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Occhio rotondo 10. Neve
C’era una volta la neve. Scendevano copiosi e magici i suoi fiocchi. Tutto era ricoperto da un’immensa coltre bianca. Ogni volta che Luigi Ghirri fotografa una nevicata evoca l’infanzia: la gioia di vedere che tutto il mondo là fuori è sospeso. La vita sembra arrestarsi di colpo. Il mondo non è più il solito mondo di tutti i giorni, al suo posto c’è un altro mondo dove correre, rotolarsi, lanciarsi a vicenda palle di neve, costruire pupazzi. Il tempo della neve è sempre stato un tempo felice, un tempo mitico, anche se da ragazzi nessuno conosce ancora questa parola. Felicità sì, ma senza saper dire perché. Mitico no, non c’è nel vocabolario dei bambini: il sentore della cosa sì, ma non la parola che la dice.
La neve è una macchina del tempo, ci riporta là dove tutto sembra cominciare. Ghirri ha fermato sulla pellicola l’immagine d’un piccolo campo di calcio (o forse da pallamano o da calcetto). La porta emerge dalla neve, mentre in primo piano c’è un cumulo bianco smosso; forse è passato lo spazzaneve, che l’ha ammucchiata sul ciglio della strada. Non si capisce bene: la neve modifica la dimensione degli spazi.
L’incanto è una delle prerogative della fotografia di Luigi Ghirri. Sembra che scattando col suo obiettivo Ghirri reciti formule magiche. “Incanto” viene da “cantare”. Cantano le sue immagini: ammaliano, affascinano, seducono, abbagliano. “Giaceva/ fresca e scintillante/ e ognuno ne era abbagliato./ Ed era lei, la neve. La vera. / L’aspettavamo./ Era venuta”, così ha scritto il russo Evgenij Aleksandrovic Evtusenko in una poesia intitolata: Era lei la neve. Lei è sempre attesa, anche se ora nevica ben poco d’inverno.
Nel 1985, l’anno di questo scatto, ne era scesa tanta e Luigi era uscito per vederla e fissarla sulla sua pellicola. Oggi solo qualche spruzzata che si scioglie in fretta. Nella fotografia si vedono gli alberi, la rete metallica; anche questo è un suo motivo: un ostacolo che s’attraversa con lo sguardo. La coltre nevosa diventa una coperta stesa e la rete un lenzuolo tutto bucherellato. La neve crea intorno a sé il silenzio. In un libro ho trovato la spiegazione scientifica di questa quiete senza suoni: “i cristalli, nel legarsi tra loro a formare i fiocchi, catturano aria, la organizzano in spazi che assorbono il suono e impediscono alle onde sonore di rimbalzare facilmente come avviene in altre condizioni” (Daniele Zovi, Autobiografia della neve, Utet). I rumori risultano attutiti.
Non è forse quello che succede nella maggior parte delle immagini di Ghirri? Come potrebbe essere altrimenti? Nella fotografia non c’è il suono: le immagini sono mute. Ma davvero è così? Ci sono fotografi che fanno entrare nei loro scatti il suono del traffico o del lavoro umano, e anche i movimenti dei corpi.
Luigi Ghirri no. Lui sospende tutto in un’aura d’immediatezza e di continuità. Quello che vedi c’è e ci sarà per sempre. Tuttavia il tempo qui non è fermo, continua a girare, sebbene sul quadrante dell’orologio mentale di chi guarda le lancette si sono arrestate. Tutto è rallentato. Se anche ci mettessimo a camminare dentro la neve – un’immaginazione, certo, ma guardando la fotografia si desidera farlo. Se camminassimo dentro l’immagine, avanzeremmo a fatica.
Ha scritto Zovi che la neve separa il necessario dal superfluo. È così. La neve ci riconcilia con noi stessi. Così appaino le foto esposte al Palazzo Ducale di Guastalla nella mostra intitolata I sassi di Pollicino (a cura di Gloria Negri, testi di Franco Farinelli, Giorgio Messori e Daniele Benati). Tutto è assoluto e irripetibile nelle immagini di Ghirri appese ai vecchi muri del palazzo. Mentre guardo io so che una volta sono stato là. Dove non lo so. Nella neve.
In copertina, Campo di calcio con neve, © Eredi Luigi Ghirri.
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