Una papera tra il Partito e le Masse
I monumenti della Cina sono spesso rifatti: la manutenzione di un tempio, quasi sempre in legno, consiste secolo dopo secolo nella sostituzione della colonna marcescente con una nuova di zecca, nell’intaglio di un nuovo pannello colorato ridipinto per l’occasione, ma anche nella sostituzione di una vecchia tegola con una nuova: anche le figure animali che discendono gli spigoli dei tetti dei templi e risalgono il loro ricciolo, vengono semplicemente gettate via e scolpite ex novo. E la sensazione di postmodernità posticcia è costante, forse un po’ deludente per il visitatore che non può distinguere tra un edificio costruito di recente e uno che data secoli.
Eppure i cinesi hanno un vero e proprio culto per le proprie antichità, la gita turistica aziendale e familiare è tradizione che affonda le radici in epoche premercato, e ora, con una classe media che ha soldi da spendere, diventa il primo lusso che ci si concede.
A Pechino una meta anche delle semplici gite fuori porta domenicali è il Summer Palace, una successione di edifici storici arrampicati su una collina sovrastante il Lago Kunming che pullula di barchette elettriche o a pedali. Il manufatto più noto è uno splendido ponte in pietra a 17 archi che collega la riva del lago a un isolotto. Costruito nel settecento, è ingentilito da 544 teste di leone sostenute dai pilastri della balaustra in pietra, teste che per lo più sono ancora quelle originali.
Ora, accade che per molte settimane (fino a fine ottobre) questo arco sia stato affiancato da un manufatto di riguardevoli dimensioni, alto più del ponte: una paperella gialla che ha la forma dei giocattoli in plastica che noi mettiamo nelle vasche da bagno insieme ai nostri bambini. L’enormità della paperella è tale che il paesaggio intero del lago ne viene stravolto, ma soprattutto diviene il punto d’attrazione delle migliaia di persone che arrivano sul ponte o nei suoi dintorni: per me più della paperella era interessante osservare questa folla che fotografa, con ogni tipo di strumentazione oggi disponibile, e le barche addensate attorno al recinto che la circonda: si viene qui a fare il picnic.
Riproduzioni della paperella in peluche o in tutte le salse vengono vendute agli angoli delle strade di Pechino. La paperella è uno di quegli oggetti di culto che i bambini chiedono ai genitori: ce l’hanno tutti i loro compagni di classe.
La Cina ha una sua estetica bambina: ogni festa è illuminata di fuochi artificiali e lampade grandi e piccole, ogni luogo colorato dal neon che spesso sottolinea gli spigoli degli edifici restando acceso tutta la notte. Certe rotonde piantumate sono illuminate dai fari di rosa, di giallo, di blu, anche le piante vere non sembrano più tali, e l’esposizione di animali o bambolotti è comune, spesso simboli di vuoi questa o vuoi quella fiera o settimana del piastrellista. La premiazione al termine della finale del torneo ATP di Pechino ha visto Djokovic e Nadal fare la figura degli imbranati nel sollevare i loro trofei perché costretti a tenere contemporaneamente in mano delle grosse mascotte di peluche, che il pubblico cinese poi poteva ricomprarsi fuori dallo stadio.
Non mi stupivo dunque della paperella gigante: fotografavo i fotografi, soddisfatto di ritrovare quel gusto bambino così cinese, che oggi però si declina in una sua variante da centro commerciale: è, questa estetica, organica (in senso gramsciano, mamma mia!) al ceto medio cinese del consumo: consumo che di per sé, a me pare, è bambino. E, credo, è interessante come derivi direttamente da una estetica comunista che del kitsch faceva strumento di mobilitazione e cinghia di trasmissione tra il Partito e le Masse.
Insomma a me ‘sta paperella a sovrastare il ponte, orrenda e amatissima, pareva un’espressione compiuta di un’iconografia degli acquisti: quando qualcuno mi ha avvertito che essa era il simbolo della Beijing Fashion and Design Week – paese ospite quest’anno l’Olanda – ho pensato che il cerchio si chiudesse. Ecco, mi sono detto: a partire da qui posso raccontare qualcosa sulla Cina.
E invece la Giant Rubber Duck è una scultura famosa nel mondo, opera di un artista olandese, Florentijn Hofman, che ha girato una ventina di città in ogni continente a partire dal 2007: niente estetica bambina cinese, dunque, ma arte contemporanea globale.
Fermiamoci qua. Dissolvenza incrociata, cambio di scenario.
Beijing Fashion and Design Week, allora. Quartiere di Dashilan, appena a sud di Piazza Tian an Men. È di Liang Jinyu, architetto cinese, il progetto di preservare un vecchio quartiere di hutong, con le caratteristiche case basse di corte della Pechino di una volta, grazie alla sua rivisitazione come spazio per gli artisti, i designer. Gli atelier si rincorrono entro i cortili, mescolati alle vecchie botteghe, alle case popolari. L’intenzione è quella di riportare un po’ di economia di strada nel quartiere povero e degradato, di costruire una relazione tra artisti (anche stranieri) e popolo, di far sì che il ceto medio a spasso nella centrale Quian Men disneylandizzata, con gli edifici rifatti e le botteghe della moda e delle cianfrusaglie da turista, acquisti, se è il caso, anche nelle bottegucce delle vie laterali preservate com’erano un tempo.
Visitare le installazioni della Design Week rende una distonia evidente: noi, europei e cinesi d’elite, ci godiamo l’arte contemporanea olandese e un po’ più giovani e fresche invenzioni cinesi (o eurocinesi). Poi usciamo per le strade strette degli hutong tra gli sguardi torvi dei residenti, le cui botteghe non sono visitate dai passeggiatori domenicali della Qian Men che invece assaltano solo Gucci e Prada (comprando poco ma guardando molto). Questi residenti temono solo una cosa: l’assalto inevitabile anche alle loro case, che il regime di non proprietà o semiproprietà cinese rende a rischio di speculazione/corruzione edilizia: ci vedono come il nemico, insomma.
A me pare che l’esperimento non funzioni.
L’Asia mi stimola: perché consente riflessioni vergini, non inevitabilmente innestate su precedenti entro ai quali dovrei fare mille distinguo, mille precisazioni, una sorta di slalom tra il pregresso per offrire un mio commento libero. Un commento che riguarda le relazioni tra la crescente middle class, il popolo sottostante, e le campagne promozionali dei governi, delle cordate politiche, delle grandi firme del consumo di massa: e noi, il cosiddetto ceto medio riflessivo, gli intellettuali che ragionano di etica e estetica, di società e politica. E che, un tempo, la relazione con i ceti popolari ce l’avevano eccome. Oggi mi pare di no.
E allora.
Florentijn Hofman una relazione con middle class e popolo la sa stabilire. I designer più avanzati, intelligenti, arguti, disposti ad aprirsi agli hutong, no. Gucci e Prada, in parte: con la middle class ci vanno a nozze; con il popolo dei più poveri, degli immigrati recenti, dei lavoratori dell’edilizia e in genere dei lavoratori manuali no. Allora una riflessione blasfema: la relazione tra gli intellettuali e le avanguardie artistiche arriva a un punto morto se non sono (se non siamo) capaci di vendere qualcosa al ceto medio o a ceti popolari? Vale questo anche per la politica?
In Cina, temo di sì.
Un Post Scriptum da Singapore. A un dibattito pubblico mi chiedono cosa trovo nel corso di questa mia esplorazione dell’editoria e del mondo letterario (o in genere di produzione narrativa) asiatico. Comincio un discorso un po’ confuso sulla middle class, sul suo isolamento dal contorno (a Singapore tutto è middle class, a parte gli immigrati che pian piano si occupano di qualsiasi lavoro manuale disponibile, dall’edilizia al porto, alle poche fabbriche rimaste). Dico che tutto ciò può risultare in esistenze noiose (e cito J.G. Ballard): l’uditorio fa di sì, muove la testa in su e in giù all’unisono. Aggiungo: noi scrittori siamo middle class, e lo sono i lettori, e i recensori, e gli editori. Ancora, all’unisono, le teste si muovono in su e in giù.
In Asia lo sanno, che è un problema grosso.