Di cosa parliamo quando parliamo di Genova 2001
Quando non so da che parte iniziare, perché gli eventi sono talmente difficili da inserire in un racconto di senso, o in un’opinione politica, o in un pensiero compiuto, allora, di solito, mi affido alle parole di altri, più autorevoli, che permettono di guardare gli eventi con lenti diverse e trovare, spesso un sottile filo di senso. È così per Genova e per i fatti dei giorni del luglio 2001. Avevo diciannove anni, litigato per settimane per poter andare.
Alla fine avevo ceduto e accettato di finire sul lago di Garda, a passare un week end lontano “dai pericoli”. Così, il televisore di quei giorni mi ha raccontato un pezzo della mia storia che si è incrociato indissolubilmente con il mio presente di quei giorni, e soprattutto con l’oggi. Perché, a distanza di 13 anni, non si può non parlare, riflettere, ragionare o non pensare a Genova. Quando le questioni restano aperte, solo molte parole condivise possono cercare di dare un senso, o una posizione, o provare a costruire qualche pezzetto di narrazione politica, facendosi aiutare.
Stanley Cohen è stato un sociologo sudafricano che ha affrontato due tematiche molto distanti all’apparenza: il primo lavoro, Folks devils and Moral Panic, è stato uno studio sulle forme di criminalizzazione dei Mods e Rockers nella Brighton degli anni sessanta. È grazie a lui che sono state coniate due etichette che hanno descritto per anni le pratiche di controllo sulle espressioni di pensiero giovanile da parte dello Stato: da una parte, infatti, vi sono i Folks devils. Sul fronte opposto, lo Stato propone il panico morale come strumento di controllo e di legittimazione della repressione. Il secondo testo, a cui ho pensato molto in questi giorni di anniversario, affronta le forme di rimozione della sofferenza nella società contemporanea con il libro Stati di negazione uscito nel 2001.
Se l’anno può apparire una simbolica coincidenza, il contenuto del saggio, nello specifico, si sofferma sulle forme di diniego prodotte dalle vittime e dai segmenti di società che hanno rimosso o negano le azioni di violenza di stato poste in essere dai cittadini che svolgono funzioni di pubblici ufficiali.
L’autore chiede di “dire la verità”. In quell’idea del vero, che io posso declinare solo come tentativo di realtà storico-politica e non di verità assoluta, si racchiude un corollario: è dicendo la verità che si potrà fare memoria, non per forza giustizia. Per lui è quella la vera differenza, poiché ricordare gli eventi traumatici con una descrizione veritiera può svolgere una funzione preventiva, l’unica alla quale ci possiamo affidare. Perché se le istituzioni repressive continuano a riproporsi, la società deve fornirsi e dotarsi di antidoti democratici, attraverso la produzione di una storia condivisa da parte di tutte le componenti sociali coinvolte, siano esse le vittime o le istituzioni repressive.
Sono trascorsi 13 anni dai giorni di Genova. I colpevoli di scelleratezze passate sono stati portati davanti alla giustizia in tre grandi processi: “Alimonda”, “Diaz” e “Bolzaneto”, ma la ritualità processuale non ha restituito la condivisione di una storia, né tantomeno di una giustizia. Possiamo decidere di ripercorrere le vicende storiche per come sono arrivate da video, testimonianze, materiale documentale. Tutti abbiamo visto, e abbiamo cercato un senso nel mezzo delle narrazioni offerte dai mass media, dalle componenti politiche. Poi si sono cercati i nomi da dare alle cose. Si è fatto ricorso a “notte cilena”, “macelleria messicana”: tutti lemmi inadeguati perché connessi a regimi dittatoriali e ad esercizi della forza e abusi tesi alla legittimazione di un potere autoritario e alla costruzione di un regime di paura nei cittadini. Processo inadatto a raccontare l’Italia di quei giorni, che si muoveva e si è mossa in una dimensione formalmente democratica. È come se vi fosse stata un’improvvisa eclissi, un corpo scuro, come racconta Dürrenmatt, che altera i rapporti di forza, per poi uscire dall’orbita e riportare uno stato di apparente quiete. Ed è stato così repentino il cambiamento, così forte l’emozione avversa e la sproporzione tra le azioni e gli abusi, che si è chiesto al diritto di mettere ordine, di raccontare gli eventi, di creare memoria dove la storia appariva più nebulosa e macchiata di ombre, e di sangue.
Genova ci rivela, infatti, un diritto limitato, al quale mancano le parole per descrivere completamente e correttamente i fatti avvenuti. Questo per due ragioni: la prima è che gli eventi di quei giorni hanno rappresentato un unicum nella storia democratica italiana, e il sistema era impreparato a immaginare simili violazioni in un contesto di democrazia. La seconda ha natura più ontologica: ammettere l’esistenza dei crimini di stato e formalizzarne lo statuto giuridico, significa implicitamente affermare che “il re è nudo”, ma soprattutto che la democrazia può essere intrinsecamente ingiusta, sospesa, nuocere ai cittadini. Poi ci sono ragioni meno nobili, come una pigrizia del legislatore che spesso si può leggere come dolosa, e che ha permesso il permanere nell’ordinamento di istituti emergenziali del tardo periodo fascista, come il reato di “devastazione e saccheggio”, ma dall’altra parte ha sempre faticato a recepire riforme in discussione in parlamento da anni, come le molteplici proposte di legge in materia di reato di tortura.
Per questo, il diritto penale italiano non è stato in grado di trovare le parole per quella verità, e di cercare di ricucire il vulnus di fiducia tra cittadini e Stato. Le sentenze raccontano gli eventi con il vocabolario che è messo a disposizione dei giudici istruttori, ma è come se mancassero i vocaboli, come se la narrazione fosse monca e scarseggiassero gli aggettivi. Eppure nei faldoni, nelle migliaia di pagine di deposizioni e udienze ci sono tutte le descrizioni di quello che è avvenuto, dai poliziotti del Bolzaneto che accolgono i fermati dicendo “Benvenuti ad Aushwitz” o “Siete arrivati nella casa del lupo”, al non aver fornito cibo, acqua, presidi igienici (come gli assorbenti) nei giorni della reclusione.
Ci sono i referti dei crani lesionati dai manganelli, degli occhi nei quali sono stati spruzzati spray urticanti. C’è la diretta di Radio Gap dal Media Center, con la polizia che entra in assetto anti-sommossa. È tutto lì, sono stati tutti stati riconosciuti a livello di risarcimenti, ma non di responsabilità penale e politica. Lo vediamo, lo abbiamo visto, e molti di noi, della nostra generazione, l’hanno vissuto. Eppure le parole della legge mancano, non c’è un termine corretto nel codice penale. Ci si arrabatta con altre fattispecie, che non sono sufficienti. È come voler rattoppare con pezzetti di stoffa troppo piccoli, assolutamente inadatti e già logori.
Dare i nomi alle cose, chiamare le azioni delittuose con il loro corretto nome, significa riconoscere gli eventi, e la dignità delle vittime e del loro vissuto. Se le parole mancano, viene meno la funzione compensativa della giustizia. Se una persona che è stata torturata non vede riconosciuto il torto subito come un’azione gravissima, un trattamento inumano e degradante, ma semplicemente come una lesione, come potrà ripristinare il legame sociale con lo Stato, che è in ultima istanza responsabile per quelle medesime lesioni? Come potrà non coltivare un sentimento di vendetta, un’emozione avversa? Diventa necessario, oggi più di ieri, che la politica si adoperi per riempire quel vuoto, sia rispetto agli eventi passati, ma anche in una prospettiva futura, per scongiurare l’idea del “mai più”. E la politica, in questi tredici anni, ha sempre scelto di non aprire quel discorso fatto di responsabilità, di risposte, di scelte consapevoli e di cambiamenti.
Così, i giudici dei tre gradi di giudizio, nel corso dei processi, hanno registrato e descritto nei faldoni processuali tutta l'incapacità del nostro ordinamento di prevenire e reprimere in maniera efficace le violenze arbitrarie, fisiche o morali, inflitte dalle forze dell'ordine alle persone che si trovano a vario titolo sotto il loro controllo. In particolare, sono emerse l’inadeguatezza dell’apparato sanzionatorio vigente (basti pensare che l'art. 608 c.p. “Abuso d’autorità contro arrestati e detenuti” prevede la pena della reclusione fino a trenta mesi, dunque inferiore sia nel minimo che nel massimo a quella prevista per il furto semplice); la scandalosa disciplina della prescrizione del reato, ed infine i retaggi culturali che hanno sempre visto giudici restii a punire la divisa, e che hanno creato un’area di impunità che non solo ha ricoperto gli eventi di quei giorni, ma che si è protratta anche successivamente, rispetto a tutti gli episodi di questi tredici anni in cui le forze dell’ordine hanno esercitato in modo discrezionale l’uso della forza, sfociando in abuso, sia nella gestione dell’ordine pubblico e dei Folk devils (dai casi degli stadi, alle proteste studentesche dell’Onda, fino alle recenti mobilitazioni del 15 ottobre e alla vicenda No tav), ma anche nella gestione delle persone in situazione di privazione della libertà personale (ricordiamo gli abusi del carcere di Asti, le vicende Aldrovandi, Cucchi, Uva, e tutte le famiglie che hanno visto parenti e cari vittime di abusi in divisa). La Costituzione impone un solo obbligo di incriminazione all’art. 13 comma IV: "è punita ogni forma di violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà" (art. 13 co. 4 Cost.).
È la norma di chiusura che avevano scelto i costituenti, ben consapevoli delle torture subite negli anni del fascismo, ma anche alle prese con un ottimismo nato tra le montagne della resistenza. Nelle parole della Costituzione c’era l’illusione del “mai più” e per questo non era stata inserita la norma di chiusura, l’imprescrittibilità dei reati commessi dai pubblici ufficiali, unita alla previsione del reato di tortura. È il 1960 quando questo tipo di azioni vengono messe in campo di nuovo, nella prima eclissi della giovane Repubblica. Il governo Tambroni si regge con l’appoggio dell’MSI. A Reggio-Emilia, allo sciopero generale indetto dalla CGIL, aderisce il 90% dei lavoratori. La prefettura aveva concesso una sala del teatro Ariosto, troppo stretta per contenerli tutti. E il mattino era stato l’ordine di “sciogliere con la forza qualsiasi assembramento non autorizzato”. Così, il 7 luglio 1960, la polizia carica con idranti e lacrimogeni. E poi spara. Spara, ferisce sedici persone, uccide 5 giovani operai. I molti testimoni, e due poliziotti, accusano un commissario di polizia di aver dato l’ordine di sparare.
La testimonianza dei due poliziotti non viene considerata attendibile, e il commissario viene assolto perché, secondo il giudice estensore Paolo Curatolo, erano state trovate delle “prove tranquillanti” della sua innocenza: che avevano sparato anche i carabinieri, e che lui, il commissario, aveva la voce rauca la sera perché aveva urlato di non sparare. Il diritto trova parole per coprire le azioni delle forze di polizia, costruisce una verità di stato per cui se si ha la voce rauca allora si è ordinato di non sparare. La verità storica è un’altra. La memoria di Reggio-Emilia pure. Anche la risposta politica è arrivata in quella situazione: il governo Tambroni si dimette a seguito dei fatti, viene eletto un nuovo governo, e si dà inizio alla stagione calda che sfocerà nello Statuto dei lavoratori del 1970, e poi negli anni di piombo, seconda grande eclissi repubblicana.
Nel 1960, il diritto risulta inadeguato, protettivo rispetto agli apparati. Produce prove tranquillanti. La politica però si assume la responsabilità di quegli eventi, e per la pace sociale si dimette un governo in carica.
Negli anni 2000, il diritto ha tentato di trovare le forme per allontanare quella cultura della violenza che si accompagna alla forte idea di impunità, ma gli strumenti sono inadeguati, soprattutto perché non c’è nessun appoggio politico in grado di sostenere una battaglia che è soprattutto culturale. Ci si sta appellando a un altro diritto, un diritto europeo, che tenterà di colmare quel vuoto. Sono attesi, infatti, i ricorsi a Strasburgo presentati dalle vittime delle violenze perpetrate dalla polizia durante l'assalto alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto.
Tra i quesiti che la Corte europea – adita dai citati ricorsi – ha notificato al Governo italiano nell'esercizio dei propri poteri istruttori, si richiede l'adeguatezza della normativa penale nazionale a sanzionare i trattamenti contrari all'art. 3 della Convenzione. La Corte ha chiesto all'Italia di spiegare se «la legislazione penale italiana, considerata nel suo insieme, ivi compresa la disciplina della prescrizione dei reati ai sensi degli artt. 157-161 del codice penale, garantisce un adeguato trattamento sanzionatorio della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti ai sensi dell'art. 3».
Qualora la Corte europea giudicasse inadeguata la repressione delle gravi violazioni dei diritti fondamentali perpetrate durante il G8 (come è assai probabile che accada, considerato che proprio la prescrizione dei reati in questione rappresenta uno dei parametri che fondano la violazione degli obblighi procedurali ex art. 3 Cedu), l'Italia potrebbe venire condannata non più soltanto al risarcimento del danno morale a favore dei richiedenti; ma anche all'adozione di misure di carattere generale idonee a prevenire, in futuro, nuove violazioni sostanziali e procedurali dell'art. 3 Cedu. Il che si tradurrebbe, in ultima istanza, nell'obbligo di dotarsi di un sistema repressivo adeguato a sanzionare le condotte in questione con pene efficaci, anche interdittive, destinate ad essere realmente eseguite.
Sarebbe un cambiamento importante, ma non basta. Manca la memoria, e manca la risposta politica. I giorni del G8 versano ancora in uno stato di negazione, che ha conseguenze quotidiane sul presente. Non si può demandare al diritto di rimediare alle inefficienze e di operare solo sull’emergenza. Non si può pensare che quelle vicende si possano dire concluse, perché i riverberi di quella cultura dell’impunità, di quell’assenza di una condanna netta e una distanza istituzionale stanno inquinando le pratiche di relazione tra istituzione coercitiva e cittadini. Le piazze italiane non sono più state le stesse dopo il 2001. La spinta e la fiducia politica si sono erose. Malgrado tutto, come diceva Pertini, “Noi abbiamo il dovere di far sì che per colpa nostra neppure un’ombra scenda più su questo ricordo”. La memoria condivisa è ancora da scrivere, insieme. La battaglia politica inizia ora: fornire almeno al diritto le parole adeguate per descrivere la tortura, perché dove inizia la tortura, finisce la democrazia.
L’ultima giustificazione per dire la verità sta nel concetto del “mai più”: l’eterna speranza che la rivelazione del passato sarà sufficiente ad impedire che le cose si ripetano nel futuro. È sicuramente più probabile che i potenziali colpevoli di scelleratezze, passate e future, commettano i loro crimini se nessuno si preoccupa di scoprirli e tanto meno di portarli davanti alla giustizia. Ma i principi della deterrenza non possono fornire una strategia per “imparare dalla storia”. (...) Lasciando da parte lo scetticismo odierno sulla fede illuminista che sostiene che imparare dal passato è possibile, esiste una brutale realtà politica che dimostra che, malgrado questo repertorio di conoscenze, le stesse istituzioni repressive continuano a riproporsi. Non si possono rimediare i dinieghi di passate atrocità e, anzi, possono perfino suggerire tecniche che saranno applicate successivamente. Malgrado tutto, questa possibilità sinistra dovrebbe corroborare e non indebolire la nostra fiducia nel potenziale preventivo del dire la verità.
Stanley Cohen