Teatro greco di Siracusa / Quale attore tragico nel nuovo millennio?
Nel giorno della morte di Giorgio Albertazzi, al Teatro greco di Siracusa gli attori hanno fatto un minuto di silenzio. Paolo Graziosi (protagonista del riallestimento di Der Park di Stein) ha condiviso con il pubblico poche parole, ricordando il debutto di un Albertazzi ventenne in quello stesso teatro, nel 1950. L’omaggio per il collega arriva “da un teatro simbolo del teatro di tutti i tempi”, che di mattatori ne ha ospitati non pochi: su quell’arena si sono esibiti, tra gli altri, Carlo e Annibale Ninchi, Anna Proclemer, Vittorio Gassman, Salvo Randone, Lilla Brignone e Valeria Moriconi.
Ancora oggi, alla sua cinquantaduesima edizione, la rassegna organizzata dall’ Istituto Nazionale del Dramma Antico non cessa di destare domande sull’attore e sulle diverse modalità per affrontare il tragico. In cartellone, dal 13 maggio al 19 giugno, si alternano Alcesti con la regia di Cesare Lievi e Elettra firmato da Gabriele Lavia: due registi di lungo corso, attivi nei più grandi teatri stabili del nostro paese (e non solo). Anche nei cast, figurano interpreti di esperienza: da Maddalena Crippa a Massimo Venturiello, da Danilo Nigrelli a Galatea Ranzi.
Dare vita a un personaggio tragico in un teatro greco rappresenta, per diversi motivi, una sfida difficile e un fecondo terreno di esplorazione attorale. Fondamentale diviene la relazione con l’enorme spazio scenico: l’ampia cavea semicircolare, che ospita migliaia di spettatori (3500, per esempio, al debutto di Alcesti) impone un diverso rapporto con il pubblico, l’amplificazione vocale nello spazio aperto tende a cancellare le sfumature, le maestose scenografie che invadono l’orchestra invitano a gesti carichi e iperbolici. La struttura del teatro antico, insomma, non perdona: le incertezze tecniche e le esitazioni si manifestano evidenti davanti agli occhi degli spettatori.
Il diverso imprinting dei registi è ben riconoscibile: Lievi dirige gli attori con la sua sobria estetica mitteleuropea, Lavia mira al mantenimento di alti livelli di pathos senza cali di tensione.
Eppure, pur seguendo le linee guida, gli interpreti sembrano scegliere differenti strategie per giocare la propria partita. C’è chi, come Maurizio Donadoni (Egisto in Elettra), sfrutta il poco tempo in scena per un efficace cammeo, abilmente gigionesco e graziosamente sopra le righe, e viene ricompensato da un applauso caloroso, solitamente riservato ai soli protagonisti. C’è chi riesce a dominare l’ampio spazio scenico senza perdere in intensità e in credibilità: è il caso di Stefano Santospago (convincente Eracle in Alcesti), che si tiene in sapiente equilibrio tra il tragico e il comico, restituendo così lo statuto ibrido del suo personaggio.
Più in generale resta però la sensazione che a prevalere siano prassi attorali declamatorie e un po’ paludate. Le applaudite interpreti di questa edizione (Galatea Ranzi alias Alcesti e Maddalena Crippa alias Clitemnestra in Elettra) manifestano la propria sofferenza tragica con voce impostata, portamenti statuari e gesti enfatici, quasi tendendo mimeticamente alla ‘grandezza’ dei personaggi rappresentati; oppure si muovono in lungo e il largo per il palco senza reale necessità, come a voler colonizzare con la propria presenza la sterminata area scenica (così l’Elettra di Federica Di Martino).
Si tratta, in questo come in altri casi, di professioniste dall’ineccepibile tecnica, che altrove scelgono ben altre strade interpretative ma che qui sembrano riprodurre un modello rodato: quasi gravasse sul teatro greco una certa idea di attore tragico alla quale aderire per non deludere le aspettative del pubblico (emblematica, in questo senso, la magniloquente interpretazione di Laura Marinoni/Giocasta per Daniele Salvo nel 2013, a pochissima distanza dalla memorabile e perturbante Blanche in Un tram che si chiama desiderio di Antonio Latella).
Ma preservare la tradizione vuole dire davvero portare avanti una prassi teatrale polverosa e distante, per compiacere ‘il loggione’? E come si può mantenere una dimensione recitativa ‘alta’ senza per questo rinunciare all’autenticità? Esiste una via per raggiungere un pubblico così ampio in un teatro di così vaste dimensioni senza dover necessariamente caricare il registro interpretativo? È possibile, infine, trovare nuove modalità per incarnare un personaggio mitico e riportare alla vita il nucleo più profondo del conflitto tragico?
Tra i più recenti esperimenti di rivisitazione del teatro antico, è da ricordare l’ottima Alcesti di Massimiliano Civica, premio Ubu nel 2015 (a questo allestimento è dedicato il numero 32 della rivista Stratagemmi): Daria Deflorian e Monica Piseddu hanno dato prova, in quell’occasione, di saper riattuare la dimensione rituale e sacrale della tragedia, conducendo il pubblico in una vertiginosa profondità di fruizione. Si tratta, in realtà, di un’esperienza agli antipodi rispetto a quella di Siracusa: soltanto venti spettatori a serata, una sala di poche decine di metri quadri contro il vastissimo teatro open air. Sarebbe interessante, allora, se anche a partire dalle specificità spaziali (e di pubblico) del teatro greco di Siracusa si potesse portare avanti un’indagine a tutto tondo sugli stilemi recitativi del tragico nella contemporaneità, senza fermarsi al già noto: un laboratorio sull’identità dell’attore proprio nella culla del teatro occidentale avrebbe molto, moltissimo da insegnare.