Se questo è uno Stato. Intervista a Primo Levi
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Mi commuove rileggere trentanove anni dopo questa intervista a Primo Levi. Non solo per la sua perdurante, impressionante attualità e il coraggio intellettuale che la innerva. Ma perché ricordo come fosse ieri le circostanze in cui prese forma. Telefonai a Primo Levi dalla redazione di L’Espresso per proporgli una riflessione sui rapporti difficili fra Israele e Diaspora ebraica quando non erano ancora passati due anni dalla sua adesione a un testo di condanna dell’invasione israeliana del Libano che aveva suscitato polemiche per lui dolorose. Mi oppose un cortese ma netto rifiuto: “Basta, non ne voglio più parlare”. Un’ora dopo fu lui a telefonare: “Ci ho ripensato, perché non provarci? Con l’impegno suo di pubblicare solo nel caso l’esito della conversazione mi risulti soddisfacente. Altrimenti non se ne fa nulla”.
Presi il treno e andai a casa sua in corso Re Umberto a Torino. Non una, ma due volte. Perché dopo averne ricevuta una prima stesura, e avere operato qualche correzione, Levi preferì che ci rivedessimo per soppesare insieme domande e risposte, ben conoscendo la sensibilità dei lettori di parte ebraica cui l’intervista era specialmente destinata. Fu allora che inserì quell’inciso autocritico preventivo – “fai presto tu, ebreo italiano in poltrona, a decidere per noi!” – e smussò ogni asprezza lessicale (“Indignazione? Parliamo, più pacatamente, di disapprovazione”) nel sostenere una tesi che sarebbe riuscita comunque difficile da digerire per gli interlocutori cui si rivolgeva: l’eclissi (“spero momentanea”, aggiunse) di Israele quale centro unificatore dell’ebraismo.
Una previsione sbagliata forse c’è in quel testo di Primo Levi risalente alla fine estate del 1984: quando indicò come poco verosimile una crescita del fanatismo religioso all’interno della società israeliana. Oggi un seguace di quel rabbino estremista, Meir Kahane, che Levi citava con ripulsa, ricopre l’incarico di ministro della Sicurezza nazionale nel governo Netanyahu. Un’eventualità che peraltro Levi prendeva in considerazione: “Si può temere un contagio fra khomeinismo islamico e integralismo religioso in Israele”.
Ma la parola-chiave dell’intervista rimane un’altra: baricentro. Qual è, quale deve restare o quale deve diventare il baricentro dell’ebraismo allorché le scelte della classe dirigente israeliana la separano dal profilo culturale delle comunità della Diaspora? La risposta qui è netta, con l’invito a “custodire gelosamente il filone ebraico della tolleranza”, trovandosi “il meglio dell’ebraismo” nella sua natura “dispersa, policentrica”.
È il Primo Levi che conosciamo. Dapprima riluttante, sempre pacato, ma inesorabile.
Dopo di allora ebbi altri incontri amichevoli e confidenziali con Primo Levi, sempre a casa sua e sempre dandosi del lei (ero poco più che ragazzo, intimidito dall’autorità morale che s’irradiava dalla sua modestia personale). Gli ultimi, quando stava ultimando la preparazione di I sommersi e i salvati.
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Solo una volta, nel suo tormentato e passionale rapporto con Israele, Primo Levi decise di alzare la voce. Fu esattamente due anni fa, durante l’invasione del Libano, dopo la strage nei campi palestinesi di Sabra e Chatila. Parlò e chiese le dimissioni di Menahem Begin e di Ariel Sharon ancor prima che i due ministri israeliani fossero condannati dalla famosa commissione Kahan, in quanto indirettamente responsabili dell’accaduto.
Poi Primo Levi tornò a rinchiudersi in se stesso. L’ebreo torinese sopravvissuto al lager, il chimico che divenne scrittore per il bisogno di raccontare – in Se questo è un uomo – Auschwitz e la più terribile persecuzione mai subita dal suo popolo, oggi si dice stanco. Preferisce vivere appartato, riflettere nel silenzio della sua casa del centro torinese sul difficile rapporto che lega lui, ebreo della Diaspora, a quello che una volta si chiamava il «focolare» d’Israele. Laggiù, al governo di quel «focolare», proprio nei giorni scorsi è tornato il leader più popolare della destra israeliana: Ariel Sharon. C’è tornato in alleanza con i laburisti, cioè con coloro che – come Levi – due anni fa definivano decisivo per le sorti della democrazia israeliana il suo allontanamento.
Il mondo ebraico è in fermento. Al riparo dell’apparentemente immobile «grande coalizione» fra Likud e Maarach, molto è cambiato. Nel bene o nel male? È una domanda difficile, alla quale però oggi Levi non si sottrae e dà la risposta forse per lui piú difficile: «Mi sono convinto che il ruolo d’Israele come centro unificatore dell’ebraismo adesso – sottolineo l’“adesso” – è in una fase di eclissi. Bisogna quindi che il baricentro dell’ebraismo si rovesci, torni fuori d’Israele, torni fra noi ebrei della Diaspora che abbiamo il compito di ricordare ai nostri amici israeliani il filone ebraico della tolleranza».
Perché, dottor Levi? Forse avverte il ritorno del falco Sharon come una rottura, come una minaccia?
Non parlerei di rottura, non credo che ci troviamo di fronte a un’involuzione irreversibile. Del resto la degradazione della vita politica non è un fenomeno soltanto israeliano. L’offuscamento degli ideali lo si registra in tutto il mondo. D’accordo, c’è un peggioramento della qualità di Israele, ma non dimentichiamo che si tratta di un paese dotato di un’agilità anche intellettuale anomala, dove avviene in un anno quel che altrove avviene in dieci.
Cosa la preoccupa, allora? Forse l’ascesa del rabbino Meir Kahane, quello che propugna l’espulsione dell’intera popolazione araba dalla Terra Promessa, quello che s’è fatto propaganda con uno spot televisivo in cui si vedono fiotti di sangue colare su una pietra di marmo?
Kahane è solo una scheggia impazzita, ne sono convinto. Se non sopraggiungono nuovi traumi, la sua forza politica è destinata a estinguersi. Mi si potrebbe obiettare: anche Hitler nel ’23 era solo una scheggia impazzita. Rispondo che a nessuno è dato prevedere il futuro, ma non vedo Israele sulla strada del fanatismo di Kahane. Andiamo, non è razzismo affermare che gli ebrei non sono tedeschi! Un paese per diventare razzista deve essere compatto, tendere a farsi blocco massiccio, uniforme, manovrabile. C’è riuscita la Germania di Hitler, ma ad esempio non c’è riuscita l’Italia, per il solo fatto che la differenza fra un piemontese e un calabrese è troppo grande. Figuriamoci se può succedere in una comunità frammentata da una storia di tremila anni, caratterizzata da un mosaico di etnie e di tradizioni, come è Israele. Detto questo, sono consapevole che un filone razzista nella Torah c’è. Vi si trova tutto e il contrario di tutto. Quando Kahane evoca il divieto di rapporti sessuali fra un ebreo e un «gentile» contenuto nella Torah, dice il vero. Ma altrove si trovano storie, come quella di Ruth e di Sansone, che danno come normale e ammessa l’esogamia.
Non è il diffondersi dell’intolleranza anti-araba, dunque, la fonte delle sue preoccupazioni?
Potrei risponderle che in tempi recenti Israele vive anche un fenomeno che purtroppo non fa notizia: sta compiendosi nelle università e negli ospedali un’integrazione vasta e profonda fra arabi ed ebrei israeliani. Fra i settecentomila arabi che vivono in Israele dal ’48, molti sono gli integrati. Il discorso è diverso per il milione e mezzo di palestinesi della Cisgiordania occupata.
Appunto. Nel suo delirio il rabbino Kahane pone un problema che angustia molti israeliani: secondo gli attuali tassi di natalità, entro il Duemila gli arabi diventeranno maggioranza numerica. La data si sposta di un’altra ventina d’anni se si considerano solo gli arabi cittadini israeliani, ma resta il fatto che un giorno essi potranno eleggere democraticamente la maggioranza dei deputati dello «Stato ebraico». Sicché, dice Kahane, prima di quel giorno Israele dovrà cessare di essere una democrazia, per salvaguardare la sua identità ebraica.
Queste proiezioni demografiche sono molto discutibili, nessuno può fare profezie sensate al di là di cinque anni. Mi risulta ad esempio che il tasso di natalità degli ebrei israeliani è in aumento mentre decresce quello degli arabi israeliani. Assai diversa è la situazione della Cisgiordania, ciò che dovrebbe indurre i governanti israeliani a un rapido ritiro dai territori occupati. Penso che se non ci fosse questo pesante rimorchio della Cisgiordania e di Gaza, il problema palestinese in Israele sarebbe già risolto.
Cos’è dunque che l’angoscia, dottor Levi? A cosa allude quando parla di degradazione della vita politica israeliana?
Anzitutto l’accordo fra Likud e Maarach, come ogni altra grande coalizione, mi pare un rappezzo temporaneo e paralizzante, destinato a durare poco. Ma alludo soprattutto al fatto che prima delle elezioni sono state sposate tesi addirittura ripugnanti al solo scopo di guadagnare voti. Neanche questo accade solo in Israele, ma forse noi siamo male abituati. Siamo abituati a un Israele paese dei miracoli, all’Israele del ’48, del sionismo che coincide con una certa idea di socialismo. Adesso assistiamo a una degradazione che è un normalizzarsi. Israele sta diventando, purtroppo, un paese normale. In più, essendo un paese mediorientale, tende a diventare piuttosto simile alle altre nazioni di quella regione. Per esempio si può temere un contagio fra il khomeinismo islamico e il diffondersi dell’integralismo religioso in Israele, anche se in prospettiva non vedo le masse israeliane prosternarsi davanti a un nuovo ayatollah, sia esso Kahane o lo stesso Sharon.
Non crede che essendo nati in maggioranza nel loro Stato, gli ebrei d’Israele sono ormai cambiati rispetto a quelli della Diaspora, abituati da sempre a sentirsi «minoranza» nel paese in cui vivono, plasmati dalla propria «diversità»? Gli ebrei europei di cui lei parla nei suoi libri sono drammaticamente attaccati al fragile valore della tolleranza. Non è che invece, normalizzandosi, gli israeliani stiano anche mutando identità?
Questo è un futuro prevedibile. Credo che sta a noi, ebrei della Diaspora, combattere. Ricordare ai nostri amici israeliani che essere ebrei vuol dire un’altra cosa. Custodire gelosamente il filone ebraico della tolleranza. Certo, mi rendo conto di toccare cosí un punto cruciale, e cioè l’interrogativo: dov’è oggi il baricentro dell’ebraismo?
Almeno dal 1948 in poi le principali istituzioni sioniste non hanno dubbi: il baricentro è Israele.
No, ci ho meditato a lungo: il baricentro è nella Diaspora, torna a essere nella Diaspora. Io, ebreo diasporico, molto più italiano che ebreo, preferirei che il baricentro dell’ebraismo rimanesse fuori d’Israele.
Questo potrebbe suonare come l’annuncio di un suo distacco dalla nazione israeliana cosí com’è cambiata.
Niente affatto, è lo sviluppo di un rapporto profondo e passionale. Solo credo che la corrente principale dell’ebraismo sia meglio preservata altrove che in Israele. La cultura ebraica stessa, specie quella ashkenazita, è piú viva altrove, negli Stati Uniti per esempio, dov’è addirittura determinante.
Da quel che dice, sembra che restare in Diaspora, cioè restare comunità minoritaria, sia quasi una condizione obbligatoria per perpetuare l’identità ebraica. Estremizzando, l’ebreo è ebreo in quanto è in Diaspora?
Direi proprio di sí. Direi che il meglio della cultura ebraica è legato al fatto di essere dispersa, policentrica.
Attribuendo agli ebrei della Diaspora il compito di educare gli israeliani ai valori dell’ebraismo, Lei si tirerà addosso molte reazioni stizzite. Non era il contrario? Non era Israele a infondere forza e sicurezza in tutti gli ebrei del mondo?
Purtroppo si deve parlare di un rovesciamento. Alla fonte da cui traevano forza gli ebrei della Diaspora, oggi traggono motivi di riflessione e di travaglio. Per questo parlo di eclissi, spero momentanea, del ruolo d’Israele come centro unificatore dell’ebraismo. Noi dobbiamo appoggiare Israele, come ci chiedono anche le sue sedi diplomatiche, ma dobbiamo altresì fargli sentire il peso numerico, culturale, tradizionale, perfino economico della Diaspora. Abbiamo il potere e anche il dovere di influire in qualche misura sulla politica israeliana.
In che direzione?
In primo luogo credo che vada sollecitato il ritiro dal Libano. Altrettanto urgente è bloccare i nuovi insediamenti ebraici nei territori occupati. Dopo di che, come già dicevo, va cautamente ma decisamente perseguito il ritiro dalla Cisgiordania e da Gaza.
E i rapporti con l’Olp?
L’Olp è a sua volta un Proteo, non si capisce bene che faccia abbia, oggi. A parole porge una mano... Ma no, non penso che siano maturati i tempi per un contatto con l’Olp. Arafat è in declino, non sappiamo cosa fa, cosa pensa, dov’è, neppure se è ancora davvero il presidente dell’Olp. Forse verrà il momento in cui un governo israeliano potrà trattare con l’Olp, ma non oggi. Entrambi i contraenti sono in fase fluida.
Se, come lei auspica, il centro dell’ebraismo deve tornare a vivere nella Diaspora, bisognerà che si verifichi un qualche risveglio delle comunità israelitiche, che gli ebrei vadano alla ricerca delle proprie radici e della propria «diversità» nel paese in cui vivono?
Sí. Anche se ancora non accade, questo dovrebbe e potrebbe accadere in un paese come l’Italia, dove la comunità ebraica è numericamente esigua, ma piuttosto compatta. Questo è anche il nostro limite: siamo pochi e integrati.
Due anni fa, dopo l’invasione del Libano, lei diede vita insieme ad altri ebrei italiani a una protesta pubblica contro il governo israeliano. È l’indignazione, dunque, la molla che può unire gli ebrei della Diaspora?
Parliamo, più pacatamente, di disapprovazione. Sí, quella è una molla, anche se io ho sempre idealmente davanti a me l’israeliano che mi rimprovera «fai presto tu, ebreo italiano in poltrona, a decidere per noi!» Eppure insisto. La storia della Diaspora è stata, sí, una storia di persecuzioni, ma è stata anche una storia di scambi e di rapporti interetnici, quindi una scuola di tolleranza. Specie in Italia. Se fossi meno stanco, se avessi piú forze, agirei nella comunità israelitica italiana affinché assumesse questo ruolo. Perché mi sta bene l’integrazione degli ebrei in Italia, ma non la loro assimilazione, la loro scomparsa, il dissolvimento della loro cultura. Proprio qui a Torino c’è l’esempio positivo di una comunità israelitica integrata nella vita e nella cultura della città, ma non assimilata.
È difficile, per uno che la pensa come lei, il rapporto con le istituzioni ebraiche e israeliane?
Parlerei di un rapporto affettuoso e polemico. Certo profondo. Perché io sono convinto che Israele va difeso, credo nella dolorosa necessità di un esercito efficiente. Ma sono convinto che anche al governo israeliano faccia bene confrontarsi con un nostro appoggio sempre condizionato.
«L’Espresso», XXX, 30 settembre 1984, n.39