Quattordici artisti internazionali alla Fondazione MAST. di Bologna / Lavoro in movimento
Dopo aver presentato il progetto Forza Lavoro di Marzia Migliora alla Galleria Lia Rumma di Milano, torniamo al tema del lavoro per un'occasione nuova: una collettiva di 14 artisti internazionali alla Fondazione MAST. di Bologna. Per la prima volta dalla sua apertura nel 2013, la Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia, propone una collettiva di immagini in movimento curata da Urs Stahel: 18 opere tra video e installazioni di 14 artisti internazionali, capaci di offrire una panoramica selezionata e al tempo stesso esaustiva dell'interrogazione artistica ̶ alternativa e complementare alla più tradizionale fotografia, da sempre strumento privilegiato di narrazione del lavoro e dell'industria ̶ su questo diritto fondamentale; in tempi attuali, argomento spesso, purtroppo, doloroso.
Nessun luogo sarebbe stato più adatto – considerata la sua storia e la vicenda del progetto, pensato in funzione alla partecipazione quotidiana della collettività, a suo completo beneficio –, perfettamente integrato nel tessuto sociale di una zona altamente produttiva.
La sede, definita dal Prof. Dal Co «inusuale ed esemplare», nasce infatti da un intervento di ritrasformazione di un'area industriale dismessa, progettata intorno a un complesso di spazi destinati a usi molto diversi, tutti atti a favorire i servizi di welfare aziendali (biblioteca, galleria per esposizioni temporanee, auditorium, caffetteria, ristorante, asilo nido e centro sportivo...) accessibili ai dipendenti, ma anche ai cittadini, con l'obiettivo di diventare fulcro di incontro imprescindibile tra impresa e città, in un dialogo serrato e senza soluzione di continuità tra privato e pubblico. In qualche modo, sembra che un'illuminata Seràgnoli abbia voluto percorrere la strada tracciata negli anni '60 da Adriano Olivetti, che coltivava il sogno di una fabbrica a misura di uomo e di donna, che certo produce, ma al tempo stesso aggrega le persone e permette loro persino di realizzarsi, riducendo il più possibile la differenza di classe.
Le mouvement des images. Ormai più di dieci anni fa, al Centre Georges Pompidou di Parigi, si chiudeva questa importante rilettura della propria collezione permanente, pensata con l'intento di ridefinire l'arte filmica non solo in rapporto alla propria storia, dunque la storia del cinema, ma soprattutto rispetto alla sua prima radice, la grande storia dell'arte e in particolare quella del XX secolo, dove i caratteri fondamentali dell'esperienza filmica – successione, proiezione, racconto/narrazione e montaggio – permettono una nuova interpretazione delle opere più statiche, tradizionali, rinnovandone l'esperienza di ricezione e, contestualmente, problematizzano la produzione che, di fatto, definisce il secolo seguente.
A soli due mesi di distanza, al Casino du Luxembourg – Forum d'Art Contemporaine, un'altra mostra imponente (100 video di circa 40 artisti) apriva, presentandosi al pubblico con un'affermazione decisamente forte; o almeno, all'epoca così mi sembrava: «La videoarte è l'arte maggiore di questi tempi». Il curatore, cui devo tutto ciò che so su questo argomento, si domandava chi potesse ancora dubitare di questa verità assoluta, non ancora 'universalmente riconosciuta', eppure così evidente. Naturalmente, aveva anche una risposta: tutta colpa della sua invisibilità – la videoarte è ovunque e da nessuna parte, nel paradosso per cui l'abbiamo sempre a portata di sguardo, ma non ne vediamo che il peggio.
L'attualità di questa sua convinzione torna a manifestarsi con la chiarità cui tendono le cose oscure, della rivelazione, della 'prima volta' – e con rinnovata intensità, non appena varcata la soglia della spazio espositivo, perché qui, come allora, si è tentato di procedere selezionando con cura e presentando al meglio delle condizioni ciò che l'arte-video ha prodotto di più nuovo e potente sul tema del lavoro, negli ultimi anni.
Questa esposizione presenta molteplici sguardi – tutti complementari – su ogni possibile ambiente di lavoro e condizione; racconta la cura artigianale di un individuo come la produzione estraniata e straniante della catena di montaggio, vediamo l'uomo e la macchina, al lavoro, un medico e il suo sofisticato braccio robotico, grazie al quale può giungere con precisione sovraumana dove sembra impossibile poter arrivare, impensabile operare: vediamo un uomo che salva la vita di un altro uomo, sarà questa, la mano di Dio?
Nessun punto di vista è tralasciato, quello della produzione in primis, ma anche quello dell'innovazione, del commercio e della legalità; tutti aspetti legati inevitabilmente a questioni etiche ed esistenziali, con cui siamo quotidianamente chiamati a confrontarci. Siamo interpellati da immagini forti, persino toccanti, del complesso sistema su cui si fonda la società contemporanea; il suo benessere, il suo progresso e, in definitiva, anche la sua sopravvivenza.
Immersi nel buio della galleria, come in un cinema labirintico, ci ritroviamo rapiti da queste immagini così intense, dal pulsare ritmico e luminoso degli schermi e delle proiezioni, completamente immersi in un fluire continuo di ombre. Iniziamo piano a cogliere parole, suoni, rumori che danno vita al dialogo tra gli artisti attraverso le loro stesse opere, il cui valore autonomo è potenziato dalla relazione che instaura con le altre, sia essa risposta affine o critica: siamo chiamati a partecipare, perché questo dialogo ci riguarda da vicino, dall'interno, siamo noi i protagonisti del cambiamento, così rapido ed esponenziale, delle trasformazioni del mondo in cui siamo stati originariamente gettati.
L'immagine video è una nuova immagine, non perché ancora in nuce (ha mezzo secolo, portato con disinvoltura), ma per il contesto in cui è iscritta e prodotta. È un'immagine che pensa, ovunque e in ogni direzione: «i concetti stessi sono immagini, sono immagini del pensiero», e rende lo spettatore filosofo. Così dice Deleuze, a conclusione della sua opera Cinéma 1 et 2 sul rapporto tra cinema e pensiero l'image-mouvement e L'image-temps, dove riflette su un'immagine «transitoria e verticale» che rompe radicalmente con il cinema; sullo schermo prevale l'informazione che produce un terzo occhio, l'oeil-cerveau: «l'occhio è già nelle cose, fa parte dell'immagine, è la visibilità dell'immagine» scrive (in un'intervista su Cahiers du Cinema del 1983, raccolta in Pourparlers) e sua stessa condizione di possibilità – di conseguenza, prosegue, «l'occhio non è la (video)camera, è lo schermo».
Si compie un cambiamento radicale nello statuto del soggetto, che riguarda il 'posto dello spettatore': esso entra nell'immagine, innescando una sostituzione, un baratto; il suo occhio per l'occhio-schermo – che sta nell'immagine, quanto l'occhio-cervello sta nel pensiero dell'immagine – diventa lo strumento privilegiato, in grado di cogliere e soprattutto testimoniare il movimento connaturato al tempo, all'evoluzione, al progresso.
Mi piace allora anche pensare che lo schermo di cui stiamo ragionando, sia anche uno schermo empatico. Davanti a queste opere sulla complessità dei fenomeni cui assistiamo, alle ripercussioni che hanno sulla vita degli esseri umani, davanti alla sfaccettatura polifonica di immagini che manifestano individualmente e coralmente la profondità di un tema inesauribile, non c'è altra scelta che la partecipazione intellettuale ed emotiva.
La videoarte, direbbe Lacan, è arte dell'aphanisis. Ha a che fare con l'evanescenza e spesso mostra l'invisibile, l'inaudibile: proprio nell'interstizio tra presenza e assenza si situano i tre di video di Yuri Ancarani, che indagano altrettanti lavori, tanto complessi quanto discreti, più probabilmente misconosciuti. I gesti minuziosi de Il Capo (2010) sono i segni di un linguaggio silente, il codice segreto attraverso cui un uomo, con la ferma grazia e precisione di un maestro d'orchestra, conduce altri uomini alla guida di macchine pesanti, intenti a scavare la montagna nelle preziose cavi marmoree delle Alpi Apuane – vicino al Monte Altissimo, dove Michelangelo trascorse lunghi mesi a cercare la pietra 'più pura e perfetta' per le sue sculture.
Il candore è fragoroso, assordante; paradossalmente sentiamo una musica, ma il video non ha audio.
Le riprese da angolature non convenzionali, ci conducono nel territorio del sublime, della contemplazione adrenalinica di fronte alla monumentale terribilità della natura: che spettacolo meraviglioso.
Piattaforma Luna (2011) è il racconto di un'esperienza estrema, mistica, a giudicare dalla litania di una voce paperina distorta dall'elio e dalla posa tipica della meditazione orientale, documenta la vita subacquea dei ricercatori degli abissi oceanici. La troupe di ripresa ha condiviso tre giorni a stretto contatto con i sei sommozzatori-attori, vivendo insieme nella camera iperbarica di una capsula subacquea in condizioni di altissima pressione. Un ambiente in cui «come nello spazio, ogni gesto, ogni azione, devono essere reinventati per ritrovare la normalità». Infine, ambientato in un'altra profondità, dall'atmosfera altrettanto subacquea, attraversata da ogni sfumatura marittima d'azzurro e blu, Da Vinci (2012) fa riferimento non al genio Leonardesco, quanto all'omonimo sistema robotico di chirurgia d'avanguardia. Non si tratta solo di una macchina sofisticata che opera nell'abisso del corpo umano (fin nelle sue viscere), ma dell'intelligenza e sapienza che la guida nel momento più delicato.
In questa grande sala, si raccolgono anche i novanta video ambientati in quindici diverse città del mondo, girati da Haroun Farocki e Antje Ehmann ognuno in un unico lungo piano sequenza, a telecamera fissa, panoramica o mobile. In questa sede, sono proiettati su 15 monitor medioformato, a gruppi di sei filmati di un minuto. Stahel riconduce Labour in a Single Shot (2011-2014) alla celebre Sortie de l'usine Lumière à Lyon del 1895, filmato che, insieme all'Arrivée d'un train en gare, segna la nascita delle immagini in movimento, del 'brivido' del cinema. Assistiamo dunque al susseguirsi rapido di riprese, il cui obiettivo è indagare ogni immaginabile impiego, più o meno nobile, riconosciuto o meno; tradizionale e artigianale, di bottega o industriale, manuale o meccanizzato, innovatore o non convenzionale; pagato, non pagato o soprattutto pagato così poco da umiliare: infermieri e dentisti, un garzone in bicicletta che consegna il cibo, ambulanti di strada, ciabattini e maniscalchi, operai di strada o delle ferrovie, archivisti e impiegati, tatuatori e un grafico editoriale creano nell'insieme una nuova fisionomia del lavoro e pone una domanda fondamentale: chi siamo? Siamo forse il lavoro che facciamo? Il nostro lavoro ci determina? O sarà forse il modo in cui lo compiamo a dire qualcosa di noi, del nostro mondo?
Ad un primo sguardo, la telecamera apparentemente fissa della videoproiezione 16:9 Empty (2006) di Willie Doerthy che riprende dall'alba al tramonto un palazzo abbandonato di Belfast, fa eco poetico e stilistico a quel sostare ostinato davanti alle Scogliere sul mare di Etretat o alle Ninfee del proprio giardino a Giverny, di un infaticabile pittore impressionista, soltanto per catturare la mutevolezza dell'atmosfera, della percezione dei colori e del sentimento del tempo. Si tratta, invece, di una serie innumerevole di fotografie scattate dall'artista tutt'intorno all'edificio, poi montate come un film. Anche qui, i passaggi lentamente modulati dall'ombra alla luce determinano minimi mutamenti, impercettibili come la piega temporale di una ruga sul viso, e documentano una metamorfosi delle rovine – cade l'intonaco, e scopre lo scheletro arrugginito della struttura – che evocano con nostalgia il passato di spazi un tempo vitali.
Un temporale, il bagliore del lampo che lo annuncia, riporta lo spettatore al suo percorso e lo conduce negli uffici dove la burocrazia è sovrana e la ripetizione meccanica, se pur manuale, sottrae all'impiegato in giacca e cravatta ogni tratto di umanità e storia individuale: il video a sette canali O.K. (2010) dell'artista turco Ali Kazma, è un'azione ripresa in loop ossessivo da diversi punti di vista; mani che si muovono rapidissime, timbri che scandiscono il tempo ritmicamente come tamburi, inchiostro e risme di carta in un unico processo straniante di ripetizione senza fine che ricorda da vicino la catena di montaggio delle fabbriche. È sempre Kazma a farsi carico anche di questa narrazione, scegliendo il punto di vista di due imprese diversamente virtuose – dichiarando di fatto l'interesse artistico per il plusvalore dell'attività umana nell'industria in relazione all’organizzazione economica e sociale.
Nel primo caso, Household Goods Factory (2008) l'uomo resta protagonista imprescindibile e responsabile di tutto il processo di realizzazione; nell'altro, Automobile Factory (2012) sono esclusivamente le macchine a eseguire tutto il lavoro con ritmi serratissimi e massima precisione. Le due aziende coinvolte in questi progetti sono altamente rappresentative per innovazione, design ed eleganza, l'impresa italiana Alessi e la fabbrica automobilistica tedesca Audi.
Più critico, sul tema delle fabbriche, era già intervenuto nel 2003, Chen Chieh-jen con Factory. Questo video militante, sui toni del grigio-blu, senza voce né sonoro, in realtà è un vero e proprio re-enactement teatrale (pratica oggi assai diffusa sulla scena post-drammatica). Fotografie d'archivio si alternano alle riprese. Funziona qui da incisivo controcanto; se in alcuni casi le macchine alleggeriscono il lavoro dell'uomo, altrove lo sottraggono completamente. Assistiamo alla messa in scena del crollo dell'industria tessile a Taiwan, fiorita negli anni Sessanta sulla scia delle politiche post Guerra Fredda e favorita dai costi irrisori della manodopera, pian piano delocalizzata, sulla scia di una globalizzazione pressante, fino alla chiusura definitiva delle fabbriche che ha inesorabilmente condotto alla disoccupazione di larga parte della popolazione, e ad una condizione di povertà difficilmente sanabile.
Appaiono due donne senza età, provate, assenti, immobili e dignitose come statue, richiamate dall'artista a interpretare se stesse nell'antico ruolo di sarte a compiere gesti lenti e minuti, un tempo quotidiani; vagano come perdute in un hangar ormai deserto, dove si sono accumulati strumenti inutili, inutilizzabili: vestigia del passato capitalista. Il laboratorio è così simbolicamente restituito alle operaie che vi avevano lavorato per oltre un ventennio. Mentre osservo, penso alla compassione che ha mosso Simone Weil a raccontare l'esperienza forse più dolorosa della sua, breve, vita. Da pensatrice si è sacrificata a manovale, nel tentativo di comprendere con il suo proprio corpo l'oppressione fisica e morale della classe operaia.
L'indagine reportage di Pieter Hugo, con la video installazione Permanent Error (2010), segue il filo spinato di un lavoro disumano, in una discarica illecita della periferia di Accra, in Ghana. Sembrano così lontani, i dieci giovani uomini africani, vestiti di nulla, che ci guardano con occhi che hanno la stessa forza di quelli di Gutete Emerita. Si stagliano immobili in un paesaggio mortifero, il vento intorno soffia, il fuoco dietro brucia una distesa di rifiuti elettronici di cui il mondo quotidianamente si disfa, per salvare le materie prime più pregiate, al costo, non barattabile, della propria salute, della stessa vita.
Le sostanze liberate in questo processo di recupero sono altamente tossiche, inquinano l'organismo, l'aria che si respira, la poca acqua che non si può bere e la terra che mai più tornerà fertile. Madre Africa. Per fortuna non ci riguarda. Così vogliamo credere.
Eppure, ci riguarda almeno quanto le singole traiettorie di volo degli uccelli che volano in stormo, nel periodo migratorio, un miracolo della natura: solo l'arte e la matematica riescono a darne una rappresentazione. Flocking (2008), poesia alata di Armin Linke, ricama il cielo azzurro e gonfio. Gli occhi, rapiti, si alzano al cielo: dove vanno, verrà a piovere? I dati raccolti offrono alcune risposte agli scienziati, ma più ancora pongono questioni urgenti agli economisti e ai sociologi: e noi, dove andremo, invece?
Non stupisce che siano le artiste donne a spostare l'attenzione sul potere della parola, e in particolare della retorica come strumento di controllo socio-politico. Eva Leitoff accosta in modo chiaro 24 fotografie in bianco e nero, molto contrastate e definite, di fabbriche e paesaggi industriali a 30 testi inerenti questioni socio-culturali e amministrative d'interesse comunitario che ne compiono il significato, mentre Gabriela Löffel inscena The Case (2015), una fittizia competizione tra giovani giuristi in un contesto internazionale, che dibattono sulla violazione di diritti fondamentali degli Stati. Ripetono la lezione, seguono una sceneggiatura. La prima impressione è che stiano discutendo tesi di laurea, simulando sicurezza e spavalderia.
Allo stesso modo anche la questione antropologica tanto attuale della leadership viene affrontata da una donna, Julika Rudelius, che in Rites of Passage (2008) e Rituals (2012) ne studia le diverse dinamiche di iniziazione, attraverso l'archetipo del rito, che è sempre in primo luogo sociale: qui la parola si fa azione, il verbo si fa carne.
Passare dal potere al delirio di onnipotenza è passo breve: So Help me God (2014) del giovane Thomas Vroegev va sondare nel profondo l'animo di finanzieri e uomini d'affari, in un'epoca di crisi e instabilità. Il lavoro è articolato sull'alternanza di tre narrazioni: l'audizione presso il senato americano del CEO di Goldman Sachs, in seguito allo scandalo del 2007 che ha condotto alla bancarotta e alla depressione l'intero sistema economico internazionale, il racconto di un analista che ripercorre mentalmente le sedute con un trader finanziario, suo paziente, e la descrizione poetica per analogia visiva, dei sentimenti di questi uomini, attraverso immagini della City silenziosa e della sua metropolitana deserta. Solo in apparenza impenetrabili e composti, hanno le sorti del mondo tra le loro mani; dovrebbero essere salde, invece sembrano tremare: l'artista li ritrae fragili, isolati e desolati, tormentati come tutti noi dalla paura originaria della perdita, della mancanza di controllo, che produce fantasmi e apre una ferita insanabile, un contagioso senso di impotenza e inadeguatezza.
Il punctum del discorso lo ha individuato Derrida, in un vecchio saggio ancora attuale: Videor. Si domandava cosa avessero in comune l'uso più corrente dell'immagine video, quella televisiva o di sorveglianza, con «la ricerca più audace, la videoarte, ancora confinata nel suo stretto perimetro». In un momento di 'inflazione artistica', nel marasma generalizzato della «materia visiva», questa mostra è importante. Le immagini che ci offre sono di ordine politico e i video costringono allo sguardo, alla riflessione; si fa così strumento non solo di analisi su una società magmatica, in continuo divenire, che ha bisogno della nostra libertà, ma anche una chiamata attiva di resistenza e partecipazione.
La mostra Lavoro in movimento. Lo sguardo della videocamera sul comportamento sociale ed economico si tiene alla Fondazione MAST. Gallery | Bologna ed è aperta fino al 17 aprile 2017.