Venezia capitale del XXI secolo
Atlantide provvisoriamente riemersa, Venezia è un luogo in cui acqua reale e acquaticità metaforica confluiscono in un ambiente immersivo unitario. Letteralmente sospesa sull’acqua come una palafitta, un’aorta la attraversa sinuosa e una fitta rete di canali senza nome ne irriga il corpo trasformandola in un labirinto cunicolare. Una miriade di ponti si elevano e danzano a mezz’aria e prima o poi, di campo in campo, conducono alla Piazza, dove lo sguardo si spalanca ed è accecato dal riflesso del sole sul canale di San Marco. La natura acquatica di Venezia produce un’estetica multisensoriale – visiva, sonora, olfattiva, ma anche e soprattutto corporea. Il visitatore percepisce il senso di sospensione già sul ponte rettilineo che collega la terraferma alla città, e basta un metro sulla passerella di accesso alla fermata del vaporetto per avvertire un po’ di cinetosi, per poi lasciarsi cullare dalle onde e dalle spume del traffico marittimo. Se poi c’è l’acqua alta, allora gli elementi si mescolano del tutto e trasformano anche gli esseri umani in creature acquatiche. Forse siamo pesci fuor d’acqua, ed è per questo che Venezia ci immerge, disponendoci a percepire interiormente il suo equilibro precario, ci rapisce nello spazio invadente e includente degli elementi, ci avvolge nella sostanza trasparente del suo medium liquido.
A Venezia si è immersi naturalmente, prim’ancora che attraverso la mediazione di un’infrastruttura, una tecnologia, un linguaggio. Ogni immersione mediatica a Venezia è concentrica all’immersione primigenia che la contraddistingue. Forse è per questo che uno dei primi movimenti della macchina da presa cinematografica venne realizzato da Promio, operatore dei fratelli Lumière, da una barca in movimento sul Canal Grande. Il turista non lo sa, ma ogni volta che s’imbarca su un vaporetto o su una gondola, rivive la formidabile invenzione del moto immobile del cinema. Nel ruolo decisivo di Venezia e della Laguna nel rapporto tra movimento dell’immagine e moto corporeo, immersione fisica e immersività mediale, ambientalizzazione delle immagini e immaginazione degli ambienti, si è parlato in un recente convegno organizzato dall’Università IUAV Venezia sul tema “Media/Laguna. Cinema, immagini, ambienti”, animato dai contributi di studiosi e studiose di media e cultura visuale impegnati nell’ambito delle cosiddette environmental humanities. A guidare la riflessione Richard Grusin, professore emerito di nuovi media alla Università del Wisconsin e autore di testi fondamentali come Remediation (1999), Premediation (2010) e Radical mediation (2015). Con “mediazione radicale” Grusin intende il processo di regolazione affettiva individuale e collettiva operata dai media a livello materiale e corporeo prim’ancora che a livello simbolico e contenutistico; un processo concretizzato dalla mutua specificazione e interazione fra organismi e ambiente, fra enti umani e non umani. Questa radicalità può assumere la forma di un “intreccio arboreo” (arboreal entanglement), ovvero di una rete ramificata ma sotterranea di relazioni e interazioni. Le stesse fondamenta di Venezia non sono altro che una foresta rovesciata – al contempo materia e idea dell’intima connessione e coevoluzione di apparati tecnici e naturali, anche a livello botanico e micorrizico. Oggi si parla di Antropocene e di intelligenza artificiale, ma gli studiosi ci dicono che dovremmo piuttosto chiamare l’era in cui viviamo Mediacene e dovremmo interessarci all’intelligenza naturale.
Forse Walter Benjamin a Venezia non s’è affezionato come fece con Parigi, ma l’ha certamente sottovalutata. Venezia è la capitale del XXI secolo perché è la città dell’immersione radicale. Se ne può avere prova concreta entrando nelle realtà virtuali della sezione Venice Immersive che ormai da alcuni anni è innestata nella Mostra Internazionale del Cinema e che testimonia l’attualità dell’idea e del desiderio di immersione come avvolgimento sensoriale e rapimento mentale in un mondo alternativo a quello reale, in una forma persino più concreta di quella offerta dal cinema. Ma in questo periodo può bastare anche un tuffo alla 60° Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, dove la proposta di alcuni paesi sembra offrire interessanti esperienze immersive. Scelgo tre padiglioni: Germania, Gran Bretagna, Italia, significativamente tre paesi occidentali in un anno in cui il tema generale è “Stranieri ovunque”.
La Germania mette a tema le soglie e i confini (Thresholds) in un’epoca di incertezze, catastrofi e precarietà umana, invitando il visitatore a esplorare una serie di ambienti immersivi separati ma tematicamente connessi. L’installazione centrale, intitolata Monument eines unbekannten Meschen, è una struttura a tre piani collegati da una scala, che ricostruisce la vicenda personale e la dimensione sociale della vita di Hasan Aygün, nonno dell’artista e autore dell’installazione Ersan Mondtag. Trasferitosi da Ankara a Berlino Ovest a metà anni Sessanta per sfuggire alla povertà, Aygün lavorerà per trent’anni in un’azienda edile e poco dopo il pensionamento morirà per una malattia provocata dall’amianto. Il piano centrale dell’installazione consiste nella ricostruzione in scala 1:1 delle stanze di un appartamento i cui mobili e gli oggetti sono completamente ricoperti da una coltre polverosa che rimanda alle fibre tossiche dell’amianto. Anche l’aria, attraversata dal pulviscolo, è difficilmente respirabile. Il livello di dettaglio della ricostruzione e la possibilità di muoversi liberamente negli ambienti rende l’esperienza estremamente vivida e drammatica, percepita dal visitatore come presente e non come un’esposizione museale differita. Paradossalmente, per la loro dimensione, disposizione e costruzione scenografica degli ambienti, la visita offre un’esperienza percettiva in tutto e per tutto simile a quella vissuta indossando un visore per la realtà virtuale. Da dietro le tende del soggiorno si intravede, su uno schermo, una gigantesca e futuristica nave spaziale… È la stessa navicella fluttuante nella sala successiva del padiglione. Ideata da Yael Bartana e ispirata alla cabala ebraica, Light to the Nations salverà l’umanità dalla distruzione del pianeta per sua stessa mano. Al di là della sovrapposizione tra dottrina mistica e tecnologia futuristica, la sospensione della nave nel buio, attraversato da fasci di luce, compensa la discrepanza nel rapporto di scala tra osservatore e oggetto. L’interno della nave può essere osservato sdraiati sotto uno schermo a forma di cupola collocato in un terzo ambiente: qui a rendere immersiva l’esperienza contribuiscono la dimensione e la forma avvolgente dell’immagine (realizzata in realtà virtuale) e la particolare posizione dello spettatore.
I temi della memoria collettiva, della migrazione e della crisi ambientale pervadono anche il padiglione della Gran Bretagna. Listening All Night To The Rain, un’istallazione di John Akomfrah costituita da otto opere multischermo, declina la riflessione sulla diaspora, sul post-colonialismo e sul cambiamento climatico insistendo sulle caratteristiche e sugli effetti percettivi – visivi e auditivi – dell’acqua. Ispirata ai Cantos di Ezra Pound, i diversi ambienti sono come le strofe di un'unica narrazione, in cui il motivo ricorrente dell’acqua contribuisce a far riflettere, soprattutto attraverso la percezione acustica, sulle migrazioni forzate, sul colonialismo climatico e sulle sue ripercussioni sull’ambiente. Come dichiara l’artista, l’opera è un “omaggio a tutti gli emarginati della tradizione dell’imperialismo”.
La centralità della percezione sonora come forma di riflessione sull’identità e sull’alterità è al centro del concept che Massimo Bartolini propone per il Padiglione Italia. Il titolo Due qui / To Hear gioca linguisticamente e foneticamente con la necessità di porsi in ascolto di sé stessi come prima forma di relazione con l’altro. Le tre ambientazioni sonore sono imponenti – immensi spazi semivuoti riempiti dal suono. Nella prima sala una lunghissima canna d’organo quadrangolare distesa per terra produce un profondo e continuo rombo. Poggiato a un capo della colonna, un Bodhisattva pensoso richiama la tradizione buddhista dell’individuo che pur avendo raggiunto l'illuminazione rinuncia al nirvana e per compassione decide di continuare a reincarnarsi per poter aiutare gli altri a raggiungerlo. Nella seconda, una fitta struttura di tubi Innocenti costituisce un immenso organo e offre un’architettura sonora cangiante in base alla posizione e al movimento del visitatore. Esattamente al centro di questo ideale giardino è posta una Conveyance bartoliniana, una fontana circolare che funge da luogo di incontro, ma che è anche il punto d’ascolto in cui le due melodie, composte da Caterina Barbieri e Kali Malone e riprodotte da altrettanti giganteschi carillon, convergono stereofonicamente. L’acqua della fontana oscilla incessantemente producendo un’ipnotica onda conica che si aggiunge all’esperienza esplorativa e contemplativa. La sospensione del tempo e l’immersione mentale grazie alla saturazione sonora dell’ambiente raggiunge il suo apice all’esterno, nel Giardino delle Vergini antistante il padiglione, dove sembrano le fronde degli alberi a riprodurre la composizione musicale di Gavin e Yuri Bryars, ispirata alla poesia Certe volte non riesco più a muovermi di Roberto Juarroz: ancorato al suolo dalle proprie radici come un albero, l’uomo al contempo genera tutte le cose e ne è generato.
Alberi e radici, per una ricongiunzione alla nostra stessa natura umana e una riflessione sul nostro essere stranieri ovunque: rieccoci alla “mediazione arborea” e alla “mediazione radicale” di Grusin, attraverso forme di avvolgimento mediale liquido – visivo e sonoro – attraverso cui scopriamo il nostro essere, come Venezia, costitutivamente immersivi.
Testi di riferimento
- Walter Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986.
- Adriano D’Aloia, Jacopo Rasmi (a cura di), Mediacene, «Elephant & Castle. Laboratorio dell’immaginario», n. 28, 2022.
- Richard Grusin, Radical mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali, a cura di Angela Maiello, Pellegrini, Cosenza 2017.
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In copertina, John Akomfrah, 'Canto VII', Listening All Night To The Rain.