Robert Walser. Ritratti di pittori
In fin dei conti, che si tratti di originali, riproduzioni o incisioni, ciò che posso dire è pressappoco questo: per alcuni istanti delle figure dipinte sono transitate nella sua vita. Robert Walser le ha incontrate ad una mostra, oppure sfogliando distrattamente qualche rivista. Hanno lasciato tracce, poi sono svanite, forse si sono perse, sono evaporate. Se fanno ritorno sulla carta, come cose scritte, le ritroviamo alterate: non sono più loro. È possibile che sia cambiato il fondale della scenografia, come ne Il bacio rubato di Fragonard, dato che nella stanza non ci sono altre persone in amabile discussione, o a “centellinare vino”. Qualcosa di simile a un capriccio, o magari un’impercettibile spostamento dell’asse terrestre, ha per un istante inceppato il tempo? Per un istante sembra che le cose si siano smaterializzate, per poi ricompattarsi, ma fuori posto.
In Walser, ogni immagine, ogni cosa, ha vita breve. Figure, personaggi, scene: sono lampi improvvisi, uno sfarfallio simile ai fotogrammi instabili del cinema delle origini (lo ricorda W.G. Sebald); l’immagine è un flash, pronta a sparire, inghiottita da improvvise digressioni del testo, pronta a farsi trasparente, o avvolta in una specie di stato amnesico; magari l’immagine si allontana lentamente, fino a cancellarsi, mentre la mano scorre sul foglio e l’inchiostro lascia tracce, dimenticandosi di ciò che ha appena depositato.
Figure spettrali? Basta un attimo per dileguarle. Specie di cose che, giusto per pochi secondi, perturbano la vita di chi le osserva. La ragazza de L’altalena (Fragonard) che oscilla come un metronomo, o una figura femminile incrociata magari sotto un portico, giusto il tempo necessario per ammirare il suo sorriso. Gli si potrebbe indirizzare una lettera, mentre l’Olympia di Manet, nel suo biancore, osserva incuriosita. Le immagini sono mobili, a volte dialogano con chi scrive: si prendono una vacanza dalla loro fissità, mosse dalla scrittura.
E quelle figure, i pittori che le hanno dipinte, posso dirci qualcosa della nostra vita. Watteau e Fragonard avranno vissuto in mansarde, come Walser? E La radura di Virgile-Narcyse Díaz de la Peña? Per Walser è una “foresta”. “La madre era andata via. Il bambino era lì da solo. Davanti gli stava il compito di trovare la strada nel mondo, che è anch’esso una foresta, d’imparare ad avere di sé scarsa opinione e bandire, al fine di piacere, il compiacimento di se stesso” (p. 61). Questa pagina è un autoritratto.
Brevi prose, resoconti, abbozzi, poemi fulminanti. L’instabilità di queste figure dipinte non è che il riflesso di un io sperimentale, in perenne movimento, mai fisso, di cui possiamo testare la malleabilità, il suo grado di volubilità. La finzione di una vita sensibile.
Passeggiate al museo? Osservare dipinti, o le fanciulle che, con passo leggero, si spostano tra le sale. Renoir, Van Gogh, Delacroix, Beardsley. E poi Cézanne, la Sainte-Victoire, e sua moglie, che Walser immagina alle prese con una battaglia “ridicola”: convincere il marito a smettere per un istante di “vagare in cerchio lungo contorni che divennero per lui frontiera ad alcunché di misterioso”, convincerlo a partire per un viaggio. E mentre la moglie prepara la valigia, Cézanne - scrive Walser – “anziché mettersi in viaggio se ne stava lì, ovvero percorreva, rincorreva orbite attorno ai confini dei corpi che lui restituiva, ricomponendoli in figura, ed ella tirava fuori, con pari delicatezza e quasi pensosa, quanto aveva posto nella valigia o nella cesta con sommo scrupolo, e tutto restava così com’era, un passato che il sognatore non cessava d’ingiovanire” (p. 81). Una donna che disfa valigie e un uomo perso nel suo lavoro.
Comporre figure partendo dalla materia cromatica (il loro corpo). Prolungare la loro esistenza trasferendole su carta, prima che svaniscano per sempre. Ritratti di pittori di Robert Walser (Adelphi, 2011), nella bella e accurata traduzione di Domenico Pinto, ci fa capire cosa significhi ritrovarsi davanti a un’immagine. Masse cromatiche, linee? È un altro a scrivere, in maniera inesatta e senza mai fermarsi, non colui che ha osservato il dipinto. Tra chi guarda e chi scrive c’è lo spazio di un intervallo: quanto basta affinché la vista si alteri, complicata da un semplice battito di ciglia.