Il romanzo del due volte premio Pulitzer / Whitehead. Quando arriva l’estate a Harlem
Atto primo. Esterni-Giorno. Panoramica. Colson Whitehead, voce fuori campo: “Quel primo caldo dell’anno era una prova generale dell’estate in arrivo. All’angolo due poliziotti bianchi rimettevano il coperchio all’idrante, imprecando. Da giorni i bambini correvano dentro e fuori dagli spruzzi. I gradini davanti agli ingressi brulicavano di uomini in canottiera che bevevano birra: qualunque cosa pur di rimandare il rientro nelle stanze soffocanti con i lavandini rotti, la carta moschicida incrostata. Al Chock Full o’Nuts, Sandra faceva la ronda con la caraffa del caffé. Da giovane danzava nei migliori varietà, al Club Baron e al Savoy, prima ballerina all’Apollo. Era una che sapeva come comportarsi con le attenzioni impetuose dei clienti. Dopo tutto fare la ballerina all’Apollo era un corso sull’animale maschio. Una volta il commerciante di mobili Ray Carney le aveva chiesto perché avesse smesso di ballare. “Tesoro” gli aveva risposto “quando Dio ti dice che è ora di smettere tu lo ascolti”. Era scesa dai tacchi e aveva infilato un grembiule da cameriera ma non era riuscita ad andarsene dalla 125esima strada: dalla vetrina si vedeva l’Apollo. Carney aveva un’inclinazione un tantino disonesta, come poteva non averla essendo cresciuto con un padre come il suo, ma non era certo un delinquente. Qualche gioiello qua e là, gli elettrodomestici che il cugino Freddie e qualche altro personaggio locale gli portavano in negozio, quello poteva giustificarlo. Trasformare in merce legale quella roba acquistata illecitamente gli faceva provare una scarica nel sangue. Sì, insomma non era disonesto, semplicemente sapeva come andavano le cose”.
Il sipario sul romanzo del due volte premio Pulitzer Colson Whitehead (Il ritmo di Harlem, Mondadori, traduzione di Silvia Pareschi) si spalanca su una New York, anno 1959, dal sapore di bianco e nero alla Gordon Willis. È una delle tipiche giornate frenetiche di Ray Carney che, sul pick-up ereditato dal padre, sfreccia da un capo all’altro della città.
Whitehead zooma col racconto sul reticolo di strade di Lower Manhattan e su Carney che, attraversata la città da nord a sud, sceso da Harlem a Radio Row, il quartiere dell’elettronica, lotta con il traffico e con le maledette rotaie della West Side Highway che, come scrive il Tribune di quella mattina, prima o poi, dovranno demolire.
Voce fuori campo: “Nei giorni migliori il quartiere era un’unica fila di macchine, un continuo stridìo di clacson e imprecazioni, e nei giorni di pioggia le buche diventano infide lagune, l’intera strada un orrido pantano”.
Radio Row, il paradiso degli aggiustatutto
Radio Row era stata il crocevia dell’industria elettronica a New York fin dagli anni venti del Novecento. Aveva affiancato la nascita delle trasmissioni via etere e dell’informazione radiofonica. Se passeggiavi per Cortland Street e vie adiacenti eri inondato da musica jazz, sinfonica, operistica, rag time. Sui marciapiedi erano parcheggiate file di enormi contenitori pieni di valvole termoioniche, trasformatori audio, condensatori e quant’altro poteva servire ad aggiustare una radio di qualsiasi marca e modello: un’esca irresistibile per gli aggiustatutto dell’intera area metropolitana.
Radio Row si stava però avviando verso un traumatico periodo di transizione che qualche anno più tardi la vedrà sparire del tutto. Il presidente della Chase Manhattan Bank, David Rockefeller, aveva presentato alle autorità un progetto per radere al suolo l’enclave e costruirvi un centro per il commercio mondiale, un quartier generale per la finanza e gli affari. La battaglia legale scatenatasi fra i piccoli negozianti e il gigante Rockefeller – appoggiato dal fratello Nelson, governatore di New York, e da quello del New Jersey – durò anni e sarà destinata a schiantarsi contro le ruspe che il 26 marzo 1966 cominciarono la demolizione sistematica della zona e l’inizio della costruzione delle tristemente famose torri gemelle del World Trade Center. Trecentoventicinque attività commericali affacciate sulla strada, e più di mille in uffici sparsi nei palazzi della zona, che davano lavoro a trentamila persone, con un indotto che ne coinvolgeva almeno centoventimila, andarono in fumo.
Ed era lì, a Cortland Street, nel cuore della strada delle radio, che Carney stava portando degli apparecchi al negozio del vecchio Aronowitz, uno dei rari bianchi che lo chiamavano “signore”. Per tutti gli altri, a Radio Row, era un fantasma nero. Per Aronowitz, invece, era il “signor Carney”. Lui, forse, avrebbe potuto vendergli le radio: erano state le migliori in commercio fino a qualche anno prima, ma ora sembrava che nessuno le volesse più. La clientela si era trasformata e la merce cambiava. Ray contava anche di fare qualche soldo con un avveniristico televisore Philco 4242 che aveva portato a riparare: per quello, un articolo dal design avveniristico, avrebbe, sicuramente, trovato un acquirente. Glielo aveva portato al negozio di mobili il cugino Freddie. Come sempre non gli aveva chiesto dove l’avesse preso. Lo stesso aveva fatto Aronowitz con il tizio che il giorno prima gli aveva lasciato quei quattro televisori Silverstone che stavano accatastati vicino alla porta del bagno, ancora nella scatola originale. «Mi ha detto che sono caduti da un furgone», «Le scatole sembrano intatte», «Non saranno caduti da tanto in alto».
Una conversazione di sublime ironia che fa il paio con il dialogo, in Casablanca, fra Claude Rains e Humphrey Bogart: «E cosa vi ha spinto fin quaggiù a Casablanca?», «Ci sono venuto per fare la cura delle acque», «Le acque? A Casablanca? Ma qui è il deserto!», «Be’, fui male informato», è la flemmatica risposta di Bogart.
L’Hotel Theresa, il “Waldorf di Harlem”
Dissolvenza. Harlem. 125esima Strada. Il negozio di Carney era un mortorio nonostante la presenza di Rusty, il commesso, che, pur mancando di talento come venditore, aveva un buon rapporto con i clienti grazie alla sua acconciatura dai capelli stirati, rossi e folti che attiravano l’attenzione e contribuivano a incrementare gli ordini. Meglio fare un salto al Nightbirds.
Voce fuori campo: “Al Nightbirds l’atmosfera era sempre quella dei cinque minuti dopo una grossa lite e nessuno ti diceva cos’era successo. Nei suoi giorni migliori il locale era stato un magazzino per commerci ambigui. Era diventato meno malfamato con il cambio di gestione, bisognava ammetterlo. Alcuni habitué lo avevano mollato per l’altro bar un po’ più avanti, invece Freddie aveva subito legato con Bert, il nuovo proprietario”.
Il cugino Freddie mancava totalmente di buonsenso. Continuava a parlare a Ray di Miami Joe, quello che andava in giro per Harlem con il completo viola e l’immancabile cappello, a capo di una banda di criminali con la pistola, gente che difficilmente avrebbe compiuto furti di classe sull’Orient Express. Era gente, quella, che a Natale aveva rubato un camion pieno di aspirapolveri nel Queens. E adesso avevano in mente un colpo grosso, contanti e gioielli da smaltire, e si erano rivolti a lui: avevano bisogno di un intermediario. Del tipo? «Tipo un ricettatore». «Freddie, qui non si tratta di rubare le caramelle». «Non sono caramelle. È l’Hotel Theresa».
Dissolvenza. Fu così che Ray fu coinvolto nella grande rapina.
«Rubare all’Hotel Theresa era come pisciare sulla Statua della Libertà»
Una parentesi di cronaca. L’Hotel Theresa, come Radio Row e molti altri luoghi comprimari sparsi tra le pagine del romanzo, fa parte del casting che Colson Withehead usa come fondale storico alle dinamiche, altrettanto storiche, di una comunità che vive entro confini invisibili, invalicabili. Vite che si consumano nel giro di pochi claustrofobici isolati.
Nel mondo reale, l’Hotel Theresa era il quartier generale del mondo nero e «rubare all’Hotel Theresa era come pisciare sulla Statua della Libertà». L’albergo, conosciuto come il “Waldorf di Harlem”, aveva fatto da sfondo ad alcune scene del film Topaz di Alfred Hitchcock, oltre ad aver ospitato una clientela musical-sportiva che oscillava da Josephine Baker a Louis Armstrong, da Duke Ellington a Joe Louis, da Little Richard a Sugar Ray Robinson – neri ai quali, negli anni di sfacciata, aperta segregazione, era vietato soggiornare negli alberghi dei bianchi.
L’hotel era salito agli onori delle cronache nel settembre del 1960 quando, in occasione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, la delegazione cubana guidata da Fidel Castro era sbarcata a New York. L’anno precedente i suoi barbudos avevano sconfitto l’esercito di Fulgencio Batista e mandato a casa uno dei più corrotti regimi caraibici. Molti cortigiani si erano rifugiati in Florida, graditi ospiti del governo americano.
L’ambasciatore cubano alle Nazioni Unite, Manuel Bisbé Alberni, aveva suggerito alla delegazione di soggiornare all’Hotel Shelburne, sulla Lexington, a pochi isolati dagli uffici della missione cubana. Ma visto che la presenza di quei comunisti con le barbe incolte non era gradita all’amministrazione Eisenhower, anche la direzione dell’Hotel si adeguò chiedendo a quei senza dio non solo di pagare in contanti e in anticipo, ma anche di lasciare una cospicua caparra a mo’ di assicurazione per eventuali danni alle camere, o tentativi di dileguarsi senza versare il dovuto. Apriti cielo. Castro, offeso, minacciò di ordinare al fidato capitano Antonio Núñez Jiménez, un intellettuale raffinato, antropologo, geografo e speleologo, compagno di guerriglia di Che Guevara, di andare a comprare delle tende da campo e piantarle al Central Park, o meglio nel giardino delle rose delle Nazioni Unite: non avevano certo paura di dormire all’aperto, si erano allenati combattendo sulla Sierra Maestra.
Ironia, a togliere tutti dall’imbarazzo fu un nemico giurato del governo americano, quel Malcom X, leader religioso, attivista per i diritti umani, la cui fedina penale includeva una considerevole varietà di attività illegali. Suggerì a Castro di trasferirsi a Harlem, all’Hotel Theresa, fra quei neri e portoricani che subivano ogni giorno la stessa discriminazione. Ottima idea propagandistica, disse Castro.
All’albergo furono più che contenti di affittare, in un colpo solo, 80 camere per un forfait di 800 dollari al giorno. Così, da quel momento, il Theresa finì sulle prime pagine dei giornali e cinegiornali di tutto il mondo, un porto di mare dove, a rendere omaggio a Castro si presentarono, a ruota, il segretario generale del Pcus Nikita Kruscev, il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru, ma anche il poeta Allen Ginsberg e molti altri critici della politica di segregazione razziale che, in teoria, era ancora in vigore solo negli irriducibili stati del sud, non certo nella civile New York.
Tutto questo mentre, davanti all’albergo, stazionava un circo di giornalisti, attivisti, curiosi, passanti ignari, un’esagerazione di forze di polizia, detective, unità speciali, reparti a cavallo.
Un clima del tutto diverso si respirerà il mese successivo, il 12 ottobre, quando, sempre all’Hotel Theresa, si presenterà il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti, John F. Kennedy, per uno dei suoi ultimi comizi elettorali in cui ironizzerà sul “dramma” che aveva portato Fidel Castro e Nikita Kruscev a Harlem. Whitehead citerà indirettamente il neo eletto presidente (nel capitolo “1961”) facendo parlare il deputato di colore Adam Clayton Powell jr. (pastore della chiesa battista, attivista per i diritti civili che era stato presente sul palco con JFK) che si rivolge al suo elettorato di commercianti: «Oggi è un nuovo giorno per Harlem. Il presidente Kennedy a Washington promette una Nuova Frontiera, e allora perché non possiamo avere anche noi la nostra Nuova Frontiera, nelle nostre case, nelle nostre strade, una frontiera che il mondo non ha mai visto?».
Niente di nuovo sul fronte di Harlem
Sipario. Tutte le vicende del romanzo si dipanano nel corso di tre atti, sullo sfondo di avvenimenti che vanno dal 1959 al 1964, in conseguenza della rapina al Theresa. Un colpo che Whitehead descrive minuziosamente, minuto per minuto, per pagine e pagine, con una tecnica quasi cinematografica ispirata, confessa lo stesso autore, proprio da un classico del grande schermo: quella Rapina a mano armata di Stanley Kubrick, co-sceneggiata dal principe della narrativa noir, Jim Thomson.
Ma rapine in alberghi non sono proprio un tema all’ordine del giorno nella narrativa di genere. È vero, dice Whitehead, e per questo si è ben documentato riandando alle cronache di un celebre furto che nella notte del 2 gennaio 1972, aveva visto protagonista l’Hotel Pierre di New York, un’icona cittadina corteggiata da Coco Chanel; abitata da Audrey Hepburn durante le riprese di Colazione da Tiffany; infiltrata da Michele Sindona per pianificare, assieme a improbabili compagni di merende, folkloristici colpi di stato in Italia; bazzicata, al bar, da gentiluomini della famiglia Gambino.
Così, come nella rapina al Pierre, gli scassinatori letterari del Theresa tengono sotto la minaccia delle armi i membri del personale e svuotano, con metodica attenzione, le cassette di sicurezza, senza che nessuno si faccia male. Solo uno spaventato cittadino brasiliano, rappresentante di vasellame artigianale, giura che non avrebbe mai più messo piede in quella città: ’fanculo tutti quanti. Certo la refurtiva non è quella del Pierre, ma tant’è, a Harlem ci si accontenta.
Nella puntigliosità documentaristica di Whitehead è facile leggere un’allegoria dei nostri tempi senza, però, che lo scrittore ceda mai alla tentazione del sermone. Alla domanda di un giornalista risponde: «Io voglio solo raccontare storie ambientate in determinate epoche. Faccio ricerche costanti. Prendo appunti. Leggo autori a tema e vecchie guide di New York. E poi giornali d’epoca. Scrivo romanzi ambientati nel passato perché non ho niente di interessante da dire sul presente. Anche se, quando scrivo, so di parlare dell’oggi: ma è incidentale».
Come il riferimento a una delle tante rivolte che squassò Harlem nel 1964 dopo che la polizia aveva ucciso un quindicenne nero. Whitehead non ne scrive direttamente, si limita a raccontare le conseguenze del razzismo istituzionale, della brutalità della polizia, della corruzione dilagante, delle bustarelle che mandano avanti le città e gli affari. Affari che, a Harlem, ad andare sempre bene, come dice un personaggio del romanzo, sono solo quelli delle pompe funebri.