Ultimi non indispensabili Nabokov
Le opere di Nabokov pubblicate in Italia in questi ultimi anni non si possono certo dire pensate per un vasto pubblico, quanto piuttosto per studiosi specialisti o per qualche collezionista di feticci letterari. L’originale di Laura (Adelphi, 170 pp., 18€) soprattutto, che per decenni è stato una bozza custodita religiosamente nell’archivio privato della famiglia Nabokov, a distanza di più di trent’anni dalla scomparsa dell’autore è stato nel 2009 reso pubblico dal figlio Dmitri (questa è solo l’ultima di una lunghissima serie di sorprese editoriali tirate fuori da Dmitri, consuetudine questa che pochi altri illustri eredi possono vantare).
Vladimir Nabokov poco sopportava anche solo una virgola pubblicata senza il proprio consenso, figurarsi il canovaccio poco strutturato del romanzo a cui stava lavorando poco prima di morire e di cui aveva ordinato la distruzione nel caso fosse rimasto incompiuto. “Dispetto a lui, fortuna a noi!”, verrebbe da dire. Eppure lo sgarbo non è valso la candela. Questa pubblicazione postuma, che avrebbe potuto gettare nuova luce sulle tecniche di scrittura di Nabokov, non vale nemmeno tre righe della splendida raccolta d’interviste, Intransigenze, da lui stesso curata. Nabokov scriveva i suoi romanzi non su normali fogli di carta ma su schede di cartoncino di piccolo formato e L’originale di Laura, rimasto a questo stadio primordiale, così è stato preso e pubblicato: la parte superiore di ogni pagina è occupata dalla riproduzione della scheda manoscritta e la parte inferiore dalla stessa dattiloscritta. A parte un certo piacevole gusto per il feticcio che si ha sotto gli occhi (la scheda, il suo formato, la calligrafia originale dell’autore) con questo volume poco altro si aggiunge all’opera omnia del grande scrittore russo.
Queste schede numerate purtroppo non posseggono nemmeno l’ombra della compiutezza. C’è una giovane donna, un matrimonio zoppicante, un marito a casa, la noia di lui, gli amanti di lei, i ricordi di un’altra epoca; ci sono elementi tipici della scrittura nabokoviana, come il romanzo nel romanzo, qualche ninfetta che si aggira saltellando, passi ironici e giochi di parole. Nonostante tutto, una caritatevole amnistia del disobbediente erede si potrebbe tentare: in qualche rara pagina infatti si respira un’atmosfera di declino, di crepuscolo della vita della voce narrante, di una morte imminente intuita dall’autore. “Scoprii per caso l’arte di rimuovere con il pensiero il mio corpo, il mio essere, la mente stessa. Rimuovere il pensiero con il pensiero – suicidio magnifico, dissoluzione deliziosa! Dissoluzione in effetti, è un termine meravigliosamente adeguato qui perché mentre siedi rilassato su questa comoda sedia (il narratore batte alcuni colpi sui braccioli) e incominci a distruggere te stesso, la prima cosa che percepisci è una sorta di dissolvimento che sale dai piedi verso l’alto” (scheda D 0). Questa immagine di autodistruzione mentale, di suicidio apparente - perché dopo essersi annientati mentalmente si può tornare indietro, vivere ancora un po’ e allora ripetere l’operazione (per abituarsi?) e dissolversi di nuovo - questa immagine forse sì, attenua di un poco la gravità dell’ultima bischerata del figlio Dmitri (ultima per davvero, il figlio unico di Nabokov è spirato appena un anno fa, nel febbraio 2012). “Estirpare, espungere, cancellare, sopprimere, strofinare via, annientare, obliterare”, un foglietto volante a quadretti accompagna le schede e in questi sinonimi grevi forse si respirano le linee guida di un romanzo sospeso, che mai si leggerà. L’originale di Laura è insomma un volume triste, monco e di quel “capolavoro embrionale” di cui parla Dmitri Nabokov nell’Introduzione, “i cui bozzoli di genio cominciavano a trasformarsi in crisalide”, nemmeno l’ombra.
Un altro romanzo uscito recentemente in Italia (agosto 2012) è Guarda gli arlecchini! (Adelphi, 293 pp., 19€). È l’ultimo libro che l’autore ha visto stampato, uscito negli Stati Uniti nel 1974, appena tre anni prima dalla sua morte. L’ultimo lascito. Si tratta di una finta autobiografia, con luoghi e date quasi coincidenti con le tappe geografiche e temporali della vita dell’autore. Il protagonista, Vadim Vadimovič N., è nato in Russia a San Pietroburgo da una famiglia aristocratica, al momento della rivoluzione del ‘17 scappa all’estero, va a studiare a Cambridge, inizia la vita da letterato, lascia l’Europa e sbarca negli Stati Uniti; i molteplici contenuti finzionali vanno a mescolarsi con la struttura improntata su vicende personali di Nabokov. Ma c’è un’eccezione. L’ultimo viaggio di Vadim Vadimovič N. è verso il paese natale dell’autore, la Russia, luogo in cui Nabokov non volle mai tornare, provando un profondo disprezzo per il regime sovietico. Come si potrebbe interpretare un simile scarto? Se lo scheletro strutturale dell’opera verte interamente sulla “realtà” (scritta tra virgolette come Nabokov vuole) che cosa significa questa interferenza di immaginazione? È il granello di sabbia che scardina l’intero ingranaggio, o una carta che svela il trucco? La San Pietroburgo visitata in incognito dal protagonista è una città aliena. “Niente di ciò che osservavo risvegliava in me il fremito del riconoscimento; era una città poco familiare, se non del tutto estranea, che ancora indugiava in un’altra epoca: un’epoca indefinibile”. In questa pagina di pura invenzione, sogno di un viaggio mai fatto, troviamo l’emblema esperienziale della vita dell’autore: la condizione da esule, di rinnegato dalla propria terra (Nabokov, come molti aristocratici del suo tempo, fu costretto nel ‘17 a scappare dalla Russia rivoluzionaria). In questa pagina insomma non c’è nessun trucco, bensì la realtà dell’esperienza vissuta. E la conferma di una struttura salda del romanzo. È un gioco di immagini in cui Nabokov mette la finzione nel luogo del vero: la Russia che Vadim Vadimovič N. visita non esiste, è un gioco di specchi tra realtà e immaginazione, un viaggio di fantasia in uno spazio che è però reale nell’intimità dell’autore. In questo spazio sospeso tra fantasia e realtà il protagonista-autore (mai come ora i due coincidono) visita una terra che “indugia in un’epoca indefinibile”, fuori dal tempo e dallo spazio.
Per Nabokov “la realtà è una faccenda molto soggettiva. (…)È una successione infinita di passi, di gradi di percezioni, di doppi fondi”. Per Nabokov il confine tra immaginazione e memoria è estremamente labile, ed entrambe giocano un ruolo fondamentale nella costruzione delle narrazioni letterarie. Ci sono alcune pagine di Parla, ricordo (Adelphi, 364 pp., 23 €), autobiografia questa volta vera dell’autore, in cui l’equilibrio tra memoria e interpretazione del ricordo raggiunge un’eleganza letteraria assoluta. Si pensi ad esempio alla descrizione di quella tavola apparecchiata nel viale di betulle, tigli e aceri nel giardino della casa di campagna pietroburghese dove “labbra mute pronunciano con aria serena discorsi dimenticati”. Di tutt’altra fattura è purtroppo Guarda gli arlecchini!. Nella finta autobiografia lo spazio dell’immaginazione e della memoria si mescolano confusamente. Se L’originale di Laura è un libro triste e monco, Guarda gli arlecchini! è un libro brutto e noioso. Oppure è un romanzo per studiosi alla ricerca di qualche dettaglio in più o di qualche conferma critica.
Insomma, le ultime pubblicazioni di Nabokov non sono entusiasmanti; mentre si aspetta da lungo tempo il fatidico Tomo II dei Romanzi: chissà che non sia questo l’anno giusto.