Pasolini secondo Trevi e Popolizio / Ragazzi di vita in scena
Il primo a prendere la parola è il narratore. Le parole sono quelle di Pasolini, ma suonano con l’epica sfasata di un western meridiano: faceva un cardo… un sole sfacciato… metteva a foco tutto... Sull’altro lato della scena si apre il set del bagno dar Ciriola. Ed è subito mutande e corpi giovani che schizzano nell’acqua.
Ma non sono passati cinque minuti dall’inizio dello spettacolo che er Riccetto, personaggio feticcio di Ragazzi di vita, intenzionato a tuffarsi nel Tevere per salvare una rondine che vi sta miseramente affogando, salta letteralmente in collo all’attore incaricato della narrazione e gli resta in braccio, piantando così nel corso del fiume e nella scrittura il perno drammaturgico dello spettacolo. Una soluzione semplice, di buona resa plastica, capace di strappare la risata al pubblico, ma anche di precisa, diremmo quasi umile efficacia. La stessa che mi è sembrata caratterizzare la trasposizione teatrale del romanzo di Pasolini sul palcoscenico del teatro Argentina di Roma a opera di Massimo Popolizio e Emanuele Trevi, entrambi al servizio di un autore che, ognuno a modo suo, conosce bene, al punto di sapere dove mettere le mani senza affondare nella schiuma dei giorni, diretti alla sorgente del problema.
E quello che assillava Pasolini in quei primi anni Cinquanta è innanzitutto un problema espressivo.
I poemetti che comporranno Le ceneri di Gramsci e i quadri di questo suo primo romanzo appartengono a un periodo in cui la fiducia nella letteratura è ancora intatta, vanno di pari passo per le strade di una città che ha urgenza di venire abbracciata in un affresco; non è l’unico in quel giro di anni, se pensiamo ai Racconti romani di Moravia e al Pasticciaccio di Gadda. Ma il guizzante, indolente e tangibile fantasma della plebe romana non si lascia prendere tanto facilmente. Ne sapeva qualcosa Belli, a cui Pasolini si rivolge con studi appassionati (come del resto Moravia). Ed è puntuale la traccia con la quale troviamo inserito un suo sonetto in quella che è forse tra le più riuscite delle scene dello spettacolo, la zuffa tra i cani parlanti come in un tragicomico Richiamo della foresta (mentre Pasolini aveva usato un altro sonetto di Belli nel romanzo per chiosare il carattere del “froscio”). È attraverso Belli che probabilmente Pasolini intuisce una risposta per lui praticabile al rebus della lingua (come sostiene Emanuele Trevi nella utilissima intervista realizzata a lui e Popolizio da Attilio Scarpellini per il programma di sala). Nessuna imitazione, solo una partitura di suoni e di segni, una cadenza spuria, insieme esotica (dove per esempio “mecca” significava ragazza!) e primaria, che prende forma sovrapponendo il proprio orecchio, da fresco inurbato, alle inflessioni di altrettanti burini e ciociari, esattamente aggiungerei come la cultura figurativa e umanistica di Pasolini si sovrappone alla descrizione nel ritratto dei personaggi e nella visione del paesaggio.
E infatti alla sapienza espressiva di Pasolini, Popolizio e Trevi trovano modo di rendere omaggio, prima con la scelta di mettere in scena il narratore alter ego di Pasolini (interpretato da Lino Guanciale, a sua volta verrebbe da dire alter ego di Popolizio per come ha saputo assorbirne alcune movenze e la cadenza mai scontata), ma soprattutto poi alternando la terza persona al dialogo diretto, affidando ai personaggi il loro stesso autoritratto, l’enunciazione dei gesti mentre li compiono – rivolti a noi che già lo vediamo come sono e quello che fanno – quasi che la letteratura sia una maschera da indossare o un mantello magico di cui bardarsi anche per correre la più banale delle avventure, tipo andare a fare un bagno a Ostia.
Perché noi lo vediamo bene che il costume di Nadia (Roberta Crivelli) è nero e sentiamo dal tono di voce che è incazzata, ma altro è sentire lei stessa dichiarare che “c’aveva le madonne” e che “stava distesa lì in mezzo con un costume nero, e con tanti peli, neri come quelli del diavolo, che gli si intorcinavano sudati sotto le ascelle, e neri, di carbone, aveva pure i capelli e quegli occhi che ardevano inveleniti”. Ne scaturisce un effetto di realtà aumentata e fresca, che fa brillare il lato giocoso del rapporto di Pasolini con la sua squadra di ragazzi più di quanto non lasci affiorare la miseria e la ferocia individuale, esalta l’aria da avanspettacolo più dei tragici destini. E questo sorprende, forse persino a qualcuno spiace, quando invece è anche la possibilità più fedele di assistere a quel determinato testo di Pasolini nel suo spirito che precede il genocidio, quando il carattere dei suoi personaggi era ancora, anche anagraficamente, meno adulto di quello di Una vita violenta e Accattone.
Qui il lavoro fatto da Popolizio sulla compagine di giovani attori, tra cui spicca Josafat Vagni, ha raggiunto un ritmo e un affiatamento adeguati spesso a sfuggire al bozzetto. Se inizialmente possiamo rabbrividire nei mutandoni pasoliniani, quasi che nell’acqua su quell’enorme desolato palcoscenico con le sue strutture di pilastri in cemento armato a vista dovessimo finirci noi stessi, e quindi avvertiamo ancora qualcosa di inerte in quei giovanissimi corpi spogliati sulla scena, una distanza troppo ravvicinata per tutta la vita che nel frattempo è trascorsa sotto i ponti Garibaldi, Sisto, Mammolo… ecco che lo spettacolo sembra prendere quota subito dopo con la felice apertura di un primo cerchio lirico, quando la rondinella salvata dalle acque del Tevere, e asciugata al sole implacabile di Roma, viene restituita al cielo dal Riccetto che le canta una canzone di Claudio Villa: “quante rondini son tornate a primavera, quanti palpiti e cinguettii nel sol” (Malinconia di rondine).
Cantano molto i personaggi sulla scena di Popolizio, come nel libro di Pasolini, cantano nella loro solitudine impunita, nel sogno eterno di farla franca, e la colonna sonora sostanzialmente spensierata e coerente ai tempi, diventa l’aria delle strade di Roma, che sentiamo nominare ai personaggi svolta dopo svolta nei loro interminabili tragitti, come portassero in scena uno stradario abitato. Modalità non meno irreale in definitiva di quella adottata per il quadro dove anche “il glossario” che sta in fondo al libro viene interpretato da due addette alle pulizie, con quella più romana che ripassa i termini insegnati alla collega di origine slava: eccitato/arrazzato, commuoversi/me prenne il mammatrone, prete/bacarozzo…
Non so se questo sia neorealismo, così come non so quanto senso abbia continuare accidiosamente ad annotare che i giovani romani assiepati nei palchetti dell’Argentina (ho assistito a una replica tardopomeridiana affollata di coppie di liceali e universitari) sarebbero gli stessi verso cui Pasolini aveva emesso la sua condanna nei Giovani infelici, o meglio ormai i loro figli.
Non è forse questo il giusto destino cui va incontro chi per mestiere ha scelto di frequentare lo scandalo del contraddirsi? Nel trascorrere delle generazioni, proprio la reazione partecipe a questa messa in scena, ci dice che la spinta espressiva di questi Ragazzi di vita meriterà sempre un posto centrale, anche e perché no come un’iscrizione paleolitica di quel tremendismo mai tramontato e in cui adoriamo specchiare le italiche virtù dall’insuperabile stile criminale (partenopeo siculo calabrese o capitolino non importa), invidiato ci piace credere come ogni nostro stile dal mondo intero.
Ancora meno mi sembra valga la pena – con tutti i problemi che ci sono – star qui a denunciare abusi, inflazioni, saturazione, mitizzazione o dissacrazione dell’opera di Pasolini in generale, in questi come nei precedenti anni della nostra storia culturale. Se qualcuno prova fastidio e noia è un problema credo suo e non dell’oggetto che provoca il suo capriccio. Abbiamo assistito a spettacoli riusciti e altri molto meno, sia che portassero in scena il teatro di Pasolini (penso ad esempio nello scorso anno delle celebrazioni al progetto di Archivio Zeta intorno a Pilade, o al bellissimo Calderòn di Tiezzi) sia invece gli articoli di giornale come è riuscito a fare Fabrizio Gifuni. Di certo Popolizio e Trevi – per i loro lavori precedenti sui testi di Pasolini, letti alla radio dal primo e materia di autofinzione per il secondo; e che romanzo di epocale disincanto è Qualcosa di scritto! – erano e restano nella posizione ottimale di non volere esprimersi attraverso le parole dell’autore che stanno adattando, ma bensì risolvere via via sul campo dello spazio scenico una scrittura che appare sorella alla pittura, alla poesia e alla sceneggiatura più che al teatro.
Così lo spettacolo, anche a rischio di didascalia, chiude con il narratore che, rimasto un po’ a guardare i suoi ragazzi come dopo una gettata di dadi, torna a prenderne le redini leggendo, dapprima su dei fogli dattiloscritti la fine del povero Genesio, la rondine che non si salva dalle acque, e poi direttamente le ultime frasi del romanzo da una copia dell’edizione originale, con quella straordinaria copertina dove i ragazzi di vita hanno le facce rosse gialle e blu. Un altro segno apprezzabile di mancata forzatura. Come Moravia aveva adottato il puzzle dei racconti brevi, e Gadda aveva fuso tutto nell’infallibile meccanismo dell’inchiesta, a Pasolini è congeniale la struttura narrativa picaresca, composta di episodi corali che somigliano a continue iniziazioni.
Era il 2003 quando Walter Siti terminava il suo lavoro monumentale di curatela dell’opera omnia definendone con esattezza i confini. Sta tutto scritto lì dentro. Nello stesso anno Mario Martone apriva il cantiere del Progetto Petrolio cui hanno partecipato un’infinità di teatranti sotto le cure proprio di Emanuele Trevi, Massimo Fusillo e Carla Benedetti (e c’erano per dirne alcuni Fabrizio Gifuni e Giuseppe Bertolucci con la loro specie di cadavere lunghissimo, c’erano i Motus con il cane senza padrone, c’era Eleonora Danco con Ero purissima, c’era Pippo Delbono, Alfonso Santagata, Daria Deflorian, Antonio Latella, Francesco Piccolo…). Mi piace pensare che in fondo quel laboratorio non si sia ancora chiuso.
Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, drammaturgia Emanuele Trevi, regia Massimo Popolizio. Con Lino Guanciale e Sonia Barbadoro, Giampiero Cicciò, Roberta Crivelli, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Lorenzo Grilli, Michele Lisi Pietro Masotti, Paolo Minnielli, Alberto Onofrietti, Lorenzo Parrotto, Cristina Pelliccia, Silvia Pernarella, Elena Polic Greco, Francesco Santagada, Stefano Scialanga, Josafat Vagni, Andrea Volpetti. Scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca, luci Luigi Biondi, canto Francesca Della Monica, video Luca Brinchi e Daniele Spanò, assistente alla regia Giacomo Bisordi.