sono soltanto una serie di case tutte uguali, sia nella forma che nel colore. […] Il vecchio centro abitato è stato depredato di tutto; l’unica parte rimasta intatta è piazza San Giorgio e le strade limitrofe, solo perché ci vive ancora una famiglia, il resto è vera e propria vergogna».
Il vecchio abitato – dove è stato scoraggiato e ostacolato ogni ritorno anche occasionale, anche per la festa di S. Giorgio, la cui statua è ancora conservata nella chiesa del vecchio paese – giace nell’immondizia e nell’incuria e guarda come un fantasma antico il suo doppio spettrale e postmoderno.
Ritorno nel vecchio abitato per la festa di San Giorgio, Cavallerizzo antica 2009
Nel municipio di Cerzeto ho incontrato Lucio Tudda: dopo la frana ne ho ascoltato i racconti sui giovani che si trovavano nel suo bar per discutere e farsi coraggio. Mi ha accolto con calore, anche se l’ho visto un po’ triste. Con don Ennio Stamile, che continua a seguire le vicende di Cerzeto e Cavallerizzo, vengo ricevuto dall’ing. Giuseppe Giunta e da Graziano Golemme. Li ho conosciuti indaffarati, presenti e attivi nel Comitato, combattivi con l’allora sindaco che ostacolava, come dicevano, la ricostruzione di Cavallerizzo. Adesso Giunta è assessore alla ricostruzione e Graziano Golemme, che sognava di partire dopo la laurea, e dopo aver ricostruito il paese, si occupa di raccolta differenziata ed è sempre in testa a coloro che hanno spinto per la costruzione della nuova Cavallerizzo. Giuseppe Giunta ricostruisce le vicende di questo decennio. Non è tenero con il Comitato Cavallerizzo vive, con alcuni esponenti della Chiesa, con gli emigrati, che avrebbero ostacolato la ricostruzione della comunità e avrebbero creato divisioni e ritardi. Una versione speculare e opposta a quella di Madotto e Figlia.
Nella chiesa del Santo, Cavallerizzo antica 2009
I protagonisti della ricostruzione difendono con orgoglio la loro scelta e sono contenti del risultato ottenuto perché sostengono che, con il loro operare, hanno salvato la comunità, hanno impedito che si dissolvesse. Ammettono errori e anche un risultato urbanistico, forse, deludente rispetto alle aspettative, ma adesso pensano che esista una base per ripartire. Tutte le famiglie hanno ormai una casa. Si tratta adesso di ricostruire la comunità, di occuparsi, finalmente, del vecchio paese e di impegnarsi per avere una chiesa, senza la quale i giovani e le persone soffrono, soprattutto in occasione delle feste. Ascolto e, però, lo ammetto, non trovo risposte a tante domande, nemmeno ai tanti dubbi posti da chi non ha accettato la delocalizzazione.
Ho seguito le vicende di Cavallerizzo dal giorno dopo la frana fino a oggi. L’ho fatto con un senso di vicinanza e di partecipazione, prima che come studioso e come osservatore. Ho raccontato storie, leggende, memorie, dolori, speranze, sogni, attività della gente di Cavallerizzo. Ho scritto anche dei rischi possibili della dispersione, anche in presenza di buone e sane intenzioni, e ho anche assistito impotente alla nascita di un abitato che poteva essere costruito bene, per accogliere tutti e senza conflitti, senza abbandonare le ragioni di chi la pensava diversamente. Resta il dubbio che le decisioni dal basso, presentate come democratiche, prese dalle persone e dalle famiglie di Cavallerizzo, in realtà, fossero falsate da valutazioni mai rese note, da decisioni, presentate come inevitabili. La democrazia, in presenza di una scienza, di una tecnica, di una politica che non informano e corrono, è fasulla, alterata, inesistente. In questo decennio abbiamo saputo, dopo l’Aquila, dopo le tante emergenze, le tante frane e i terremoti che hanno devastato il Bel Paese, cosa significassero l’efficientismo, il decisionismo, il procedere senza vincoli e senza regole. Abbiamo visto che a quella di Cavallerizzo sono seguiti la frana di Maierato, di tanti paesi calabresi, e poi i disastri della Sicilia e della Liguria.
Franco Gabrielli consegna le chiavi dei nuovi alloggi, febbraio 2011
Dieci anni dopo
Dopo dieci anni, un esilio senza approdo, almeno per sessanta defunti, fatiche e generosità di tanti abitanti, conflitti e delusioni, lotte nei tribunali e sul web, la domanda resta quella di dieci anni fa: come costruire una nuova comunità che non smarrisca il legame col passato? Ci si può rammaricare e indignare, si può e si deve pretendere che se qualcuno ha sbagliato renda conto e si assuma responsabilità, ma bisogna guardare avanti, partire dall’esistente. Il nuovo abitato, certo, adesso, non può essere demolito, la gente che lo abita e magari ne è contenta, ha sofferto abbastanza, non saprebbe dove andare. L’antico paese interroga e forse aspetta un qualche parziale risarcimento e riconoscimento. La lezione che si deve trarre è che il ritorno è impossibile, ma che ascoltare chi ne propone le ragioni è essenziale. E che la prevenzione e la cura, soltanto, possono impedire lacerazioni, sperperi, nuovi disastri.
Occorre intercettare le tante nostalgie positive e creative che arrivano da chi è rimasto e da chi è partito. La «nuova Cavallerizzo» avrebbe bisogno di nuovi centri sociali e di aggregazione, di spazi culturali pubblici, di una nuova socialità, di riguadagnare relazioni e legami, memorie e un rapporto vero ed autentico con l’antico abitato. Comprendendo che il vuoto e la solitudine sono la condizione non solo della nuova Cavallerizzo (anche il vecchio abitato aveva la metà delle case vuote) ma dei tanti paesi e centri che conoscono una grande crisi demografica, fenomeni di spopolamento e depauperamento delle risorse. Cavallerizzo, tutti noi, abbiamo bisogno di una classe politica capace di darsi obiettivi, di immaginarli e perseguirli con una sensibilità eccezionale, per tentare di mettere assieme ciò che resta di tante schegge sparse, per avviare un processo di riconciliazione.
I primi passi, nel caso di Cavallerizzo – mi dispiace constatarlo – non sono incoraggianti; a dieci anni della fine del paese, la Giunta comunale di Cerzeto, in una Calabria che cammina e frana, non ha trovato di meglio che dare (con delibera del 17 febbraio 2015) la cittadinanza onoraria al dott. Guido Bertolaso:
«in considerazione dell’opera prestata alla popolazione di Cavallerizzo a seguito dell’evento franoso del 7 marzo 2005 fino alla completa sistemazione della popolazione mostrando, al di là dei compiti istituzionali previsti un volto umano e una passione civile simbolo di uno Stato paterno e non patrigno».
Non c’è da commentare. Questa terra che trasforma in eroi fondatori quanti hanno contribuito a renderla irriconoscibile a se stessa, privandola di memoria e futuro, sembra, davvero, non avere più fiducia, né desiderio di camminare da sola, magari cominciando a denunciare l’invadenza e la prepotenza di questo Stato tanto paterno, troppo paterno.