Gli ebrei questi sconosciuti
“Per chi vive sapendo di dover morire, e vivendo vuole anche rendersi conto della vita altrui – comprese le piante e gli animali, e tutto ciò che una volta si chiamava la bellezza del creato – né Condorcet né Marx valgono molto”, scriveva così, poco prima di morire, Arnaldo Momigliano in alcuni pensieri sull’ebraismo (in Decimo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, a c. di R. Di Donato, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012, t. I) che ritornano alla mente leggendo il libro di Piero Stefani e Davide Assael, Storia culturale degli ebrei (Il Mulino, 2024), in cui ci si chiede, una pagina sì e una no, che cosa significhi essere nati ebrei e quale sia il significato, a prescindere dal fatto di essere minacciati.
Certo, il topo non dovrebbe chiedersi se ha senso essere topo eccetto che per l’esistenza dei gatti. Confondere cultura degli ebrei e antisemitismo è errore diffuso. Il principio generale che ha fatto nascere questo libro mi sembra sia proprio questo: scongiurare leggerezza e superficialità.
Nel corso degli ultimi due secoli la giustificazione a essere ebrei si è posta meno necessaria per chi in Polonia, Russia o altrove è vissuto semplicemente come ebreo. Da questa realtà alla realtà dello stato d’Israele (il libro che discutiamo si chiude con l’attualità tragica del post-7 ottobre) ci sono dei salti che l’esistenza stessa di uno stato impedisce (o, da un altro punto di vista, impone) di chiamare miracolosi –, ma tra la vita come ebreo in uno shtetl dell’Europa orientale e la vita di ebrei cittadini di uno stato ebraico la naturalezza del trapasso è evidente. Per i paesi invece che hanno conosciuto l’emancipazione, il trapasso ha assunto la forma di una conservazione delle forme tradizionali della vita ebraica o della loro sostituzione con uno stile laico di vita, moderno e perfino socialistico. In questa seconda opzione, più che nell’altra, si è finito con il perdere di vista la bellezza del creato e i doveri di chi vive sapendo di dover morire e vivendo vuole comprendere la vita altrui, piante e animali compresi, infischiandosene di Condorcet, Marx, dell’illuminismo o della massoneria laicista. Gli autori si interrogano continuamente sulle affinità e sulle differenze tra presente e passato, remoto e prossimo, rincorsi da una assillante preoccupazione: questo trapasso avvenuto nella modernità è o non è paragonabile ad altri che hanno segnato la storia della cultura ebraica: per esempio l’ellenismo o nell’età posteriore al 1492 l’esperienza del marranesimo?
Il pericolo di cadere nell’anacronismo – in operazioni simili – è sempre dietro l’angolo, ma gli autori fanno di tutto per ricordarci che nella storia degli ebrei non esiste anacronismo più felice di quello attribuito al grande studioso e fondatore dell’Università di Gerusalemme Gershom Scholem. Il quale un giorno ebbe a definire «kafkiana» l’oscurità del testo biblico. Il titolo del libro di Piero Stefani e David Assael, Storia culturale degli ebrei, non rende piena giustizia della sua complessità a strati, ma rafforza questa convinzione. Una volta tanto – si potrebbe dire con facile battuta – non perisce chi di anacronismo ferisce.
L’impressione che si ricava è in effetti quella di un intreccio labirintico, di un universo straniante come nel Processo di Kafka. I due autori cercano come meglio possono di individuare almeno qualche linea di continuità, un raggio di luce che illumini per esempio la dialettica dell’universale e del particolare, l’equilibrio instabile fra energia introiettiva e energia extra moenia, fra paura e speranza salvifica.
In poco più di trecento pagine una millenaria cultura è ripercorsa seguendo una prospettiva per molti versi antagonistica rispetto alla fatica, ugualmente improba, compiuta sui “primi duemila anni” di storia evenemenziale da Anna Foa (Gli ebrei in Italia. I primi 2000 anni, Laterza, 2022). La differenza sta nel fatto che il riepilogo fattuale, ancorché ingarbugliato e contraddittorio, per lo meno non è kafkiano quanto il riepilogo ermeneutico. Qui l’obiettivo che si sono posti i due autori è davvero ambizioso; come in ogni viaggio labirintico inevitabilmente il lettore ogni tanto si perde per via: tenere insieme genealogie sparse per l’Europa, che attraverso pensieri pensati e pensieri non pensati perché troncati dalla violenza, dalla censura e dall’arbitrio, hanno saputo dialogare con la maggioranza circostante, influenzandosi a vicenda. L’impresa spaventerebbe chiunque.
Le interconnessioni sono state, secondo gli autori, più feconde delle affermazioni identitarie: la prospettiva nel libro inclina verso un pluralismo inclusivo che lascia trasparire qualche forzatura di troppo, che non guasta certo in tempi perigliosi come i nostri. La cultura ebraica ha avuto ieri, come ha oggi, i suoi punti di rottura, le sue impuntature dogmatiche, i suoi estremismi: il non mai chiarito rapporto con il potere, per esempio, dove assai spesso una pur esistente pre-crociana “religione della libertà” riconducibile a Esodo è andata a infrangersi contro la logica del compromesso, la sottomissione alle autorità di ogni tempo, fascismo incluso naturalmente. Gli autori ci spiegano soprattutto come le relazioni virtuose abbiano prodotto frutti preziosi: dalla Bibbia all’età ellenistica, dalla qabbalah al chassidismo, dal sionismo alla dialettica diaspora-Stato d’Israele.
Tesi del libro è che la storia culturale degli ebrei si fondi su una costante dialettica di universale e particolare. Gli autori, consapevoli di quanto sia vero l’anacronismo di Scholem, ci guidano nel mondo kafkiano di una storia affascinante e lo fanno senza la sfrontatezza di chi ha una chiave per aprire tutte le porte. Scholem e Kafka davano ragione a Origene, quando sosteneva che il retaggio biblico è come una casa dalle molte stanze, le cui chiavi sono state scambiate: a noi il compito di ritrovare quelle giuste per aprire le rispettive porte e penetrare al loro interno.
A dispetto delle apparenze oscure e indecifrabili, da un punto di vista strettamente storiografico, vale a dire periodizzante, il libro ha un incipit strepitoso.
S’individua nell’assassinio di Rabin (4 novembre 1995) l’apice di un processo di polarizzazione prima latente: una frattura che in Israele è divenuta «uno status quo perenne, dove ognuno è restato chiuso nel proprio modo d’intendere l’identità ebraica, spesso concepita in antitesi rispetto ad altre maniere di declinarla». Di questa fragilità, implicita in ogni politica del rinvio (il decidere di non decidere vale anche per altre culture politiche) si è riflesso in uno stato di debolezza della società nel suo complesso (secondo me anche negli standard di autodifesa militare e di intelligence di Israele). Se ne parla assai poco in queste settimane e non è buona cosa. Il 1995 e la morte di Rabin segnano l’inizio di un declino dell’identità israeliana come l’avevamo conosciuta fino ad allora (anche della sua forza e invincibilità). Stolto non pensare che le forze che auspicano la cancellazione di Israele – non sono oggi più le stesse che nel 1982 aveva di fronte Primo Levi – non si siano accorte di questa debolezza e si siano mosse, o si stiano muovendo, per approfittarne. Siamo troppo abituati all’idea di uno stato militarmente forte e aggressivo, da aver dimenticato le cause lontane di quella fragilità che viene da lontano come spiegano Stefani e Assael. Si trova più sbrigativo inchiodare Nethanyahu alle sue colpe, che non sono né piccole né poche, ma non si tiene nel giusto conto un fattore di debolezza interna, da ricondurre all’evento-simbolo indicato dagli autori: l’assassinio di Rabin.
Ci viene infine spiegato assai bene, nella prima parte, nel quadro di un ottimismo della volontà, che nella storia ebraica fin dalle origini le forze uscite sconfitte spesso sono risultate poi vittoriose: potrebbe essere consolante ripeterlo oggi, se pensiamo alle migliaia di oppositori di Nethanyahu che scendono in piazza, anzi scendevano già prima del 7 ottobre. Questo a dimostrazione del fatto che sul piano della cultura e della storia delle idee le battaglie perdute sono sempre più importanti delle battaglie non combattute, anche se purtroppo rimaniamo prigionieri nel campo dei sogni a occhi aperti e non ancora riusciamo a proiettarci su quello dei risultati elettorali e del realismo politico. Potrei sbagliare, ma una questione fondamentale passa sotto silenzio nel libro: la poca fortuna che nella cultura ebraica ha avuto il realismo politico.