The Man Who Saw America / Robert Frank: la vita nell'inquadratura
The Man Who Saw America: così titolava un approfondimento dedicato a Robert Frank (Zurigo, 1924), «il più influente fotografo vivente», a cura di Nicholas Davidoff sul “New York Times Magazine” nell'estate 2015. Il riferimento corre a The Americans, un racconto di viaggio, un libro di fotografie, una mostra. Progetto iniziato on the road, su una vecchia auto scalcagnata tra il 1955 e il 1956, si impone qualche anno dopo come un grande classico di 'letteratura visiva', una ballad per immagini, pietra angolare della storia della fotografia e del reportage, testimonianza di un'epoca che ha definitivamente segnato il nostro immaginario.
In cerca di una piena realizzazione professionale come fotografo e filmmaker, Frank dalla Svizzera emigra in America nel 1947, dove lavora a lungo come fotografo di moda per “Harper's Bazaar” e come reporter freelance per diverse testate, girando il mondo dal Sudamerica (Perù, Bolivia; 1948) in Europa (Francia, Inghilterra, Spagna, Svizzera; 1949) fino ad arrivare in Egitto e Libano (1991-1992). Già negli anni '50 alcuni suoi lavori furono selezionati da Edward Steichen, fotografo, curatore e allora direttore del MoMA, per la mostra 51 American Photographers e successivamente per The Family of Man.
Solo a partire dagli anni Sessanta inizia a dedicarsi alla regia, inserendosi attivamente nel movimento della Beat Generation di Borroughs, Mailer e degli altri ribelli, stringendo amicizia con gli 'intellettuali irregolari' come Ginsberg, Orlovsky, Corso, e naturalmente Kerouac – come lui, accomunati dall'interesse, assoluto e ineludibile, per il margine.
Artisti che camminano sulla soglia per poi gettarsi in mezzo alla strada: li ritroviamo tutti protagonisti del suo primo cortometraggio, scritto e narrato voiceover dall'amico Jack e co-diretto da Frank e Leslie, Pull My Daisy, uscito nel 1959 e divenuto immediatamente manifesto del cinema beat e del New American Cinema. E ricorda: «si chiedevano perché volessi fare film su cose banali e noiose. [...] Io creo caos nei miei film sconclusionati».
Ad ogni modo, su consiglio e incoraggiamento del suo mentore, Walker Evans, fece domanda per una borsa di studio presso la Guggenheim Foundation, che ottenne e grazie alla quale finanziò il suo reportage in America, un'avventura lunga nove mesi, durante i quali attraversa 48 stati, percorre oltre 16.000 chilometri, consuma 767 rullini, uno più-uno meno, scattando oltre 27 mila fotografie: di queste, ne sceglie ottantatré, non una di più. Tutte in bianco e nero perché, sostiene, «sono i colori delle mie fotografie».
Le serie complete di immagini sono solo due – una, esposta nel 2009 in occasione di una mostra interamente dedicata a questo lavoro, presso la National Gallery of Art di Washington, accompagnata dal poderoso volume Looking In. Robert Frank's The Americans, (Steidl, 2008) – che riporta tra le pagine del catalogo anche i provini a contatto (cfr. The Robert Frank Foundation Archive) realizzati durante il lavoro e questa seconda, ora alla Fondazione Forma – Spazio Meravigli di Milano, che appartiene invece alla MEP – Maison Européenne de la Photographie di Parigi, da cui proviene il prezioso prestito integrale. Anche in questo caso, la mostra è accompagnata da una (nuova) edizione del catalogo, edito da Contrasto, con la breve, ma indimenticabile, introduzione di Jack Kerouac. La voce della sua scrittura è inconfondibile, come il ritmo delle parole che piovono di notte su una strada bagnata, così cadono sulle immagini mentre le raccontano, anticipando non solo ciò che il lettore-spettatore potrà vedere, ma offrendone anche una ripresa fuori-campo, il dietro le quinte, senza mancare di fare il suo mestiere, letteratura – ovvero tradurre con parole completamente trasparenti, cristalline, un possibile sentire comune di fronte a quelle immagini.
La storia delle varie pubblicazioni dell'opera è di per sé di un certo interesse, e non solo perché la curatissima selezione di Frank è stata compiuta proprio in ottica editoriale, prima che espositiva. Non è un caso che alla vicenda delle varie edizioni di The Americans sia dedicata una parte dell'allestimento, con gli esemplari più significativi delle diverse pubblicazioni, la riproduzione a tutta parete dell'impaginato del catalogo e persino un video sul coloring book della sequenza fotografica disegnato e commentato da Jno Cook nel 1982.
Sembra che, inizialmente, Frank non riuscisse a trovare un editore statunitense, in primis per il clima socio-politico di quegli anni, appena antecedenti l'American Boom, ma soprattutto per la nuova estetica delle immagini, un'estetica esigente, come vedremo, dal momento che la loro lettura richiede una certa attenzione e, perché no, una sfida ermeneutica.
Per un attimo ho pensato anche a un'America incapace di perdonare Frank per averla realmente vista dentro. Per averla riconosciuta. E per aver mostrato a tutti l'essenza distillata – lo Spirito – di ciò che ha visto. O forse ancora per il suo sguardo straniero, diciamo, europeo.
Europea fu dunque la prima edizione del volume, uscito col titolo Les Américains, pubblicato in Francia nel 1958 da Robert Delpire: corrispondenza di visione e immaginario o lungimiranza? Il libro è accompagnato da testi scelti di Simone de Beauvoir, Faulkner, Miller e Steinbeck. Sono invece opera di Saul Steinberg, probabilmente il più amato tra i grandi disegnatori del “New Yorker”, le illustrazioni di copertina e controcopertina.
L'anno seguente, nel 1959, sulla scia di un inimmaginato successo, segue la prima edizione americana per Groove Press, con uno scritto introduttivo di Kerouac e non, come previsto, di Evans – a sostituire la selezione di interventi raccolti da Delpire – testo che verrà poi riproposto in ogni edizione successiva.
Infine, nel 2008, a cinquant'anni dalla prima uscita, Steidl e Contrasto propongono una nuova edizione, graficamente rinnovata, curata e supervisionata dallo stesso fotografo. Oggi le scansioni digitali delle stampe vintage d'artista permettono di valorizzare molti dettagli che sembravano perduti, e di riconoscere la consapevolezza artistica di Frank, nonostante le sue immagini siano state considerate spesso prive di tecnica e improvvisate.
Un chiaro segnale della svolta radicale del 'genere' reportage si riceve già dal susseguirsi delle 83 immagini, selezionate con estrema precisione, secondo necessità intrinseche e poste armonicamente in relazione tematica-concettuale e stilistico-formale – nel libro e lungo il percorso espositivo che ne segue fedelmente le tracce. Non di rado, le immagini avvicinate risultano in forte contrapposizione. Un ordine che esprime la dialettica intrinseca degli Stati Uniti divisi. Così Kerouac inizia il lettore a questo viaggio: «Quella folle sensazione in America, quando il sole picchia forte sulle strade e ti arriva la musica di un jukebox o di un funerale che passa. È questo che ha catturato Robert Frank nelle formidabili foto scattate durante il lungo viaggio [...]».
Il fotografo solleva un vecchio tappeto di luoghi comuni e soffia via la polvere nascosta, depositata sugli aspetti più contraddittori e dolorosi della vita americana: il razzismo, la diseguaglianza economica e sociale, la cultura del consumismo, il cieco patriottismo, il conformismo e l'ipocrisia, la corruzione politica, lo sgretolarsi del sogno e di un mito ancora nascente; eppure, mentre ci mostra in modo epifanico la 'sconsolata epopea' di un Paese che 'contiene moltitudini', ne rivela al tempo stesso la bellezza semplice, più comune e quotidiana, malinconica e triste, quella dei cowboys in attesa dei rodeo e delle cameriere, dei diners e dei café, dei cinema e dei grandi magazzini, dei drive-in e dei jukebox, delle strade senza fine, delle macchine, dei centauri in motocicletta, delle stazioni di gasolio abbandonate, dei cimiteri fantasma, senza mai un'ombra di retorica.
La narrazione che deriva da questa impostazione del lavoro non è lineare, né immediata; non c'è inizio o fine, ma un'apertura, lo iato di un istante che sta nel mezzo di qualcosa che accade. O, se vogliamo, una possibilità.
Risulta evidente quanto Frank sentisse il bisogno di trovare una nuova direzione, la sua strada in un paesaggio inesplorato, e di poter fotografare liberamente, a modo suo – un modo fuori dal comune, inventandosi le sue proprie regole: «volevo solo seguire il mio intuito e fare a modo mio, senza nulla concedere – non realizzare un editoriale per LIFE... quelle maledette storie con un inizio e una fine» [cfr. “The Guardian”].
Per lui la creatività è «un angolo che gira per arrivare là» dove vuole, dove deve, per realizzarsi pienamente come angolo.
Si faceva cenno, poco sopra, a una nuova estetica. L'estetica si occupa, tra i suoi molteplici aspetti, dello stile, del 'come della rappresentazione'. In cosa consiste, allora, questa nuova estetica di Frank? Qual è il come che appartiene al suo modo di rappresentare?
I tagli spericolati, le inquadrature inconsuete, la predilezione per le prospettive diagonali di Frank stravolgono la sintassi ordinata, incisiva e regolare dei colleghi contemporanei. Robert Capa, rappresentante di fatto l'élite dell'ambiente fotogiornalistico, sosteneva che le sue riprese fossero «troppo orizzontali per i magazine verticali», mentre Elliott Erwitt riconosceva che le sue immagini fossero davvero «molto emozionanti e assolutamente diverse», irrispettose delle linee guida predefinite degli editoriali di settore.
E proprio in questo modo Frank, nonostante il rifiuto delle agenzie fotografiche e delle riviste più importanti del tempo, tra cui la Magnum e LIFE, ha cambiato radicalmente il modo di pensare il mestiere del fotografo e ha modificato irrimediabilmente lo sguardo su un Paese dialettico, contraddittorio, diviso. Forse, tra i fotografi dell'epoca, solo William Klein, altro grande refusé e amante della strada, poteva comprendere la sua visione poetica.
Il suo sguardo è rivelatore e conoscitivo: quando afferma «La fotocamera sono io», intende dire che la sua piccola Leica – il corpo macchina, e in particolare l'obiettivo – è l'estensione stessa del suo occhio. «Qui Frank venne e se ne andò» potrebbe recitare una targa in una Caffetteria di San Francisco o Indianapolis o in un Drug store di Detroit. Il «ça a été» della fotografia diventa l'esser stato di Robert, la sua presenza.
L'attenzione per la profondità e i margini, siano essi reali o simbolici (dell'inquadratura, della società) è assoluta. Sarah Greenough, curatrice della National Gallery of Art, sottolinea questa attitudine naturale dell'artista che, pur restando fuori, cerca sempre di guardare dentro, penetrare più a fondo nel reale. Giacometti ebbe a dire che «solo lo sguardo conta», e che dietro una realtà ce n'è ancora, sempre un'altra: è lì che bisogna arrivare, andare a vedere, avventurarsi. Due artisti lontani, ma anche vicini, per alcuni cruciali aspetti – l'importanza del senso della vista, la non definizione dei tratti, la fragilità e, di conseguenza, le ferite della vita e dell'arte. Entrambi lavorano per vedere, per approfondire la propria visione sull'essere, per conoscere e comprendere attraverso l'esercizio della facoltà di vedere. Conoscono perché hanno visto – sapienza degli antichi. Frank non vuole imporre letture univoche, né significati già dati ed esauriti. Le sue immagini non hanno bisogno di spiegazioni, ma di attenzione. È consapevole della fatica dello sguardo: il suo lavoro, ripete, deve far aprire gli occhi a chi guarda, e di conseguenza suscitare in loro il desiderio di tenerli sempre aperti, curiosi, vigili.
En route to Del Rio è un insolito ritratto di famiglia: attraverso il parabrezza di un'auto nera, ripresa frontalmente e diagonalmente, vediamo Mary, la sua prima moglie, con il figlio più piccolo Pablo che sta per addormentarsi sulla spalla materna. Solo con uno sforzo d'osservazione ulteriore è possibile individuare la folta capigliatura della figlia Andrea, seduta in braccio alla madre, tra i due.
Questa progressiva messa a fuoco è messa in gioco anche nella fotografia simbolo della serie, una delle più celebri in assoluto del fotografo, nonché cover del volume: Trolley (New Orleans, '55). Dai provini è possibile ricostruire il processo di ripresa da streetphotographer in mezzo alla gente, fonte inesauribile del suo interesse. Robert passeggia in Saint Louis St. e fotografa ininterrottamente donne e uomini che escono dal Café du Monde, forse diretti al ferry che accarezza il Mississippi.
Improvvisamente, come per istinto o buona sorte, si volta catturando sulla pellicola questo streetcar ̶ rappresentazione a più livelli dell'umanità di cui abbiamo sopra detto, uomini e donne, anziani e bambini, bianchi e neri, in una successione di volti e caratteri che dall'interno guardano verso l'esterno, restituendo lo sguardo del fotografo, e moltiplicandolo. Per tacere la potenza di quest'affermazione visiva, che si fa testimonianza sociale e politica.
Tra le stampe più belle e forse meno conosciute ce n'è una molto amata anche dall'artista: su una collina di San Francisco, Robert siede dietro un uomo e una donna neri stesi sul prato, sperando di passare inosservato. La coppia si stagli contro il profilo degli edifici bianchi della città, il cui candore è interrotto solo da un grande albero. All'improvviso si voltano entrambi, insieme, guardando dritto in camera, con lo sguardo torvo e battagliero di chi sente violata la propria intimità e sembra minacciare «non ci provare nemmeno!» – ma ormai, per nostra fortuna, è fatta.
Il suo obiettivo è sempre stato principalmente quello di «far entrare la vita nell'inquadratura», perché per lui «la cosa più interessante sono sempre le persone» e desiderava che i suoi scatti fossero immediati, che «parlassero dei caratteri della gente». Sempre con discrezione, in silenzio. Era un uomo solitario, riservato, persino misterioso... proprio come le sue immagini. Confessa di non aver mai davvero avvicinato i suoi soggetti, di non aver mai parlato loro, se non in rarissimi casi.
Detesta le interviste. «Perché è importante sapere questo?». Prova insofferenza per le domande sempre identiche, ripetitive. Ma a volte, se pur con malcelato fastidio, risponde. «Cosa rende una foto bella?» ̶̶ «La messa a fuoco». In questo senso, le sue foto non possono in alcun modo essere considerate belle, dal momento che i suoi soggetti sfuggono alla definizione dell'immagine, al fuoco, al nitore, si sottraggono alla geometria dell'inquadratura. Nel celebre scatto – casuale, ma solo a prima vista, solo in apparenza! – Elevator (Miami Beach, '55), non esistono che gli occhi levati al cielo della ragazza, la sua espressione intraducibile, persa in chissà quali pensieri. Intorno a lei, nello spazio claustrofobico che si apre appena, appaiono le sagome sfocate che sempre Kerouac descrive come demoni confusi e indistinti: «quella ragazzina ascensorista tutta sola che guarda in su e sospira in un ascensore pieno di demoni confusi, come si chiama? Dove abita?»
Rispondendo alla stessa domanda, aggiunge: «Il senso dell'umanità».
Di colpo, le sue immagini si illuminano, e in questo senso, così umano, diventano una ballata triste, accompagnata da una musica blues: «Che poesie potrà scrivere un giorno su questo libro di immagini un giovane scrittore nuovo, sballato, chino sulla pagina alla luce della candela per cogliere ogni grigio, misterioso dettaglio della pellicola grigia che ha catturato il vero succo rosa dell'umanità?» [jk]. Una poesia d'amore, come quella dei due giovani alla City Hall di Reno, in Nevada. Si sono appena sposati, lui la tiene per la vita (tenersi per la vita: non è questo un modo, un'espressione bellissima?). Sembrano felici. Almeno, credo lo siano, in quel momento.
Osservando queste fotografie, chi realmente guarda tutt'occhi può intraprendere ciò che Barthes definisce l'avventura dello spettatore, un av-venire allo sguardo: «un'agitazione interiore, una festa, un lavorio, la pressione dell’indicibile che vuole esprimersi».
Robert Frank
GLI AMERICANI | THE AMERICANS
Fondazione Forma per la Fotografia – Spazio Meravigli, Milano
fino al 19 febbraio 2017.