Se l’IA sa tutto, perché imparare?
Mattina di Pasqua. È venuto a trovarmi il mio figlio più grande che ora vive altrove con la sua fidanzata; un 23enne che ha deciso di dedicarsi alla ristorazione e non seguire le orme paterne. Siamo seduti nel mio studio e aspettiamo che arrivi suo nonno; tre generazioni a confronto; tre modi diversi di intendere la vita, la cultura, l’educazione. La stanza trabocca di libri disposti in file multiple all’interno di librerie IKEA che coprono ogni parete fino al soffitto. Mentre indugiamo parliamo su come l’intelligenza artificiale stia cambiando tutto. Lui guarda distrattamente i libri, guarda me, e poi se ne esce con una frase che mi lascia spiazzato: «lo sai papa? Da quando c’è GPT che sa tutto, a che cosa serve leggere e imparare?» E questa è la vera domanda che l’esistenza dell’intelligenza artificiale e la strabordante presenza degli algoritmi sta ponendo a noi esseri umani. Se gli algoritmi sanno tutto, a che cosa serve conoscere? Se sapere è potere, allora anche il potere deve essere dato alle macchine, agli algoritmi onniscienti capaci di decidere in modo migliore di quanto potranno mai fare gli esseri umani, con i loro limiti cognitivi, ma anche morali. Ma onniscienza e ragione sono la stessa cosa?
Per rispondere a questa domanda, oggi più che mai urgente, è fondamentale sviluppare una riflessione sulla natura dell’umano e dei suoi valori come fa l’esperto di processi decisionali, Gerd Gigerenzer, nel suo ultimo volume, Perché l’intelligenza umana batte ancora gli algoritmi (Cortina, 2022). Che cosa ci differenzia ancora dall’intelligenza artificiale e come possiamo trovare un valore, non arbitrario, in quello che facciamo e in ciò che sappiamo? La risposta dell’autore, che potrebbe rassicurare molti ma non convincere tutti, è che è falso che «le macchine ben presto faranno ogni cosa meglio degli umani». Sarà vero?
In effetti, oggi, non sarei più così sicuro della vittoria dell’umano. Continuare a ripetere che l’uomo è superiore alle macchine rischia di suonare come un’affermazione vuota, un’ideologia rassicurante ma ingiustificata. Fortunatamente, per ora, gli esseri umani hanno una serie di caratteristiche, tra le quali la coscienza, la volontà e i sentimenti, che gli algoritmi non hanno (ancora). Inoltre – come l’autore ripete più volte nel suo libro – gli esseri umani sembrano più abili nel gestire situazioni impreviste. Ma sarà proprio vero o anche la famosa capacità di improvvisare degli esseri umani non sarà altro che l’esito di una dolorosa quanto inevitabile serie di tentativi ed errori? Guardando alla storia, anche recente, il panorama non è particolarmente confortante.
La parte meno interessante del libro di Gigenrenzer è quella relativa all’intelligenza artificiale – gli esempi che fa sono piuttosto datati e non tengono conto dei recenti sviluppi dei modelli a diffusione e dei modelli linguistici a larga scala (Dall-E e GPT tanto per capirci). Molto più attuale invece l’analisi sull’effetto che algoritmi, big data e intelligenza artificiale hanno sulla società e sulla percezione che abbiamo di noi stessi. A partire dalla domanda fondamentale: se gli algoritmi dispongono della conoscenza umana, che valore hanno gli esseri umani?
Ho enfatizzato il verbo «disporre» perché è un verbo neutro che non implica la comprensione in senso personale del sapere. Non è necessario che una macchina capisca il significato dei dati che manipola; è sufficiente che ne disponga, ovvero che si trovi in una rete di relazioni dove questa conoscenza è in grado di determinare effetti. Sapere è potere. Al momento, come l’autore sottolinea più volte, questo potere è ancora nelle mani degli esseri umani che politicamente scelgono se affidarsi o meno agli algoritmi impersonali (dai veicoli a guida automatica alle diagnosi mediche, dalle scelte economiche ai siti di incontri che suggeriscono nuovi partner sentimentali). Giorno dopo giorno, l’equilibro del potere sta cambiando perché gli algoritmi ci offrono funzioni e prodotti a un prezzo apparentemente minore e a una velocità maggiore.
Ovviamente molti sosterranno che si studia e si impara per piacere, per il desiderio di comprendere il mondo e noi stessi. Temo che – come la domanda di mio figlio suggerisce – questa fede nel valore assoluto della cultura sia una pia illusione e che, come si vede in moltissimi casi, la conoscenza abbia per molti soprattutto un fine pratico. L’amore per la cultura è un amore condizionato ai risultati che promette. Anche settori reputati fini a se stessi – come arte, musica, letteratura – hanno di fatto ricoperto un ruolo sociale che permetteva di accedere a determinati gruppi di potere. Se non sapevate il latino o, meglio, il greco, non potevate accedere alla classe dirigente del regno Sabaudo. Oggi che queste lingue morte non aprono più le porte dell’amministrazione pubblica, molti si interrogano sulla loro reale utilità. Non fraintendetemi: non sto dicendo che la cultura non abbia un valore intrinseco, ma come negare che per la maggior parte degli esseri umani sia prima uno mezzo e poi un fine?
Nel momento in cui una macchina, un algoritmo, è in grado di far suo un certo corpo di conoscenze e abilità, quel settore viene automaticamente a perdere ogni valore per gli esseri umani. Proprio nel libro si fa lo splendido esempio del giovane Karl Gauss che, nel 1786, all’età di 9 anni, venne salvato da una vita di povertà e promosso a un futuro migliore, per aver dato prova di straordinarie capacità aritmetiche. Sappiamo tutti che, non appena i calcolatori divennero in grado di compiere calcoli aritmetici, tali abilità cessarono di essere oggetto di distinzione.
Quando un’attività diventa riproducibile dalle macchine, cessa di avere valore per gli esseri umani e, automaticamente, cessano di avere valore gli esseri umani che la svolgono. L’espansione degli algoritmi nel mondo dell’intelligenza toglie valore a molte delle attività che oggi svolgiamo. Qualcuno non è così pessimista. Si fa spesso il controesempio dello sport e del tempo libero. Molti sostengono che anche se si sono inventate le automobili molti continuano a fare corsa, trekking e allegre scampagnate. Questo è vero, ma non tiene in considerazione la differenza tra gioco e lavoro. Ed è il lavoro che sostiene l’economia. Per esempio, anche se l’ippica o l’allevamento sono ancora una passione per molti, quanti cavalli ci sono oggi in confronto all’Ottocento prima dell’invenzione delle automobili?
Il cuore del libro è l’analisi della progressiva erosione e svuotamento delle prerogative cognitive degli esseri umani dovuti sostanzialmente alla confusione tra calcolo e scelta: le macchine calcolano e noi scegliamo. Riconosciamo. Gli algoritmi sono molto più bravi di noi a calcolare, ma il calcolo presuppone sempre una serie di valori. Per esempio, supponete di dover andare da Genova a Foligno. Quale strada prendere? Ci sono tante alternative. Un qualsiasi navigatore calcolerà per noi il percorso migliore. Storia finita? Niente affatto. In realtà, il navigatore ha calcolato quel tracciato sulla base di una scelta che un essere umano ha fatto prima (magari implicitamente). In base a qualche criterio considerare un percorso migliore di un altro? Il più breve? Il più corto? Il più economico? Il più panoramico? Il più ecologico? Come scegliere tra questi criteri? Non c’è una risposta automatica. Dobbiamo fare una scelta e non un calcolo.
La scelta umana ha sempre un elemento di irriducibile libertà. Non possiamo abdicare la scelta alle macchine per il semplice motivo che, a tutt’oggi, non hanno quelle capacità fondamentali – libero arbitrio, intenzionalità e coscienza – che sono essenziali per poter scegliere invece che calcolare un’opzione. Purtroppo, negli ultimi anni, si è assistito a una macchinizzazione della persona, spesso incoraggiata dall’educazione e dalla visione funzionale e sicuritaria dell’esistenza, che spinge a ridurre le persone a incompleti algoritmi unidimensionali incapaci di vere scelte. Come dice l’autore verso la fine del suo volume, «il problema non è l’intelligenza delle macchine, ma la stupidità di tante persone».
E, tuttavia, è interessante vedere come Gigerenzer stesso faccia l’errore che imputa agli algoritmi: basare le proprie previsioni sul passato e sul presupposto di un mondo stabile che non cambia. Nel suo caso, questa convinzione lo porta a concludere che gli algoritmi del futuro si comporteranno esattamente come hanno fatto finora, ma – come abbiamo visto – questa previsione è già stata smentita dagli sviluppi più recenti.
I cambiamenti in atto sono talmente rapidi da suscitare due tipi di reazioni opposte: chi tende a ignorarli e chi improvvisamente reagisce con paura. Un esempio del secondo atteggiamento è la recente decisione del garante della privacy italiano come una ammissione di inferiorità da parte degli esseri umani e, in questo caso aimè, degli italiani. Ma lasciamo perdere questi segnali di isterismo da parte del potere politico.
Cosa succederà nel futuro (prossimo)? È significativo che un libro come questo – pubblicato solo qualche mese fa – risulti già legato al passato almeno per quanto riguarda gli aspetti tecnologici. E questo più che un difetto del libro è un segno dei tempi. Infatti, anche se non tutti ne avvertono la portata, in questi mesi si è assistito a ciò che uno storico come Alessandro Barbero chiamerebbe una periodizzazione, ovvero un evento che divide la storia in due età completamente diverse: la scoperta e applicazione della tecnologia Transformer sotto forma di algoritmi generativi (il sopracitato ChatGPT) che, pur non avendo ancora né coscienza né autonomia, costringerà molti studiosi, tra cui Gigerenzer, a rivedere la proprie analisi perché basate su una concezione dell’intelligenza artificiale ormai superata.
Quando si entra in un nuovo periodo storico niente è più quello di prima. Sapere e potere, una volta dominio incontrastato della specie Homo Sapiens, sono oggi alla portata degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale. Che dire a mio figlio e a tanti ragazzi che, come lui, si affacciano ora a un mondo che sta cambiando in modo così radicale? «Se l’IA sa tutto, perché imparare? L’IA non avrà tutto il potere?» E la risposta, per una volta, non potrà arrivare da un calcolo artificiale. La risposta è una scelta che ognuno di noi, in quanto essere umano, è chiamato fare.