New Yorker da Saul Steinberg a Chris Ware
In un testo scritto da Chris Ware come introduzione al catalogo di una mostra dedicata a Saul Steinberg egli descrive perfettamente quanto gli sia debitore e come sia avvenuta questa fascinazione per il disegno.
“Come tanti ragazzini degli anni Settanta, ho incontrato per la prima volta i disegni di Saul Steinberg sulla copertina del “New Yorker”. O, per meglio dire, per la prima volta ho visto le riproduzioni a stampa dei suoi disegni sulle copertine del “New Yorker” affisse dappertutto sulle pareti del bagno dei miei a Omaha, in Nebraska. (…) Mi sarei scervellato a lungo su immagini che torreggiavano non soltanto sulla mia prospettiva di bambino, ma anche oltre i limiti della mia comprensione” (in Riga 43. Saul Steinberg, Quodlibet 2021).
Nella sua casa americana degli anni ’70 Chris Ware ogni giorno contemplava le copertine del New Yorker plastificate nelle pareti del bagno così come le aveva sistemate sua madre. Un’abitudine che era piuttosto comune all’epoca non solo in America.
Anche noi attaccavamo alle piastrelle i gadgets dei fumetti che trovavamo allegati alle riviste e ai giornalini. Non si dà mai abbastanza importanza alla riflessione che si struttura con l’osservazione attenta dei disegni in luoghi come il bagno di casa, ma Chris Ware lo fa nel suo testo e non lo fa ingenuamente, tutt’altro. Dà a quel gesto di sua madre tutto il ruolo che ha avuto nella sua formazione successiva di autore di Graphic Novel.
Il disegno concettuale di Steinberg è un testo a tutti gli effetti ed è proprio questo valore intrinseco al disegno a far scattare la molla di un’adesione completa a questa accezione del senso del disegno come scrittura nel giovane Ware. Lo fa attraverso la costruzione di tavole articolate dove il senso di lettura è pianificato attentamente anche nelle sue infrazioni e diramazioni che nell’apparente ordine ci dispiegano il disordine che è il disordine quotidiano in cui siamo immersi.
Chris Ware vuole rappresentare questa aperta contraddizione e lo fa con i suoi strumenti, i classici strumenti del disegnatore, la matita blu, illeggibile nelle fasi di stampa, il pennino a china con cui traccia articolazioni geometriche precisissime sia nelle figure che negli ambienti spaziali e il lettering vero e proprio in cui compone titoli, testi, e grafiche.
Cerca di dimostrare apertamente come a una logica ferrea, quella di uno scrittore che ha un precisissimo piano dell’opera, corrisponda il caos del presente, quello della vita familiare, delle relazioni sociali, delle relazioni pubbliche, quello che ci circonda abitualmente nelle nostre stanze, nelle nostre case e uffici… Infatti come Ware cerchiamo di mettere in ordine, siamo più o meno ordinati, cerchiamo di attenerci a regole, a leggi che intervengono a dirimere questioni a diversi livelli, ma a tutti i livelli verifichiamo ogni giorno la loro inadeguatezza, inadempienza, impossibilità di interfacciarsi con le persone, gli individui e la loro intrinseca complicazione disordinata. Le storie di Chris Ware affascinano e restiamo ammirati dal rigore, dalla precisione imparziale della geometria che è la medesima nel tracciare i volti, gli occhi, il naso… dei personaggi come di assonometrie di stanze, edifici, mappe… titoli…
Cronista del quotidiano che annota nei suoi scketchbook, scorre poi le storie una a una nei suoi libri divenuti giustamente dei casi letterari e vincitori di premi e riconoscimenti letterari. Durante la sua visita guidata alla mostra che gli ha dedicato il Paff a Pordenone (Chris Ware, “La prospettiva della memoria”, a cura di Luca Raffaelli), a chi gli chiede se prima scriva i testi e poi li disegni, il suo sguardo esprime un interrogativo cui è proprio difficile rispondere, come alla famosa domanda se sia nato prima l’uovo o la gallina
Dalle pareti del suo bagno dove la ammirava si ritrova lui stesso a essere il protagonista delle copertine della celeberrima rivista “The New Yorker”! Senza dubbio alcuno comprendiamo al volo la risposta. Possiamo confrontare quelle di Steinberg con le sue e verificare immediatamente il medesimo senso del grande potere del disegno di poter definire il mondo esattamente come i cartografi o i grafici, ogni disegno è una trascrizione di un concetto prima di tutto, perché di fatto non esistono le linee nella realtà, ma noi riproduciamo la realtà attraverso le linee fin da bambini, fin dalle prime manifestazioni di comunicazione umana nelle caverne. Senza bisogno di commenti verifichiamo la stessa ironia con cui Ware guarda al mondo e ai suoi simili, non sentendosi diverso, ma come tutti ne comprende i limiti e le assurdità di abitudini e atteggiamenti.
Ascoltando Chris Ware mentre presenta la sua ultima mostra europea dopo Parigi e Basilea a Pordenone sentiamo trasparire la grande ammirazione verso Steinberg anche negli oggetti e produzioni limitate che combinano il disegno bidimensionale con la tridimensionalità. La libertà di invenzione infatti non ha limiti e, come in Riflessi e Ombre (Saul Steinberg con Aldo Buzzi, Adelphi, 2001), si comprende come anche le regole della percezione guidano il nostro occhio e sono comprese dal nostro cervello che le interpreta e infatti ne gode! Chi entra nel gioco e segue il processo ha una sensazione di conquista di senso, la stessa di chi risolve un rebus. Seguiamo voluttuosamente le linee, le forme, gli incastri e certo ci piace che qualcuno ci abbia messo alla prova. È una sfida che accettiamo ben volentieri quella che ci lancia Chris Ware. Il piacere è intellettuale prima che emotivo, ci si arriva attraverso una mediazione razionale che rende ancora più esaltante la sua scoperta. Per comprendere bene cosa si intende faccio il confronto tra le opere di Raffaello e Piero della Francesca. La dolcezza degli sguardi delle figure di Raffaello, la morbidezza delle linee e i contrasti di colore sempre perfetti ne fanno uno degli artisti più richiesti e più copiati, infatti sono opere quasi “grafiche” da quanto è perfetta la calibrazione dei pesi compositivi e dei piani in cui sono collocate le figure le cui relazioni sono sempre intellegibili. Le opere di Piero della Francesca sono invece misteriose, non è sempre chiaro tutto quello che succede e soprattutto nessuna delle figure ha un rapporto con le altre e nemmeno con il fruitore. Gli occhi non incrociano mai uno sguardo e si sottraggono così a una esegesi basata appunto su aspetti emozionali. L’emozione è filtrata da una mediazione più cerebrale, ma attraversare questa soglia significa penetrare con altre vie il senso conturbante dell’opera. Chris Ware ha un approccio analogo, in cui la nitidezza, che può apparire algida, della linea socchiude questa ricchezza di gradi emotivi non urlati o patetici, ma appunto controllati e intimi. Le sue non sono storie cerebrali, ma hanno trame molto vicine ad episodi di emarginazione, di bullismo o delle incomprensioni, le abitudini, i gesti, le storture che fanno parte del nostro quotidiano. Raccontano qualcosa di cui sappiamo già qualcosa.
In Quimby the Mouse, troviamo tutta quella che chiamiamo passione, ossessione, per i fumetti stampati nei giornalini e nei quotidiani. Nelle pagine formato tabloid, il personaggio è una speciale rielaborazione di Mickey Mouse, che nella matita di Chris Ware non è più l’espressione disneyana dell’America benpensante e maccartista, il mitico protagonista eroe senza macchia e senza paura di tante avventure, il topo disegnato come un teorema di geometria, ecco, no, per Chris Ware, come per molti altri grandi autori che lo hanno rivisitato nella scena underground non solo americana, rappresenta la quintessenza della mistificazione borghese, quanto di più lontano dalla realtà in cui erano invece immersi i tanti suoi lettori.
Ma, oltre a Topolino, sono molti i riferimenti dei personaggi di queste tavole, e la tradizione per l’uso caricaturale degli animali antropomorfi ha radici lontane ed era molto diffuso tra i vignettisti satirici. Non possiamo non citare l’amatissimo Krazy Kat di George Herriman, alla base di tante invenzioni delle tavole di Quimby the Mouse in cui le vignette sono piccolissimi tasselli di una sequenza che verrebbe voglia di vedere proiettata al cinema. Una sequenza animata di fotogrammi così ci folgorano per la straordinaria ricchezza di particolari e di gag che hanno qualcosa che ci ricorda il cinema delle origini, però steso su carta… C’è qualcosa che ci unisce a Chris Ware, la stessa voglia di fare fumetti, di ricreare dei mondi in tavole che riecheggiano quelle delle pagine delle riviste, con le pubblicità, gli editoriali, che nel caso di Quimby the Mouse sono un lungo ininterrotto memoriale.
E poi le tavole sinottiche, l’amore per la grafica descrittiva che trasuda in ogni particolare delle tavole… ecco, ci riconosciamo contagiati dalla stessa virale influenza del fumetto. Un fenomeno editoriale che negli Stati Uniti appare eccentrico, vista la portata dell’industria del fumetto che ne fa il mercato più forte al mondo. Certo, Chris Ware non è l’unico, ci sono casi che infatti fanno parte di quella cerchia di autori come Robert Crumb, Art Spiegelman, David Mazzucchelli, Richard McGuire… Ware ne parla dicendo che avverte una rete che lega tra loro gli autori di fumetto, un mondo che sente certamente vivo e vitale a differenza di quello dell’Arte, per cui nutre, come del resto anche Steinberg, una certa diffidenza e cita a questo proposito, e questa frase ci resta particolarmente impressa: Perché stare a guardare scomodamente un quadro appeso alla parete, quando è molto più comodo leggere seduti dei fumetti?.
Seguendo la visita guidata di Chris Ware alla mostra citata, sprofondo nelle tavole a tutta parete di Joanne Cole, uno degli episodi della “saga” di Rusty Brown, pubblicata nel corso di diciotto anni su Acme Novelty Library e Chicago Reader, quindi raccolta in un unico volume, pubblicato in Italia da CoconinoPress nel 2019. Joanne Cole è la maestra di Rusty Brown. La sua personalità spicca dentro la scuola frequentata dal giovane Rusty, abituata a lottare per difendersi e superare i numerosi ostacoli dovuti a pregiudizi razziali e situazioni drammatiche, in una società in cui continuano gli atti discriminanti a cominciare proprio dall’istituto scolastico, composto in prevalenza da alunni bianchi. Guardando le grandi tavole gli pongo direttamente una domanda che mi sorge spontanea: “Perché le tavole sono disegnate una sotto l’altra, mentre sia nel layout, ben costruito fin dallo schetch book, e poi nel libro pubblicato si fronteggiano?”. La risposta mi sorprende. Le ha disegnate già pensando al loro sviluppo orizzontale, quindi le parti si giustappongono perfettamente per come saranno stampate nel formato definitivo. Ma visivamente e anche proprio esposte sono bellissime e perfette anche così.
Non possiamo che tornare a pensare agli effetti nella fervente mente di Chris Ware delle copertine del “New Yorker” con i disegni di Saul Steinberg appesi nel bagno di casa. E se…