Four Books / Wolfgang Tillmans: oltre l'underground
Dà un certo sollievo non riuscire a catalogare il lavoro di Wolfgang Tillmans. Alla prima occhiata di Wolfgang Tillmans Four Books, volume monografico edito da Taschen e dedicato ai trent’anni della sua attività artistica, ci si ritrova confusi dalla miriade di immagini di diverso tipo, dalla Street photography alle elaborazioni formali dei Paper Drops fino alle creazioni più strettamente astratte. E poi ancora: celebrità, nature morte, paesaggi, immagini astronomiche, oggetti, ritratti intimi, collages, addirittura neo immagini ibride prodotte dalla sovrapposizione di una fotografia sopra l’altra. Apparentemente manca un’univoca chiave di lettura se non il fatto in sé di essere immagine, evento inedito in un’epoca in cui la maggior parte delle fotografie in circolazione nasce già con un messaggio ben preciso.
Eppure Tillmans, nato a Remscheid nella Germania dell’Ovest nel 1968, ha iniziato il suo percorso artistico inquadrandosi in un genere ben preciso, la Street Photography adattata alla cultura underground sviluppatasi in Europa negli anni Novanta, in particolar modo a Berlino e a Londra. Gay clubs, la famosa serie di ritratti dedicati agli amici Lutz e Alex pubblicata sul magazine I-D nel 1992, corpi in movimento che danzano nei locali, abiti sinceramente sdruciti, i sessi maschili fotografati in primo piano: ritratti di una quotidianità spontanea che racconta, similarmente al lavoro di Nan Goldin, un’epoca e un substrato sociale irripetibili. Solo che è tutto un equivoco.
Troppo facile definire l’artista un testimone di un periodo storico, troppo superficiale riassumere la sua visione come un atto di conservazione mnemonica. La spontaneità in Tillmans è un trucco ben strutturato, in quanto la composizione di ogni singolo ritratto è stata elaborata tramite l’attento controllo della posa e dei vestiti dei suoi modelli; in seguito poi il fotografo ha frequentemente riutilizzato le medesime immagini in installazioni e collages differenti, ricombinandole tra loro insieme ad altre fotografie secondo piani di lettura sempre diversi, come parole che di volta in volta legandosi nella frase generano nuovi significati. È impossibile far risalire il suo lavoro a un’unica interpretazione, perché è lo stesso autore a voler negare alle proprie creazioni la possibilità di esaurirsi in un solo valore concettuale, rimanendo così indipendenti dal loro tempo, dal loro creatore e dai loro stessi attori.
Questo è tanto più vero quanto più sorprendente, perché proprio nell’approccio presente ai suoi ritratti si rileva uno scarto notevole rispetto alle migliaia di immagini consumabili oggi nel giro di qualche minuto, scorrendo ad esempio la bacheca di Instagram. Non è solo l’ovvia altissima qualità delle composizioni di Tillmans, quasi perfette nella loro rifinitura, quanto una certa qualità dello sguardo dei suoi modelli. Questi non si mettono in posa così come lo si concepisce oggi entro la totale consapevolezza di ciò che significa stare di fronte a un obiettivo, consci fin dal momento dello scatto del risultato finale prodotto dall’espressione dei nostri volti; si abbandonano invece alle direttive del fotografo senza altra partecipazione che l’esserci nello scatto fotografico. Sembra quasi impossibile oramai ritrovare questa spontaneità nella posa che denota una distanza esplicita rispetto all’immagine finale.
Fino al 2012 Tillmans ha scattato solo in analogico. Il passaggio alla fotografia digitale ha significato per lui un riadattamento percettivo: “everything in the world is HD”, tutto nel mondo è ad alta definizione, pertanto è coerentemente rappresentato da immagini ad alta densità di informazioni. Ma è anche il carattere stesso dell’atto fotografico a cambiare, in quanto viene meno il distacco dall’immagine che vediamo subito riprodotta nello schermo della macchina fotografica (e più in generale, nello schermo del cellulare). In una conversazione con Beatrix Lux presente nel quarto dei cataloghi contenuti nel volume, l’artista afferma che ci è voluto un anno per ignorare “il riscontro sul piccolo schermo sul retro della macchina (…) per me la fotografia è un dialogo tra il soggetto fotografato e quello che fotografa”. L’immediata produzione dell’immagine finale nega a quest’ultima la possibilità di un’ulteriore maturazione, un processo riflessivo che è oramai quasi assente vista la corrente concezione di un’esperienza estetica basata sulla bulimia produttiva e consumistica di infinite rappresentazioni visive. L’immagine è ora sempre presente fin dall’inizio del processo fotografico, invade lo spazio artistico, cannibalizza fotografo e soggetto fotografico perché pretende l’attenzione che ruba al semplice stare davanti e dietro il mirino.
Tillmans non si nega il tempo di riflettere sulla fotografia come medium, amplificando la sua percezione verso un’idea ibrida dell’oggetto fotografico. Nei libri sovrappone immagini dentro le pagine, stratificandole per creare una simultaneità visiva che modifica la normale esperienza visiva. Ancora una volta, concede alle proprie opere la possibilità di esprimere nuovi valori, è il primo a problematizzarle, quasi invitando lo stesso lettore ad elaborare il proprio percorso tra le sue immagini secondo una personale rappresentazione visiva dagli esiti narrativi quasi infiniti.
Se dunque si vuole trovare una chiave di lettura per l’opera artistica di Wolfgang Tillmans, la soluzione potrebbe essere riassunta in questi tre concetti: distanza, riflessione, ridiscussione dei significati. Il suo lavoro sembra raccontare non solo se stesso, ma anche descrivere involontariamente cosa è venuto a mancare alla fotografia così come la viviamo oggi nel momento in cui la simultaneità di produzione e condivisione digitale ne ha cambiato profondamente la natura. Non si vuole qui fare il classico discorso o tempora, o mores, ma è innegabile, soprattutto nel confronto con i grandi fotografi che tuttora lavorano attivamente, che qualcosa si sta perdendo. È una sensazione oramai sopita, rassegnata, che giace silente nel fondo dell’inconscio, ma che si risveglia violentemente ogni volta che si incontra un’immagine veramente pensata.