Visioni digitali
Visioni digitali di Simone Arcagni (Einaudi) inizia con un adescamento. Il lettore, come un Neo qualunque, viene messo di fronte a una specie di viaggio iniziatico, dal suo Morpheus puntualmente chiamato ad “addentrarsi in un territorio assai impervio”. Al contrario che su Matrix qui, però, nessuno stacca la spina del megasoftwerone generatore di realtà, con l’aria di chi vuole annunciare al mondo il prossimo deserto del reale. L’autore del libro si diverte, piuttosto, a condurre il suo lettore a spasso nella sua vita stessa quotidiana. Succede così, che, passeggiando, un dettaglio, una situazione, il contesto tanto familiare, possano perfino rivelare la loro relatività. La matrice delle visioni digitali, sebbene sotto forma di cantiere, per Arcagni è infatti già con noi. Il film che tutti abbiamo visto al cinema (Avatar), il più che familiare Youtube, perfino una partita di calcio goduta, una volta tanto, allo stadio con i propri figli, sono in nuce già il nuovo. E, allora, si capisce quanto il problema stia proprio nello sguardo, nell’inadeguatezza di chi continua a osservare (verbo che, in un libro che si chiama Visioni Digitali, non può che essere sinonimo di vivere) il mondo come se, con l’avvento dei media digitali, nulla fosse cambiato. E ciò è vero sia per l’uomo della strada che continua a pensarsi come spettatore della stessa partita di calcio nonostante gli stadi si siano nel frattempo trasformati in gigantesche macchine intermediali, ma soprattutto per lo studioso dei media, che insiste a distinguere strumenti, generi e codici specifici, indossando, imperterrito, lo stesso dolcevita e gli stessi occhiali d’osso da cinéphile.
Non sia mai che possa essere sfiorato dal dubbio di inseguire Truffaut, Rohmer o Godard nel flusso che la rete incessantemente costruisce dopo il cinema ma a partire da esso, mutuando dalla sua storia, scenari e immaginari, tecniche e linguaggi, luoghi e personaggi. E, infatti, il modo in cui questi riferimenti vengono trattati, montati e rimontati, non è affatto neutro. Ma di ciò pochi sembrano davvero volersi occupare.
Sarebbe facile opporre a una rappresentazione di questo genere quanto il fantasma dello studioso dei media, che non conosce Jenkins o Manovich, che non si appassiona ai remix e ai meme che la rete quotidianamente sforna, che non vuole saperne di google glass e realtà virtuale, che spregiativamente chiamerebbe lo stesso brulicante lavorio a cui di regola Internet sottopone i testi che chiama paratesto, sia animale in via di estinzione nell’accademia come nella vita, se non fosse lampante quanto esso, come ogni fantoccio che si rispetti, serva retoricamente: è uno strawman funzionale all’effetto di far brillare il brave new world a poco a poco tracciato dall’autore.
Ciò che conta è, insomma, che Visioni digitali, di questo new world provi, una volta tanto, a tracciare i contorni, facendo il punto di una situazione scivolosa, in progress, ibrida per statuto. Una tale sintesi è, infatti, utile per tutti, anche come presa di posizione da discutere nel merito ed eventualmente contestare, dibattere e criticare. Ricostruire il magma che i media digitali stanno portando avanti in giro per il mondo è, infatti, un’impresa titanica perché obbliga chi vuole farlo a seguire le evoluzioni dell’audiovisivo a trecentosessanta gradi, dalle tecnologie mediche ai video tutorial, dai meme alla realtà aumentata, dalla videoarte fino ai percorsi esperienziali di certi eventi pop, puntando dritto al cervello, che, nella posizione epistemologica del libro, si rivela essere il primo dispositivo cinematografico che le tecnologie digitali vogliono colonizzare e innestare, promettendo una vera e propria nuova forma umana ibridata con la macchina.
Simone Arcagni, nella sua attività di giornalista e di studioso, si misura con questa impresa, aprendoci le porte dei più avanzati laboratori del mondo, facendoci toccare con mano le piccole conquiste (un computer che riesce nell’ardua impresa di riconoscere un cane) che preludono al salto di qualità (riconoscere qualsiasi cosa), entrando nel merito di studi e ricerche, tecnologie e artefatti disseminati in ogni dove. Sintesi preziosa, quindi, perfino per lo studioso con gli occhiali d’osso che voglia ribellarsi alla sua caricatura e, ovviamente, per chiunque voglia orientarsi in questo sommo casino. E, d’altra parte, sintesi unica, perché non c’è un libro in circolazione, che davvero si occupi di mappare pratiche così eterogenee, seppur tenute insieme da un fil rouge che progressivamente l’autore dipana. La mappa, lo dichiara lo stesso Arcagni, è quello che mancava per iniziare a studiare in profondità e in maniera non ingenua o troppo influenzata da modelli precedenti, il mondo di quella che Luciano Floridi definisce come quarta rivoluzione, portata avanti dalle tecnologie di informazione e comunicazione e caratterizzata dall’ubiquità computazionale. È la consapevolezza di questo scarto che costituisce la preziosità del libro di Arcagni. Se il mondo della pubblicistica sui nuovi media è, in fondo, pieno di libri-elenco che, rincorrendo l’ultima diavoleria tecnologica si ritrovano a costituire mere catalogazioni, Visioni digitali sceglie di essere un saggio densamente teorico, non sottraendosi alla responsabilità di interpretare i termini del cambiamento che questi nuovi connotati stanno progressivamente apportando alla cultura e al modo in cui ce la rappresentiamo. E assolve a questo compito con la dovuta radicalità.
Simone Arcagni.
Per esempio, propone di archiviare la nozione stessa di medium, come fardello che crea più problemi di quanti non ne riesca a risolvere. Convocando i lavori di Manovich o Rosalind Krauss sul tema, Arcagni nota, così, come le nozioni di metamedium, media ibridi, postmedia non siano altro che tentativi di definire attraverso nozioni ereditate ma eminentemente inadeguate le nuove forme di relazione veicolate dai media digitali. Non esiste, infatti, più uno specifico tecnologico che le pratiche di softwarizzazione non possano incorporare, riscrivere, rielaborare, remixare, rimettere in circolo nell’agone comunicativo. Perfino lo schermo, croce e delizia delle dinamiche di relazione uomo-macchina, appare destinato a essere sostituito dall’innesto delle tecnologie direttamente nel fisico, aumentando (o, negli scenari più apocalittici, sostituendo) la sensorialità corporea. E, allora, servono le forzature: meta, iper, post sono affissi che tentano di posizionare questa costellazione di esperimenti in attesa che una terminologia adeguata possa davvero affermarsi.
Ma, a dire il vero, sembra suggerire fra le righe Arcagni, non è nemmeno necessario che questa terminologia arrivi, tanto forte e pervasiva è la differenza che queste forme mediali portano con sé. Ma in cosa consiste davvero la differenza fondamentale di cui le visioni digitali sono portatrici? Arcagni, sintetizzando un dibattito teorico globale disperso in mille rivoli e innumerevoli derivazioni, prova a elencare alcune caratteristiche originali dell’universo mediatico digitale: non linearità, interattività, partecipazione, condivisione e immersività, sottolineando provocatoriamente quanto ognuna di queste caratteristiche risulti colpevolmente sottovalutata nelle analisi da media accademia di sedicenti esperti del settore, che vogliono ricondurre a una forzata continuità ciò che continuo non è e non può essere. Un esempio su tutti: i film possono essere guardati in streaming su Internet che, in questo caso, riprodurrebbe un contesto mediale conosciuto, quello dello spettatore passivo del cinema o della televisione. Solo che, prima di assumere il ruolo di spettatore, il soggetto sulla rete deve loggarsi, deve costituirsi come utente, condizione che è uno specifico esistenziale e una caratteristica dell’interazione attraverso i media digitali.
Trasformandosi in utente, allora, ci si immerge in una dimensione identitaria specifica che prevede dinamiche di potere ancora specifiche, virtualità di senso e opzioni che stanno a monte di ogni comportamento: una volta loggato, posso guardare il film, controllare nomi e riferimenti su wikipedia, ritornare su scene particolarmente significative, estrarle dal flusso e crearne gif animate, posso interrompere la visione per continuare in un altro momento, farmi un selfie in una delle location del film (c’è una app apposita che permette di farlo localizzandole sulla mappa della città di New York), discutere le mie opinioni su un forum e così via. È l’esperienza di diventare utente lo specifico dei media digitali, la virtualità, il ventaglio di possibilità identitarie che permette, al limite, di costituirsi anche come passivo spettatore, una volta tanto, però, scegliendo volontariamente di esserlo e non essendovi costretto dal dispositivo mediatico. Un assetto di questo tipo genera posizioni identitarie e narrazioni peculiari che vengono predilette e reclamate come specifiche della rete. Prendiamo il complottismo. Se è vero che la rete trabocca di siti cospirazionisti e che proprio i complotti vengono dai più esibiti e stigmatizzati come il segno più evidente della stupidità di Internet, Arcagni mostra come basti considerare una qualsiasi di queste narrazioni con la curiosità dell’analista per ritrovarci un modello peculiare e perfetto della società digitale. I complotti dell’era di internet, drammatizzano le questioni emergenti e i conflitti nascenti della società digitale: convergenza fra produttori di tecnologie e creatori di contenuti, dispositivi di controllo globale, patti scellerati fra attori economici e tecnocrati, strategie di dominio e tattiche di resistenza sono tutte questioni poste all’ordine del giorno dal nuovo assetto tecnologico, che trovano forma e compimento nelle narrazioni apocalittiche dei complottisti. Ma a ben vedere, questo tipo di narrazioni sono interessanti anche dal punto di vista enunciativo, per come vengono costruite e distribuite: a partire da una ipotesi ritenuta – non importa quanto sensatamente – verosimile, si costituisce una comunità che agisce distribuendo al proprio interno responsabilità e competenze, costruendo intorno a sé una memoria, un archivio aperto e consultabile. Connessione, organizzazione e memoria rappresentano la “stanza” complottista come macchina semiotica, costitutivamente intelligente, modello di cooperazione virtuale. Proprio la fallacia e la perfettibilità degli argomenti discussi è il presupposto in grado di attivare la macchina della discussione, la ricerca sui fatti, l’approfondimento delle questioni, fino alla prossima confutazione. Notevole.
La dimensione sistemica dell’avvento del digitale, così disegnata, si costituisce allora come narrazione forte, grande narrazione, che non a caso, postula se stessa come fine della storia. Ci attenderebbe così un’umanità aumentata dalle macchine, ibrida, in grado di comunicare nel pensiero, illuminata da un misticismo consapevole in grado di sanare il millenario conflitto fra fede e ragione. La rete di connessioni che ci unisce, somiglia sempre più, infatti, a un corpo unico, pensa come un solo cervello, ci costruisce come parti di un organismo totale che Arcagni, confortato dalle riflessioni di Capra, nota somigliare a una buddhità finalmente realizzata, grazie alla penetrazione empirica del reale. Ma perché questo orizzonte possa realizzarsi, purtroppo o per fortuna, abbiamo ancora tempo.