Sotterraneo: teatri al rogo
Cinque sedie, allineate in proscenio, si stagliano sul palco vuoto del Teatro Fabbricone di Prato. Sul fondale, due schermi spenti e un faro motorizzato, anch’esso a riposo, sembrano dichiarare che lo spettacolo è già finito, e che presto inizierà il consueto rituale dell’incontro con la compagnia, quel dialogo con il quale teatri e festival provano ad accorciare la distanza, a tratti ritenuta crescente, tra artisti e pubblico. In effetti, per buona parte di Il fuoco era la cura – l’attesa nuova creazione di Sotterraneo, coprodotta insieme a Teatro Metastasio, Piccolo Teatro e ERT – ciò a cui assistiamo è una messa in scena del più tipico strumento dell’audience development, al punto che ci aspetteremmo da un momento all’altro di essere coinvolti – attraverso uno dei molti, sofisticati modi ai quali il collettivo fiorentino ci ha abituati – all’interno dello spettacolo. Eppure nulla di tutto ciò accade: nessun dispositivo partecipativo – si pensi all’invito rivolto al pubblico ad alzarsi in piedi durante alcune sequenze di Overload, oppure al suono del timer impostato sui cellulari di tutti i presenti in sala durante L’angelo della storia – interrompe la drammaturgia, e la simulata conversazione con i cinque attori è di fatto un inconsueto collage di soliloqui, al quale gli spettatori assistono ammutoliti. È forse un dettaglio secondario, un minimo scarto da una consolidata tradizione formale, tuttavia proprio il nostro silenzio – percepito come straniante, costretti come siamo ad ascoltare risposte a domande non formulate – si fa latore di alcuni dei temi che animano lo spettacolo: l’indagine intorno allo spazio concesso all’intervento della cittadinanza nelle nostre società; la conoscenza dei loro meccanismi politici e rappresentativi; la responsabilità condivisa, come membri della polis, ogniqualvolta ci riuniamo in piazza, in teatro o in un seggio elettorale. È al destino delle nostre comunità, compromesso da culture wars o da vecchi e nuovi autoritarismi, che guardano infatti i Sotterraneo, mutuando da Fahrenheit 451 l’abbrivio romanzesco di un futuro distopico, dal quale i libri, e con esso la cultura tout court, sono ormai banditi.
Il testo di Ray Bradbury, che ha celebrato nel 2023 i settant’anni dalla prima pubblicazione, ha fornito al gruppo composto da Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Daniele Villa un solido impianto narrativo, restituitoci in scena da cinque giovani attori, quasi tutti alla prima collaborazione con Sotterraneo. Flavia Comi, Davide Fasano, Fabio Mascagni, Radu Murarasu, Cristiana Tramparulo fanno il loro ingresso ciascuno stringendo in mano un libro, sussurrandone le frasi nell’inane sforzo di impararlo a memoria, e introducendo attraverso rapidi accenni le caratteristiche del personaggio che interpreteranno. È una dichiarazione che il pubblico più attento al percorso di Sotterraneo accoglie quasi con stupore: da sempre associato alle declinazioni più raffinate del post-drammatico nazionale, il collettivo approda adesso a caratterizzazioni e torsioni psicologiche, a una fabula, finanche a una scrittura tratta da un libro celebre, del quale ripercorrere gli snodi fondamentali. Ma il “metodo Sotterraneo” – di cui Il fuoco era la cura rappresenta soprattutto un tentativo di trasmissione a una nuova generazione di performer – agisce anche se applicato a un romanzo, e la scrittura di Daniele Villa frappone alla linearità del racconto altre tracce drammaturgiche e registiche. Accanto ai momenti salienti della vicenda – l’ordinaria, feroce attività incendiaria dei pompieri; l’improvvisa presa di coscienza del protagonista, Montag; l’incontro con i book people – si susseguono ora alcune scene volte a ripercorrere una storia universale del libro, e con essa della stessa cultura umana, ora un surreale mockumentary che, sotto forma di incontro con il pubblico di un teatro, racconta la quotidiana vita di una compagnia in un prossimo 2051. I fili del tessuto testuale si sovrappongono e si meticciano, trasformando le immagini di Fahrenheit 451 in interrogativi filosofici e affondi antropologici – agiti attraverso quei riconoscibili tableaux vivants che contraddistinguono l’arte scenica del gruppo – e nelle confessioni di un gruppo di attori, riunitisi in un futuro non così improbabile. Come in un romanzo, i capitoli indicati dalle didascalie proiettate sui due schermi delimitano gli ambiti cronologici di un’opera che spazia attraverso le ere e le epoche, condensandole nell’immediatezza di un fatto – il teatro – perennemente antico: ancestrale come i racconti di un tempo, pronunciati nel buio rischiarato da un fuoco, e ormai dimenticato come una vecchia moda, un vizio da perdere, una cattiva abitudine fortunatamente sconfitta.
Qui, nella velocità con cui le sezioni della drammaturgia si succedono, agisce con più efficacia la corrosiva ironia di Sotterraneo: che vorrebbero poter tradurre l’esplosiva scrittura di Bradbury, la pirotecnica descrizione della città e dei roghi, in apparati scenografici sontuosi e cinematografici, ma che – considerato il budget a disposizione – si limitano a descrivere le auto sportive che avrebbero dovuto fendere le quinte, o l’interno di quella metropolitana che avrebbero voluto riprodotta sul palco con assoluta, iperrealistica fedeltà. Che il bersaglio principale della satira di Il fuoco era la cura sia la costante minaccia sotto la quale vivacchia il teatro, lo rivelano d’altronde i cinque interpreti nel loro surreale rivolgersi al pubblico, quando rammentano le rapide tappe che, a partire da quel 2024 in cui stavano lavorando insieme a uno spettacolo tratto dal capolavoro di Bradbury, ha portato all’estinzione di quella forma d’arte così desueta, così nostalgica. Mentre Montag passa dall’iniziale, cieca adesione alla propria missione incendiaria, a quella feroce e omicida ribellione che sembra nascondere, in nuce, il germe di un futuro differente, la fantasia distopica de Il fuoco era la cura associa invece un percorso inverso, al termine del quale nessuna salvezza è concessa alle donne e agli uomini di teatro, e con loro a una società sempre più rabbiosa e violenta, lacerata da insanabili pulsioni giustizialiste.
I roghi dei libri, ci ricordano le didascalie sugli schermi, hanno costellato la storia umana sin dai suoi albori: Alessandria d’Egitto, i Bücherverbrennungen nazisti, la distruzione del patrimonio culturale Maya, o ancora le “cupe vampe” che avvolsero, nelle parole di Giovanni Lindo Ferretti, la Biblioteca Nazionale di Sarajevo, fino ai grotteschi – ma altrettanto pericolosi – roghi di libri a tematica LGBTQIA+ che periodicamente gli esponenti dei gruppi alt-right organizzano negli Stati Uniti. E altri roghi, profetizzano i Sotterraneo, colpiranno il Corano, dato alle fiamme nelle nostre capitali occidentali, o la Biblioteca del Consiglio Europeo: ma al fuoco saranno presto affiancate nuove forme di distruzione, di censura, di damnatio memoriae. Il fuoco era la cura affronta, con sorniona eleganza, anche i temi della cancel culture e della “nube tossica mediatica” nella quale siamo costantemente immersi: la messe di informazioni contrastanti che bombardano l’uomo e la donna del ventunesimo secolo – e di cui Overload tratteggiava le conseguenze sulla soglia d’attenzione individuale – determina oggi una brutale guerra per la verità, o piuttosto per il più efficace storytelling. A farne le spese sono soprattutto gli spazi di discussione e confronto, le zone intermedie e grigie di un pensiero che non sia monolitico, le scrittrici e gli scrittori non allineati. Sul finire degli anni Venti del terzo millennio – ricordano gli attori in quel 2051 in cui incontrano il pubblico – le fatwe lanciate in rete contro autori considerati pericolosi si stavano sempre più diffondendo, finché a farne le spese fu J. K. Rowling, la creatrice di Harry Potter, assassinata dalla destra ultracattolica o forse dalla sinistra transfemminista. Il futuro è già adesso, sussurrano i Sotterraneo: è tra noi che assistiamo imponenti al crescente odio verso gli intellettuali, tra noi che non sappiamo (o forse non vogliamo) difendere l’autonomia dell’artista o della sua opera, tra noi che forse avremmo bisogno solo di un po’ di silenzio. La scritta silence, luminosa e pop, emerge così dalla semioscurità del palco, sorretta con cura e rispetto, dal gruppo degli attori: quasi un invito – non sapremo mai con quanta convinzione formulato – a pretendere un tempo di raccoglimento e ascolto che possa separarci dal rumore assordante che ci circonda, e al contempo un monito e una minaccia. È il silenzio delle voci di opposizione, di qualsiasi opposizione, che i roghi dei libri hanno cercato di ottenere, e a volte ottenuto.
Di insanabili contraddizioni, d’altra parte, si nutre Il fuoco era la cura: la creazione di Sotterraneo rifugge da qualsiasi manicheismo, dall’algida sicumera con la quale molto attivismo odierno, nel propugnare sacrosante battaglie, corre il rischio – sembra suggerire il collettivo – di assomigliare tanto, troppo, alla propria antitesi. Le didascalie ci ricordano quanto Hemingway fosse maschilista e guerrafondaio, ma lasciano altresì deflagrare la sua vertiginosa capacità di condensare, in sei parole, un’intera, drammatica storia – “In vendita: scarpette neonato, mai usate” – affidando a noi spettatori (e non è forse questo il privilegio più grande?) la responsabilità di decidere verso quale narrazione propendere. La verità è una merce rara anche in Fahrenheit 451, se scegliamo di credere all’aneddoto per il quale la temperatura alla quale brucerebbe la carta sarebbe stata indicata a Bradbury, a caso, da un centralinista della più vicina stazione dei pompieri: in fondo, perché mai dovremmo deturpare la bellezza con la verità? Ma non farlo, non ci lascerebbe piuttosto in preda al pensiero magico e alla superstizione?
Schizofrenica, la realtà delineata da Il fuoco era la cura appare ciò nonostante prossima a una distruzione ben più radicale di quello che potrebbe sembrare un mero cambio di paradigma: mentre discettiamo di “polarizzazioni, tribalismi, teorie del complotto, politiche identitarie, trigger warnings” – e l’elenco di questi feticci culturali sembra interminabile – è la catastrofe ecologica a incendiare il mondo. In una delle sequenze più riuscite dello spettacolo, il rogo della casa di una lettrice, arsa viva da Montag e dai pompieri insieme alla sua biblioteca, si propaga fino alla foresta: le voci dei cinque interpreti si rincorrono nella straziante descrizione di koala in fiamme, di uccelli infuocati che si librano nell’aria insieme alle pagine dei libri, di alberi che cedono al calore schiantandosi al suolo. Posti di fronte alla fine dei tempi, e della civiltà per come l’abbiamo conosciuta, possiamo forse respirare un ultimo alito di bellezza: leggere Proust, contemplare un dipinto di Matisse, ascoltare insieme la voce di Damon Albarn. O piuttosto, come ci insegna il circo, fare entrare i pagliacci: un istante dopo che il trapezista, e la sua utopia di sopravvivenza, si sono schiantati al suolo.
In scena al Teatro Studio Melato del Piccolo Teatro dal 21 al 26 maggio.
Le fotografie di Il fuoco era la cura sono di Masiar Pasquali.