Šklovskij e Rozanov, al di là e al di qua del tempo
Ci sono libri che sono isole in mezzo al mare, oggetti che tendono a restare chiusi in sé stessi; altri che sono isole in arcipelaghi, autonomi, ma in qualche modo dialoganti. Mi sembra che Rozanov di Viktor Šklovskij appartenga alla seconda categoria, pur essendo il prodotto molto connotato di una temperie culturale che fu caratterizzata da necessari estremismi e inevitabili limiti. Ma con chi o cosa dialoga Rozanov?
Andiamo per ordine e cominciamo dall’inizio, cioè dal titolo di questo agile libretto, Rozanov Dal libro “L’intreccio come fenomeno di stile”, pubblicato da Wojtek (2023), come quarto volume della collana Ostranenie, che in russo vuol dire straniamento, concetto teorizzato, non a caso, da Šklovskij. A primo impatto sono molte le informazioni che il lettore sente di dover recuperare, ma un ottimo supporto è fornito dagli accurati apparati paratestuali: dalla prefazione dei curatori, Federica Arnoldi, Luca Mignola e Alfredo Zucchi, e soprattutto dalle note e schede bio-bibliografiche di Maria Zalambani, che ha tradotto il saggio.
Necessaria a moltissimi è sicuramente la scheda biografica su Vasilij Rozanov (1856-1919), scrittore e filosofo religioso, autore e pensatore controverso per le sue idee sul matrimonio, sui rapporti carnali, sull’ortodossia. Uno dei suoi primi scritti, La leggenda del Grande Inquisitore (1891), è diventato un testo non marginale tra gli studi su Dostoevskij, con cui Rozanov ha vari punti di contatto. Uno di questi è, curiosamente, una donna, Apollinarija Suslova, che con Dostoevskij aveva avuto una burrascosa relazione e che Rozanov sposò nel 1880: lui ventiquattrenne, lei quarantenne. «È da supporre che lo mandasse in estasi la possibilità di conoscere carnalmente la donna di Dostoevskij» ha scritto a tal proposito Mark Slonim, in un commento neanche tra i più maligni tra tutti quelli che a Rozanov sono stati riservati. Nelle testimonianze dei contemporanei viene descritto come un uomo unto, bavoso, molliccio, sgradevole. Angelo Maria Ripellino lo paragona a un personaggio dostoevskiano, a un uomo del sottosuolo, indifferente e privo di volontà, con la sua «smania di autoflagellazione, l’ombrosità, la petulanza, il bisogno di confessarsi e di sbandierare le proprie magagne», come ha scritto nel suo saggio, Rozanov: ricognizione del suo sottosuolo (che si può leggere in V. Rozanov, Foglie cadute, Adelphi, 1976, p. 414).
Al di là dell’aspetto fisico e della personalità, Rozanov si attirò numerose critiche per l’ambiguità delle posizioni che assunse. Pur dichiarandosi apertamente conservatore, antisemita e monarchico, ad esempio, collaborò nello stesso periodo sia con la rivista conservatrice “Novoe Vremja” che, sotto pseudonimo, con la liberale “Russkoe Slovo”, senza ritenerlo sconveniente, anzi con la convinzione di avere ragione negli uni e negli altri articoli, come lui stesso ha dichiarato in Foglie cadute (p. 160). Fu così accusato di doppiogiochismo, oltre che di pornografia, e tre anni dopo la sua morte, nel settembre del 1922, un articolo di Trockij pubblicato sulla “Leningradskaja Pravda” diede inizio al divieto ufficiale sovietico delle sue opere.
In vita ebbe detrattori ed estimatori, suscitò soprattutto interesse tra simbolisti, acmeisti e futuristi. In una recensione del 1913 al suo Foglie cadute, il critico Pavel Percov definisce la sua un’opera «strana», «ma che gli ‘amici di Rozanov’ riconosceranno subito come un suo libro». È proprio la stranezza, la non-convenzionalità di Rozanov, sia sul piano formale che tematico, a renderlo un interessante oggetto di analisi per Viktor Šklovskij che, nell’ambito della critica formalista, andava studiando i procedimenti e i meccanismi di funzionamento delle opere letterarie.
Nella postfazione al volume, Maria Zalambani, fine studiosa del periodo in questione – e non solo – e già traduttrice del romanzo epistolare di Šklovskij, Zoo o lettere non d’amore (Sellerio 2002), ricostruisce la genesi del saggio e le varie elaborazioni che subì. La prima versione integrale fu pubblicata nelle Raccolte sulla teoria della lingua poetica (1921), ma il saggio era stato già parzialmente pubblicato sulla rivista “Žizn’ iskusstva” (1921) con il titolo Tema, immagine e intreccio in Rozanov. Quello stesso anno, il 3 aprile, Rozanov era stato oggetto di una conferenza che Šklovskij aveva tenuto al Circolo linguistico di Mosca. In seguito il testo prese il titolo di La letteratura senza intreccio ed entrò in forma ridotta nella prima e seconda edizione di Teoria della prosa (1925 e 1929).
In Rozanov, Šklovskij prende le mosse dalla teoria generale sulla coesistenza e sull’avvicendamento delle scuole letterarie nelle varie epoche, teoria che si rivela ben presto funzionale all’analisi del caso Rozanov, di cui vengono prese in esame le opere Solitaria e Foglie cadute (cesta 1 e 2). Šklovskij nota che in esse Rozanov introduce nuovi temi riguardanti in particolare la prosaicità del quotidiano e la famiglia, creando così un nuovo genere che canonizza una linea minore della letteratura, «in un momento in cui quella precedente era ancora possente» (p. 42). Nelle tre opere, Rozanov articola la materia letteraria in frammenti che tuttavia formano un’unità compositiva assimilabile al romanzo (Šklovskij lo definisce «romanzo senza motivazione» p. 38).
Da un punto di vista formale, Šklovskij ravvisa nelle opere di Rozanov procedimenti che sono in linea con la sua sensibilità di critico. Faccio un paio di esempi senza che il discorso diventi troppo tecnico. Un procedimento su cui si sofferma Šklovskij è la contraddizione, che esemplifica con varie citazioni. Rozanov in particolare crea contrasti regolarmente, sia tra azione e luogo dell’azione sia collocando il materiale letterario in luoghi insoliti. C’è poi il concetto di straniamento, che il critico formalista aveva elaborato nel famoso saggio L’arte come procedimento (1917), e a cui torna anche in Rozanov, riportando il seguente estratto da Solitaria: «I bambini si differenziano da noi per il fatto che recepiscono tutto con un realismo talmente forte, che agli adulti è inaccessibile. Per questo i bambini si godono il mondo molto più di noi» (p. 47). È chiaro che sia Rozanov che Šklovskij hanno a cuore il modo in cui guardiamo e percepiamo gli oggetti.
E qui torniamo alla domanda iniziale: con chi dialoga Rozanov? Mi sembra di poter identificare tre livelli di dialogo. Il primo è quello tra i due scrittori, Šklovskij e Rozanov, non solo per i contenuti, ma anche per una certa maniera di scrivere, frammentaria e composita, che attinge a fonti diverse, inglobando materiali molteplici. In modo simile a Rozanov, Šklovskij scrive un romanzo sovversivo, un «anti-romanzo formalista», come Zalambani definisce Zoo o lettere non d’amore (ivi, p. 10). Si potrebbe parlare di influenza, e c’è chi l’ha fatto, riferendosi in particolare a quella esercitata da Rozanov sul Viaggio sentimentale di Šklovskij, ma preferisco l’idea di dialogo, che oltre a non essere gerarchica, si può efficacemente estendere al saggio in sé e al suo porsi in comunicazione con altri studi di Šklovskij. È l’autore stesso infatti ad accennare e a rimandare a opere o autori trattati più ampiamente altrove, come Tristram Shandy, a cui dedica un saggio (“Tristram Shandy” di Sterne e la teoria del romanzo), pubblicato nel 1921 e poi confluito in Teoria della prosa. Ecco, quindi, il secondo livello di dialogo.
Infine ho l’impressione che il Rozanov delle tre opere analizzate abbia la capacità di intessere un dialogo anche con la contemporaneità. I suoi frammenti rimandano alla nostra scrittura sui social che, pur essendo frammentaria, spesso segue «una certa costanza nel procedimento» (p. 21). Nei nostri post indichiamo il luogo in cui ci troviamo, come le informazioni che dà Rozanov su dove si trova a scrivere lui. E allora forse, davvero, Rozanov riesce a stare dentro e fuori il suo tempo, al di qua e al di là di esso, per usare le parole con cui i curatori presentano il volume; sembra collocarsi in un limbo, simile a quell’anticamera metafisica della copertina da cui si scorge una luce accecante.