Torino / Paesi e città
Torino è molto cambiata in questi ultimi due-tre anni. Sguardi stranieri s’incrociano di continuo, spesso ruvidamente comunicano fra loro, in tram, nei supermercati oppure a scuola nelle ore di ricevimento con i genitori. Provate a immaginare come i nipoti dei meridionali arrivati negli anni Cinquanta cercano di spiegare agli immigrati di seconda generazione il significato di una parola come “autogestione”. Il modo migliore per osservare il mutamento è quello di sempre: “l’occhio straniero”. Gli stranieri a Torino hanno sempre gli occhi di Marcovaldo: “Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città”. Gli extracomunitari, come i meridionali respinti o derisi perché si costruivano un piccolo orto nella vasca da bagno, con il loro sguardo riescono talvolta a perforare la scorza ruvida di chi è nato qui. L’occhio di questi Marcovaldi multietnici continua a essere l’occhio della nostalgia. In altre città non accade in eguale misura.
La letteratura è piena di esempi. Un milanese trapiantato per qualche anno a Torino, Francesco Cataluccio, ritornato dopo una lunga assenza in città alla vigilia del 17 marzo ha scritto nel suo blog quello che il suo occhio poco adatto alla vita di città aveva osservato vivendo in città: “I negozi di Torino, non ho mai capito perché, mi sono sempre sembrati tristi, con una mercanzia che pare di cent’anni fa. Stavolta però le vetrine sono trionfalmente patriottiche. La prima rivendita nella quale sono incappato esibiva in mezzo a vestagliette malinconiche e pigiamini acrilici ospedalieri, una sciarpa tricolore e delle mutandine patriottiche su un body nero rinforzato. Poi sono stato attirato dalle vetrine di una delle più rinomate pizzicherie della città che è solita attrarre i golosi e gli affamati con una generosa esposizione di leccornie piemontesi. Anche qui troneggiava il tricolore: sotto forma di tre gelatine (una rossa, una bianca e una verde) che trattenevano nei vassoi uova sode ripiene”.
Difficile dargli torto. Nessun torinese avrebbe potuto denunciare in modo altrettanto chiaro lo strano patriottismo superficiale di queste ultime ore.
Il punto della città da cui è più agevole gettare l’occhio straniero è quello rifratto dalle vetrine, del centro, ma anche quello dei ponti sul fiume, come il napoleonico ponte Isabella. Qui gli sguardi stranieri si sono spesso incrociati. Volgendo le spalle alla parte del fiume che scende dalle montagne l’occhio si presta a una panoramica dall’esterno. Straniero si sentiva Pavese quando risaliva la corrente del Po passando sotto le arcate di questo ponte, Primo Levi diceva di aver sentito raccontare la storia di una sposa giunta alle nozze piroettando sul Po gelato. Sulla sponda sinistra, a poche decine di metri in linea d’aria dal ponte Isabella c’è un favoloso Museo con i teschi e gli scheletri che il grande antropologo Cesare Lombroso sistemava pure sulla sua scrivania e in mezzo agli scaffali della sua libreria. Non s’adirino i dirigenti dei musei appena inaugurati in città, ma al turista consiglierei di iniziare qualsiasi percorso in città passando prima per lo studio di Lombroso ricostruito fedelmente in una sala del Museo di via Pietro Giuria. Lombroso era straniero in quanto ebreo nato prima del 1848: veniva da Chieri ed aveva studiato a Verona.
Sul Ponte Isabella, se chiudiamo gli occhi in uno di questi giorni di primavera, ci sembra di vedere Marcovaldo che fa le sabbiature e sogna di raccogliere lungo le rive del fiume le conchiglie del mare o si distrae auscultando il libeccio. Nella nota scritta per l’ultima edizione di questo capolavoro, Domenico Scarpa ha insistito sul vento di mare che Calvino sentiva soffiare per le strade di Torino. Si confonde con il soffio del ghiacciaio che i due fratelli Terracini, Benvenuto e Alessandro, un grande filologo e un grande matematico, dicevano di sentire fischiare nella loro camera, quando si arrampicavano sugli armadi pieni di guglie della loro cameretta pensando di espugnare il Dente del Gigante.