A partire da Lampedusa
Il vento non ha tetto
né casa, e il vento
è una bussola per il nord
dello straniero.
Mahmoud Darwish
Un cellulare riprende i migranti a Lampedusa “ospitati” nel centro di primo soccorso e accoglienza della Contrada Imbriacola, denudati e lavati all’aperto per la profilassi contro la scabbia, contratta negli spazi stessi del centro.
Quel video offuscato racconta qualche minuto della vita sull’isola, il luogo in cui i migranti sbarcati vengono smistati per poi essere identificati. Il filmato racconta un momento di quotidianità. Nella doccia all’aperto, nello spogliarsi collettivo in giardino, non ci sono segni di violenza fisica, spesso presente negli spazi dei centri nei quali le parole “detenzione” e “custodia” sono sostituite da “ospitalità”; vi è l’umiliazione. Non è un caso che l’etimo di umiliare sia “humus”, suolo. Il terreno, il territorio diventano nelle pratiche di accoglienza un privilegio. Il viaggio, la migrazione, un peccato da scontare.
A seconda della provenienza o della storia (raccolta, trascritta, carpita in maniera sommaria nelle prime schede), del momento o della circostanza, degli spazi liberi o di quelli da occupare, grazie al grandissimo business dell’accoglienza che sta intrecciando appalti e corruzione nella Sicilia continentale, queste persone vengono spostate di volta in volta nei Cara, negli Sprar, nei CIE, o nei centri temporanei aperti e richiusi nel nulla nelle campagne o tra le piane calabresi, grazie a quella legge Puglia mai revocata, che rende centro d’accoglienza anche lo stadio (accadde a Bari nel 1995 per gli albanesi, oggi a Messina, nel catanese, nel siracusano), senza una definizione di prospettiva, di fine, di inizio, di futuro.
A volte, volutamente, il sistema non identifica, e permette l’ingresso, il passaggio e l’uscita per risalire lo stivale in balia di passeur, taxisti abusivi, per raggiungere e richiedere asilo altrove, magari in Svezia, o per immergersi nel mercato informale che cresce grazie alla manodopera senza diritti prodotta dalla legislazione sull’immigrazione. Poche immagini: corpi nudi nel vialetto, disinfettati. Nuda vita e nudità. Le parole di Hannah Arendt, scritte a ridosso della seconda guerra mondiale (in quel capitolo XI de L’origine del totalitarismo), descrivono con precisione la riproduzione dell’esclusione: “La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana”. I diritti, il mare, i naufragi. Quello che si vede nei pochi fotogrammi del video, è la routine. Lo è nei gesti degli operatori che invitano a lasciare i vestiti. Lo è nel silenzio generale in cui i corpi si mettono in fila.
L’umiliazione rende le persone, le storie, solo corpi. Li lava dalla dignità, dai diritti. Corpi da spostare, partiti dalla Siria, o forse ancora prima dalla Palestina, o dal Darfur, dal Saharawi, dall’Eritrea, dal Mali, dalla RDC, dalla Repubblica Centrafricana, dal Niger, che sono giunti sulle coste della Libia, nei porti dell’Egitto, sulle scogliere tunisine, e da lì si sono imbarcati. Corpi da identificare, collegando le impronte ad un paese dove stare per forza, grazie alle convenzioni di Dublino che prevedono che si possa richiedere asilo in un solo stato d’Europa, quello in cui avviene l’identificazione. Un solo suolo, un moltiplicarsi di umiliazioni. Corpi da trattenere, ad oltranza, imbrigliati nelle lentezze e nelle maglie del sistema. È di sabato la notizia del suicidio nel CARA di Mineo di un giovane eritreo di 21 anni (rimasto senza nome in tutte le cronache), ospite da maggio del centro richiedenti asilo che contiene circa 4000 persone, in uno spazio pensato per 2000. Quali umiliazioni, quali violenze sono sottratte alla ripresa delle telecamere tra gli spazi del campo in quel suolo senza diritto? Quanto accade e noi non possiamo o non vogliamo vedere? Quante storie sono tramutate in corpi? Quante vite sono ridotte a nudità, alla loro qualità meramente umana da spazi, pratiche e disciplinamenti?
Queste immagini arrivano a due mesi esatti dai due naufragi (3 e 11 ottobre) che hanno visto defluire sulle coste dell’isola, sulle stesse spiagge celebri per la deposizione delle uova di tartarughe, i cadaveri di oltre 300 persone, scatenando la commozione e l’indignazione collettiva. Strage, condizioni inumane, aiuti a Lampedusa, riconoscimento della cittadinanza ai defunti. E poi il silenzio.
Il diritto definisce il dove, sottende il come, allontana il quando il diritto alla migrazione - che si è festeggiato ieri nella giornata mondiale dei migranti - possa essere esatto. Darwish, poeta in esilio, poeta dell’esilio, chiede se l’impossibile sia lontano.
Ama un paese e lo lascia.
[L’impossibile è il lontano?]
Ama partire verso ogni cosa,
ché nel viaggio libero tra le culture
c'è posto per chiunque cerchi l’essenza umana.
C’è un margine che va avanti,
un centro che indietreggia.
Il margine da portare avanti è Lampedusa. Solo avvicinando il Mediterraneo il suolo si mescolerà al mare, e il centro, quella sovranità ostentata nelle pratiche, incisa sui corpi, potrà essere racchiuso nuovamente nelle maglie del diritto, dei diritti, rendendo l’impossibile più vicino, il viaggiare più sicuro, i corpi, le persone, le storie, più liberi. E spetta a noi, nelle nostre tiepide case, con il cibo caldo e i visi amici, rendere le isole meno lontane e fare avanzare quel margine, almeno sino alla soglia della dignità. Fino a quando questo non avverrà, sarà difficile trovare una lingua comune per i sogni, per i viaggi, per i diritti.
Dice: Sono di laggiù. Sono di qui,
e non sono laggiù né qui,
ho due nomi che si incontrano
e si separano,
ho due lingue ma ho dimenticato
in quale sogno.