Sull’atelier. Dialogo tra Yves e John Berger
Emmanuel
Che ruolo ha il villaggio di Quincy nella vostra vita e quale influenza esercita su di voi?
John
Prima di tutto è importante osservare che non abbiamo lo stesso rapporto con questo luogo. Yves è nato a qualche gomena da qui e ci è sempre vissuto, mentre io ci sono arrivato che avevo cinquant’anni. È una differenza fondamentale, anche se non la so definire con precisione.
Yves
Si tratta senza dubbio di una differenza legata all’infanzia. La mia è trascorsa interamente in questo villaggio o, per essere più precisi, in questa piccola vallata. Il mondo mi sembrava immenso, anche se si fermava alla cresta dei monti che mi circondavano. Senza sospettarlo percepivo il legame che unisce il locale al globale. Anche se oggi so che il mondo va molto al di là di queste montagne, la mia piccola esplorazione continua a compiersi entro questo perimetro minuscolo. Forse è l’idea di una monade: un’infinitesimale parte del mondo che contiene il mondo intero.
Quincy. L'atelier di Yves Berger. Foto Maria Nadotti
John
Quando si parla di luoghi, si pensa d’istinto a un posto fisico. Io mi domando, tuttavia, se un luogo non sia innanzitutto una parte del corpo. Mi piace tanto più discutere di quest’idea qui, nel tuo atelier, perché mi pare che questo rapporto tra luogo e corpo sia molto presente nel tuo immaginario di pittore… Quest’idea molto specifica di luogo ha senza dubbio a che vedere con il toccare e ha senz’altro origine nel ventre della madre, il primo corpo che rappresenta il centro del mondo.
Yves
Questa correlazione tra corpo e luogo è effettivamente molto presente nella mia pittura. Però trae origine dalla stessa vita più che dal mio immaginario. Per me il corpo che si estende o si prolunga nello spazio è tipico del lavoro dei contadini. I loro corpi marchiati e segnati dai carichi di lavoro li fanno somigliare ai luoghi in cui tali corvée si sono accumulate nel corso degli anni. Per esempio a Louis, il contadino presso il quale lavoro, è venuta la gobba a forza di curvarsi a mungere le mucche. Ebbene, se si disegna la curva della sua gobba si scopre non solo che la linea che si è tracciata si coniuga con quella del dorso delle vacche, ma anche che non è dissimile dal profilo delle montagne. Questi paralleli tra il corpo e lo spazio sono infiniti. Quel che li distingue sono i limiti.
John
Cosa intendi con “limite”?
Yves
I confini che distinguono l’interno dall’esterno, quel che non può passare attraverso. La pelle, per esempio. D’altra parte questi confini lasciano sempre passare qualcosa: la pelle lascia passare il sudore… Nel rapporto tra corpo e luogo ciò che affascina è appunto quel che si produce sul piano dei confini, che passa attraverso o resta a margine. Questo tra-due è molto misterioso.
Quincy. Yves Berger. Foto Maria Nadotti
John
Quando una superficie ne tocca un’altra, si può anche parlare di prossimità o di intimità. È una forma di paradosso, perché la parola “confine” evoca piuttosto l’idea di frontiera. Eppure, senza frontiera, la prossimità e l’intimità non possono esistere.
[…]
Yves
Il territorio permette di materializzare il bisogno di resistenza che sono in tanti a sentire. Penso a uno dei nostri amici, Stéphane. Tutti i giorni, finito il lavoro, va nel frutteto di suo nonno a tagliare gli alberi o a piantarne di nuovi per sostituire le piante malate. Inoltre raccoglie la frutta per fare succo di mela o acquavite. Può sembrare un gesto da niente, ma per lui è di capitale importanza. Del resto è lui stesso a dire che la giornata in cui distilla è la più bella dell’anno. è evidente che questa cosa da nulla dà tanto senso alla sua vita proprio perché si inscrive nel territorio.
Emmanuel
Non è banale che la cosa si manifesti attraverso gli alberi.
Yves
In effetti cambia il rapporto con il tempo. La cura del frutteto è per Stéphane una specie di parentesi. Il tempo acquista un’altra dimensione. Il passato di suo nonno e l’avvenire dei suoi nipoti si fondono… è un respiro che in circostanze normali il mondo non gli concede.
John
È un’osservazione molto importante. Però non bisogna credere che Stéphane torni nel frutteto di suo nonno per nostalgia. Come hai appena sottolineato, è anche una maniera di immaginare il futuro e di riprendere fiato oggi.
[…]
Emmanuel
Se c’è un luogo in cui la ricerca della luce è essenziale è proprio l’atelier. In “Conversazione in studio”, uno dei testi raccolti nel volume Sacche di resistenza, tu John mostri che il luogo è tutto meno che uno spazio vuoto. È un luogo in situazione, lo spazio in cui un evento è portato a prodursi.
Yves
In una lettera a Léon Kossof, John, paragoni l’atelier a uno stomaco. È un’immagine che mi piace moltissimo. In certi atelier – come quello dove Kossof ha dipinto tutta la vita – ogni cosa, compresi i muri e il pavimento, fa pensare a uno stomaco. Naturalmente si può avere uno studio molto lindo, ma l’immagine dello stomaco, di un luogo da cui le cose entrano e escono, mi sembra del tutto appropriata. Chi abita l’atelier somiglia agli acidi che popolano lo stomaco e digeriscono le cose. Contribuisce al processo che porterà le cose a uscire di nuovo.
John
Se ci riferiamo a questa immagine è bene ricordare che nelle migliori circostanze il processo è ribaltato. Quel che entra è la merda e quel che esce un’offerta.
Yves
Va sottolineato che l’atelier in cui siamo si trova in un vecchio fienile. Si tratta dunque in partenza di un luogo che somiglia a uno stomaco. Il raccolto veniva immagazzinato sotto il tetto prima di essere calato a poco a poco nella stalla, digerito dalle vacche e di nuovo sparso nei campi sotto forma di letame.
John
Dimentichi un passaggio: le vacche danno anche il latte… La maggior parte degli atelier, ed è il caso di quello in cui ci troviamo, sono gremiti di immagini. Quelle del pittore o dello scultore che ci lavora, ma anche di immagini del passato. Come se tutta l’anima del passato, gli artisti ai quali si ricollega, lo accompagnassero nella solitudine colossale che talvolta un atelier rappresenta.
[…]
Yves
Secondo Deleuze, quel che è più terrificante per un pittore sono le immagini del passato, non la tela vergine. Perché possa sbocciare qualcosa di nuovo, che vada al di là del luogo comune, l’artista deve combattere e rompere i cliché. Sotto certi aspetti queste presenze assumono anche tale forma. Sono un sostegno, ma anche un avversario da sconfiggere. L’atelier è dunque un luogo dove l’artista lotta con se stesso, ma è in primo luogo con il mondo che egli è in lotta.
John
Nel corso della vita ho avuto occasione di entrare in numerosi studi d’artista. Spesso hanno un aspetto caotico. Sembra che vi regni il più grande disordine. È certamente dovuto a questo famoso campo di battaglia.
Yves
Senza dubbio, anche se parecchi atelier sono estremamente curati e molto ordinati. La confusione mi sembra più un riflesso del processo che passa sempre attraverso fasi di caos. Deleuze lo definisce del resto il “caos-germe”. È nel caos che si abbandonano i cliché, ma anche tutto quel che ha a che vedere con la volontà. Ed è grazie a questa perdita che il germe può cominciare a attecchire. Nel migliore dei casi questi “lasciare la presa” che attraversano il caos permettono di trovare quel che si cercava. Per arrivarci è stato prima di tutto necessario sbarazzarsi dell’idea di trovarlo o cercarlo. Un po’ come se, avendo di mira un punto, si vedesse, correndogli incontro, che non è possibile raggiungerlo, che bisogna deviare per ripiombarci sopra.
Emmanuel
Ci sono artisti che non gradiscono l’intrusione di sconosciuti nel loro atelier. È così anche per te? Il tuo studio è uno spazio rigorosamente riservato o è un luogo aperto al quale chiunque può accedere?
Yves
Non ho nessuna difficoltà a lasciare aperte le porte del mio atelier, anche se capisco che altri possano averne. Per esempio sono molto contento quando qualcuno del villaggio viene a farmi visita. Detto questo, non è che capiti molto spesso. Nei loro occhi leggo ogni volta una certa sorpresa. Sento un qualche imbarazzo davanti al caos che da me si traduce in un gran numero di tele sparpagliate un po’ ovunque. In effetti ho l’abitudine di lavorarne parecchie contemporanemente, di avviarne un bel po’. Davanti a questo spettacolo un giorno qualcuno mi ha domandato se non avevo paura di disperdermi. A modo suo aveva messo il dito su qualcosa di essenziale. Nel mio lavoro c’è sicuramente una volontà di disperdermi. Si tratta beninteso di una questione di dosaggio e di limite. Bisogna trovare non un equilibrio, ma uno squilibrio permanente nel modo di disperdersi o di contenere la propria dispersione. L’osservazione mi ha tanto più colpito dal momento che oscillo di continuo tra avere troppe cose in cantiere e non averne abbastanza.
John
Capita di frequente che Yves estragga dall’atelier le sue grandi tele e le disponga sul ponte del fienile per condividerle con noi. Gli automobilisti di passaggio hanno a loro volta modo di vederle… Darei non so cosa per sapere che cosa ne pensano, che cosa rappresentano per loro. Non dal punto di vista figurativo, ma perché non capita spesso di trovarsi davanti immagini simili sul ciglio di una strada… Questa traiettoria dall’atelier alla strada riassume alla perfezione quel che succede quando un quadro lascia lo studio per essere esposto da qualche parte nel mondo.
[…]
John
Quando si dice “immagine” si pensa subito all’immagine pittorica. Bisogna però pensare anche all’immagine poetica, cioè alla metafora. La funzione prima di una metafora è ristabilire nessi tra cose disperse, riunire le forze o le lotte che la vita ha disgiunto. La poesia si concentra in primo luogo sulle separazioni. La pittura non è un’arte della separazione. È l’arte di mettere fianco a fianco cose che nella vita non si frequentano.
Emmanuel
(A John) In “Passi verso una piccola teoria del visibile” ti riferisci in particolare al commento che Simone Weil ha consacrato al primo versetto del “Padre nostro”: “Il nostro desiderio oltrepassa il tempo e trova dietro di esso l’eternità. Questo accade quando sappiamo trasformare in oggetto di desiderio ogni avvenimento compiuto”. Se bisogna trapassare il tempo per trovare l’eternità, se ne può concludere in maniera platonica che la verità si trovi al di là delle apparenze?
John
È quel che immaginiamo a causa di questa trafittura del tempo. Ma fare un buco nel visibile è prima di tutto una maniera di penetrarvi. La verità non si trova dietro il visibile, ma al suo interno, nel suo spessore. D’altra parte, possiamo definire la materialità dicendo che è ciò che permette di andare dal macrocosmo al microcosmo, di coprire una distanza quasi infinita. Se si pensa che la verità stia dietro il visibile, se ne deduce che essa si trova nel nulla. È l’inverso di quanto propone Simone Weil.
Emmanuel
Sempre in “Passi verso una piccola teoria del visibile” scrivi che dipingere è un’affermazione dell’esistente, “del mondo fisico nel quale l’umanità è gettata”. Ho l’impressione che questo esistente finisca sempre per assumere l’aspetto di un volto, che il pittore cerchi di captare un viso dietro qualsiasi oggetto.
Yves
È molto giusto. In generale è difficile sapere quando una tela è compiuta. Per me lo è quando comincia a guardarmi, quando comincio a avvertire la presenza di un viso che mi osserva. E hai ragione, lo si può provare davanti al volto di una persona, ma anche davanti a un fiore, una montagna o una tela di Rothko.
John
Quando ho visitato la grotta di Chauvet quel che mi ha colpito è che le rocce su cui sono raffigurati i bisonti o gli orsi paiono guardarci.
Yves
Al ritorno eri convinto anche di un’altra cosa: che l’artista di Chauvet doveva aver visto emergere quegli animali dalle rocce prima di disegnarli. Un po’ come se avesse estratto dalla roccia lo sguardo che continua a osservarci.
John
Non hai la sensazione di cercare sempre uno sguardo quando cominci un dipinto? Anche se non sai bene quale o non sei sicuro di riconoscerlo?
Yves
Sì. Ma bisogna procedere come i contadini quando una vacca sta per figliare. Certe volte, prima di tirare il vitello perché possa estrarre la testa e aprire gli occhi, è necessario infilare una mano nel ventre della madre e cercarlo al suo interno. In pittura, capita spesso di dover mettere la mano dentro per un lungo momento per sentire come si presentano le cose.
[…]
Yves
Si ha la tendenza a credere che le cose si realizzino solo quando si passa all’atto. Invece continuano a germogliare, a svilupparsi, anche quando non facciamo nulla, per esempio nelle varie fasi del sonno. Forse l’espressione “la notte porta consiglio” nasce da qui.
Capita di frequente che una tela appaia molto più chiara quando la si lascia in disparte per qualche tempo. È ancora più evidente se torniamo alla figura del poeta. La scrittura è senza dubbio l’ultima cosa che costituisce il lavoro del poeta. Egli è prima di tutto un camminatore, uno che lavora a vivere piuttosto che a maneggiare le parole. Il tutto inglobato in una poesia viene da questo camminare, da questa evoluzione. E ha camminato per camminare, non con l’obiettivo di approdare alla poesia. Molti poemi sono elegie dovute al dolore di vivere.
Quanto al viso, mi sembra che sia per la pittura quel che la voce è per la scrittura.
John
È vero. Più che il viso, però, direi che l’equivalente della voce è l’inquadratura, vale a dire la posizione che il pittore e lo spettatore occupano rispetto a quel che figura sulla tela. Per un ritratto è qualcosa di abbastanza immediato e di molto consapevole. Il pittore decide dove e come disporre il viso, a quale distanza, sotto quale angolazione… Nel caso di un dipinto più complesso, invece, non lo si decide veramente. Lo si scopre a poco a poco, dopo molto lavoro e vari cambiamenti e rinunce. Una volta risolta la questione dell’inquadratura, il quadro è per così dire finito. Così come, una volta trovata la voce, la storia è pressocché compiuta.
Questo testo è un estratto dal dialogo che è possibile trovare completo nel volume John Berger. Riga 32 a cura di Maria Nadotti
Antonia Jannone. Disegni di Architettura, Yves Berger, Caring, prendersi cura, Corso Garibaldi 125, Milano. Inaugurazione: giovedì 02 ottobre ore 19.00. In mostra dal 2 al 27 ottobre 2014.
Domenica 5 ottobre alle ore 11.00 presso il Teatro Comunale di Ferrara in occasione del Festival di Internazionale è previsto un incontro dal titolo Quel che abbiamo in comune con Teju Cole e Jon Berger moderato da Maria Nadotti.
Venerdì 10 ottobre alle ore 18.30 presso la Casa Internazionale delle Donne in via della Lungara 19 a Roma, John Berger presenta Capire una fotografia (Contratsto, 2014). Letture di Giuseppe Cederna, conduce Maria Nadotti