Strage di Bologna: i conti col passato
Nei giorni scorsi sulla scia dell’anniversario della strage alla Stazione di Bologna (2 agosto 1980) molti si sono chiesti perché Giorgia Meloni non abbia ancora affrontato di petto la questione e non abbia detto delle parole chiare sulla matrice politica e sulle cose ancora «in grigio» che riguardano quel fatto.
Fare i conti col passato è sempre complicato. Soprattutto se ti riguarda da vicino o riguarda da vicino quelli che senti come «prossimi» e se ti sei raccontato come «vittima» cui il consenso sta dando una possibilità di riscatto. In questa seconda dimensione fare i conti col passato, prima ancora che un fastidio, sembra una richiesta importuna. Meglio: «inopportuna».
Dunque, un atto che non è avvenuto. Non credo che avverrà a breve. Perché fare i conti col passato non è mai un gesto di «pulizia» o di riordino. Corrisponde a un progetto di futuro e corrisponde ad avere una definizione chiara di storia condivisa.
Mi spiego con due esempi: da una parte la parentesi rappresentata dalla figura di Michail S. Gorbaciov nel periodo della sua segreteria del Partito comunista in Urss tra 1985 e 1991; dall’altra il tempo della ricerca di una storia condivisa che fu parte del linguaggio diffuso nel primo decennio della Seconda Repubblica, da noi, qui in Italia. Il tentativo di riforma di Gorbaciov si sosteneva su due parole chiave: «Glasnost'» e «Perestroika».
«Glasnost'»: trasparenza, chiarezza nei rapporti politici e sociali; pubblicità dell'informazione, apertura dei dossier fino ad allora segreti.
«Perestroika»: ristrutturazione, ma in realtà riforma.
«Glasnost'» racchiudeva in sé una vasta serie di misure volte ad attenuare la censura attraverso una graduale apertura alla libertà di stampa, a rianimare il dibattito politico interno e a rendere pubbliche e relativamente criticabili le decisioni del Politburo. Non era solo dire la verità. «Glasnost'» non era un termine tecnico, era un termine politico. Il problema, infatti, non consisteva solo nel rendere pubblico e pubblicamente discutibile ciò che era stato fino a quel momento «occultato» o «segreto», ma nel fare di quella condizione la premessa di una riforma politica. La dimostrazione che questa connessione era strutturale è nel fatto che archiviato il tempo della «Glasnost'» e della «Perestroika», quel processo di privatezza, di potere autoritario, per non dire semi totalitario, è tornato a segnare il codice della regolarità nella vita collettiva, individuale e nella vita politica della Federazione Russa. L’apertura degli archivi è stata come una «rondine solitaria». Semplicemente «non ha fatto primavera». Si è tornati molto presto in un autunno per poi velocemente calare in un nuovo inverno. La questione, dunque, che «Glasnost'» non è una linea politica, è solo uno spirito in un tempo. Quella ricerca di trasparenza sarebbe un segnale se si fosse non solo invertito il codice del potere precedente, ma se si fosse perseguito una logica altra rispetto al codice precedente.
Esempio: si ritiene che ci sia stata un’egemonia culturale che ha reso non democratica l’informazione? Bene, allora si vanno a cercare e a nominare competenze in relazione alla qualità. Se il codice è spulciare le liste degli amici per sostituirli a coloro che si ritengono nemici o avversari, allora la trasparenza è già finita.
Meglio chiamare le cose con il loro nome e non pensare che si stia facendo il rinnovamento. Più semplicemente: si cambiano le cose, per lasciarle uguali. Nel dubbio chiedere a don Fabrizio Corbera, principe di Salina.
In Italia abbiamo parlato a lungo di «una storia condivisa». Lo abbiamo fatto per almeno dieci anni tra la fine degli anni ’90 e il primo decennio di questi anni 2000, Il tema era come «digerire» la divisione della storia italiana, una volta che avevamo deciso che non si poteva far finta che in Italia ci fosse stato il razzismo. Non eravamo stati buoni, il «bravo italiano» era un mito, forse continuavamo a non esserlo anche nel tempo presente. Comunque abbiamo provato a fare in modo che fosse possibile raccontarsi una storia. La proposta era stata formulata da Luciano Violente nel discorso di insediamento da Presidente della Camera dei deputati, il 10 maggio 1996.
Ammesso che il profilo di quel percorso fosse corretto (del resto in Italia per fare i conti con le cose «sospese» la pratica corrente è il condono, l’amnistia, come la “derubricazione”), comunque non ha funzionato. Il mito del bravo italiano ha vinto ancora. Non per infingardaggine o per «malavoglia», ma perché arrivare a essere consapevoli di avere una storia condivisa non significa solo raccontarsi le disgrazie, ma condividere le responsabilità, ovvero fare i conti con le scelte che quegli atti hanno determinato. E non significa essere d’accordo su tutto, ma sapere che non ci sono scusanti sui punti problematici della propria storia.
In ogni caso le singole parti politiche che compongono una collettività nazionale (ma che non sono da sole tutta la collettività nazionale) se dicono di essere consapevoli del loro passato inquieto è perché sono disposte a confrontarsi anche mettendo in discussione se stessi con i punti di svolta inquieti del proprio passato. In Italia l’attuale maggioranza non lo sta facendo. Perché pensa di essere già uscita d’obbligo e perché conferma un vecchio vizio collettivo: ovvero raccontarci (anche allora) che i colpevoli erano gli altri, c’erano sempre altri che facevano «i cattivi» nelle storie in cui dovevamo fare i conti con i punti problematici del nostro passato. E poi che non c’è niente di cui pentirsi.
E allora di quale storia condivisa stiamo parlando?
Una storia condivisa è una piattaforma che contempla trovarsi d’accordo con il livello minimo. Avere un passato e una condivisione non vuol dire concordare su tutto. Vuol dire avere una base comune. Questa base può essere molto estesa, o alquanto ridotta. Ma riguarda l’essenziale.
Tornando alla strage di Bologna, condividere la riflessione sulla strage implica concordare su almeno tre punti fondamentali: mandanti; scopo dell’azione; responsabili. Restano fuori molte altre cose che riguardano la valutazione complessiva della stagione politica in cui quell’evento si colloca; i malesseri che lo attraversano; le passioni e i conflitti che lo spiegano. Ogni parte politica ha il dovere di confrontarsi con le cose che creano problemi, soprattutto quelle che lo creano alla propria parte politica. Diversamente si gioca: con le parole, con i gesti, con gli ammicchi. In altre parole: «si fa finta».
Il profilo di chi intende fare i conti con le spine del passato non può essere eguale al codice comunicativo adottato per Io sono Giorgia.
Quel libro, anche in forza di una scrittura indubbiamente molto brillante, ha contribuito in misura non indifferente, al successo politico di Giorgia Meloni (insieme e soprattutto a una stagione in cui dall’altra parte la proposta politica era alquanto incerta, dando luogo a un vuoto che ancora deve essere in gran parte colmato). Quel testo ha finito la sua funzione. Per il Presidente del Consiglio è arrivato il momento di uscire dalla posa del selfie politico e affrontare i nodi, gli irrisolti, e i non detti di una storia.
La memoria condivisa non avviene mai sulle cose che non disturbano, ma su quelle per cui occorre fare un confronto con le cose che non si sono dette, con i punti di passaggio incerti, con le cicatrici non riassorbite. La memoria condivisa, in altri termini, non è un compromesso o un gioco al ribasso. È la capacità e la volontà di compiere scelte irreversibili. Nella storia della vita è uscire dall’adolescenza e entrare nell’età adulta o aprire una fase completamente riformulata della propria età adulta.
Forse godere di successo non aiuta. Specie se la prima domanda non è «cosa ha valore fare?», ma «che cosa ci guadagno?». Ma questa, forse, è un’altra storia.