L'America e la sua memoria (2) / Anche le statue muoiono
Tre risposte
Il destino delle statue dei Confederati è al centro di un dibattito complesso e stratificato che coinvolge cittadini, militanti, politici ma anche quanti lavorano sul visivo, che siano storici dell’arte, teorici degli studi visuali, curatori dei musei o addetti alla conservazione del patrimonio artistico. Le loro posizioni si sono espresse pubblicamente su giornali nazionali, blog e forum più confidenziali. Mi sembra siano tre le posizioni principali.
1) Images, malgré tout, o “anche queste sono opere di artisti” (Hollis Robbins, professore di Humanities al John Hopkins Peabody Institute). Le sculture dei Confederati sono artefatti con un intrinseco valore, se non estetico, perlomeno storico-culturale, in cui traspare lo stile di un’epoca. È improbabile che distruggerle risolverà i problemi della società americana, è certo che, così facendo, si comprometterà il patrimonio americano.
Chi studia la vita degli oggetti vuole comprendere perché sono stati creati, dove sono stati collocati, chi era supposto vederli, come funzionavano e come sono stati interpretati in diverse fasi storiche. Vuole documentare, analizzare e preservare le espressioni visive dei valori al cuore dell’identità nazionale. I monumenti ai soldati fanno parte di un sistema articolato, come ogni manufatto artistico, composto dagli artisti che li hanno progettati, dagli individui e le organizzazioni che li hanno finanziati, dai governi che li hanno appoggiati e così via.
Non manca tuttavia chi osserva che in sé le statue dei Confederati non hanno valore artistico, trattandosi di forme standardizzate realizzate a partire da illustrazioni e fotografie, prodotte in serie e su scala industriale da compagnie del New England, che vendevano le stesse statue alle fazioni opposte della Guerra civile e passarono, senza soluzione di continuità, dai monumenti nei cimiteri ai memoriali di guerra. Insomma l’unica ideologia era quella del “business as usual”.
Ad ogni modo, il gesto iconoclasta non apre un dialogo ma lo tronca, non si accompagna a una comprensione del ruolo delle immagini ma le annienta. Come si può gioire della devastazione della nostra cultura materiale? Al contrario, i monumenti dei Confederati vanno tenuti in piedi perché c’insegnano qualcosa sul nostro passato, su come questo ha anticipato e configurato il presente. Tale è la voce di molte comunità afroamericane: togliere dalla faccia della terra le statue in quanto appartenenti a un passato ormai trascorso raggira l’essenziale, ovvero il fatto che la società americana è tuttora fondata sulla diseguaglianza razziale. Quei monumenti non ricordano il nostro passato razzista ma il razzismo del nostro presente. Le statue contengono storie, le incorporano – “embedded” secondo il bel termine inglese – al loro interno, e la loro caduta comporterebbe un oblio di quanto custodiscono.
Lawrence A. Kuznar, professore di antropologia all’Indiana University, Purdue University Fort Wayne, evoca la distruzione dei monumenti dello Stato Islamico in uno dei rari riferimenti nella stampa americana a questa scomoda controparte. Il gesto iconoclasta, indipendentemente dalle intenzioni, è guidato dallo stesso intento e dallo stesso protocollo: esorcizzare il potere delle immagini. “Ma questi pezzi di metallo e di pietra hanno solo il significato che gli assegniamo, e questo significato può assumere qualsiasi forma che vogliamo. Possono essere venerati o vituperati, onorati o ridicolizzati, oppure cooptati per una nuova causa” (I detest our Confederate monuments. But they should remain, in “The Washington Post”).
Lasciate le statue dove sono, questo il messaggio, perché dicono cosa siamo e cosa non siamo, mostrano il prezzo pagato per ottenere i diritti civili. E se qualcuno fa di queste reliquie storiche degli eroi e degli altari, apriamo il dibattito nel cuore della società civile, senza eliminare l’oscuro oggetto del desiderio.
2) Museo-mausoleo. La rimozione delle statue dei Confederati ha senso solo se accompagnata da una collettiva presa di coscienza. Come proposto dall’artista di Los Angeles Mark Bradford: “Se questa conversazione riguarda, nel suo insieme, la storia del nostro paese, allora devi parlare della storia di questo paese. Non limitarti a lasciare questi spazi vuoti. Piuttosto contestualizza l’azione. Non mi sembra che ci sia ragione di precipitarsi”. La rimozione delle statue deve essere più deliberativa di quanto sta accadendo: “Siamo dell’opinione che in casi in cui ci può essere un’ulteriore discussione sull’arte pubblica, sulla sua rimozione o mediazione, questa deve aver luogo. Il discorso pubblico è molto importante”, secondo Simeon Bankoff, direttore esecutivo dell’Historical Districts Council a New York. “Sono restio a cancellare la storia. Per me il nocciolo della questione è meno se vengono giù o meno, che quello che il dibattito suscita”, afferma Lonnie G. Bunch III, direttore del National Museum of African American History and Culture dello Smithsonian.
Rimuoviamo le statue dal centro città, trasportiamole nei cimiteri al pari delle altre statue che piangono i cari estinti, o nei parchi di sculture all’aperto, come il Museon di Mosca, con le statue dell’epoca sovietica. O, ancora meglio, nei musei, contesto ideale per disinnescare il loro carico simbolico legato all’oppressione razziale. “Si tratta di statue su un piedistallo, e quando metti qualcosa su un piedistallo, è pronto a essere osannato. Crea una sorta di adorazione eroica attorno alla Confederazione, a sostegno di uno stato che sancisce la supremazia bianca. Per questo è opportuno riesaminarle e cambiare il loro contesto”, secondo Joshua David, presidente e amministratore delegato del World Monuments Fund.
Portare le statue in un museo sembra a molti un compromesso accettabile, ma si tratta di un processo pacifico? In realtà l’operazione poggia su alcuni presupposti impliciti, a partire dall’idea che il museo sia un deposito senza fondo. Molte statue sono di grandi dimensioni e pesanti, ciò che pone problemi strutturali per molti musei, inadatti a ospitare persino monumenti in bronzo. Sulla quantità poi non è ancora chiaro quante potrebbero essere rimosse, probabilmente più di quanto pensiamo e, di certo, più di quanto i musei possono accoglierne. Questo vale soprattutto per i musei d’arte, non a caso meno ricettivi dei musei di storia ad aprire le porte. A meno che non si vogliano accatastare in deposito, e in tal caso, anziché rivolgersi a un museo, qualsiasi storage facility sarà più adeguato.
Secondo presupposto: che il museo sia un luogo neutro, un santuario in cui i conflitti si placano, in cui cultura e politica si rappacificano. La capacità di “digestione” dei musei sembra non conoscere limiti: qui trovano dimora le rappresentazioni di personaggi abominevoli, suscitando pertanto poco scalpore. Ora, se le statue in questione celebrano lo schiavismo, non lo fanno fuori come dentro il museo-mausoleo? Quale salvacondotto è in grado di fornire tale istituzione? Pensate alle opere rimosse dai musei in quanto considerate offensive verso la religione: la rana crocifissa di Martin Kipperberger al Museion o, per restare agli Stati Uniti e al crocifisso, il video di David Wojnarowicz, A Fire in My Belly, rimosso da Hide/Seek: Difference and Desire in American Portraiture alla National Portrait Gallery di Washington nel 2010.
Chi lavora nei musei americani è consapevole della loro pretesa neutralità ideologica: “I nostri musei enciclopedici, come il Met, sono immensi magazzini pieni di oggetti globali progettati per funzionare esattamente come le immagini dei Confederati: come strumenti di persuasione ideologica, con messaggi etici che troveremmo ripugnanti se potessimo leggere i loro simboli visivi, la loro lingua al di là del linguaggio” (Holland Cotter, “We Need to Move, Not Destroy, Confederate Monuments”, in New York Times, 20 agosto 2017).
Terzo presupposto: che il museo risolva la questione offrendo un’adeguata contestualizzazione. Se non fosse che la messinscena delle statue non è qualcosa che si aggiunge da fuori una volta fabbricate ma le è consustanziale. Sono state concepite per essere esposte all’aperto e dialogare col contesto urbano. Strappate da questo tessuto, i monumenti non diventano più comprensibili ma muti (cfr. Michele H. Bogart, Sculpture in Gotham. Art and Urban Renewal in New York, Reaktion Books 2018). “Il senso e la storia che siamo in grado di trarre dalle statue in un sito diverso, in particolare una sorta di luogo sterilizzato come un museo, non è lo stesso. Questo comporta una perdita storica” (Michele H. Bogart, Stony Brook University).
3) Distruzione senza appello. Le statue mostrano il volto della città, l’immagine dei valori condivisi dalla comunità. Per essere collocate sul terreno pubblico sono state sottoposte a una votazione e finanziate dalle tasse comunali. Tenerle in piedi vuol dire accettare, seppur passivamente, il loro indecente messaggio. Non dimentichiamo, tra le tante, la dedica di una statua all’Università del North Carolina, in cui si ricorda che il soldato confederato, che ha “salvato la vita della razza anglosassone nel Sud”, ha adempito al “piacevole onere” di frustrare una donna nera davanti agli altri soldati. Chi vive nei dintorni si chiede come tollerare la vista di questi idoli neonazisti quando porta a scuola i bambini.
Nelle parole dell’artista Adam Pendleton: “Queste non sono opere d’arte, sono propaganda. Equipararle a un’opera d’arte e al mondo in cui funziona è falso. Sono strumenti di un’agenda politica e sarebbe del tutto folle suggerire che resta un filo di ambiguità. Il loro merito artistico è irrilevante perché non ha alcuna pertinenza. Non pensiamo a chi ha creato la statua di Robert E. Lee e alle sue intenzioni.
Pensiamo a chi è Robert E. Lee e a cosa significa”; “Parte della discussione riguarda quello che queste statue rappresentano. E quello che le statue rappresentano è molto chiaro: commemorano un periodo molto buio nella storia americana. Stiamo parlando di un momento storico in cui la gente era schiavizzata. È l’opposto di tutto ciò per cui l’America si batte. Buttate giù quelle statue!”.
Al riguardo, la posizione più estremista è quella di Nicolas Mirzoeff che non si presenta più come professore di Media, Culture e Communication (come in Come vedere il mondo recentemente tradotto da Johan & Levi) ma come “visual activist”. In questa direzione va il suo ultimo libro, scaricabile gratuitamente, The Appearance of Black Lives Matter: In un post virulento apparso sul suo blog (“All The Monuments Must Fall”, 14 agosto) incita a buttare giù tutti i monumenti. Non è chiaro cosa includa esattamente quest’insieme. L’autore cita le parole di una militante nera di Charlottesville che si sente guardata dalla statua di Lee a Monticello, ma allora cosa fare? distruggere la bellissima Monticello, residenza italianeggiante di Thomas Jefferson? Di certo vanno detronizzate tutte le statue classiche del mondo Atlantico che naturalizzano la supremazia bianca, legittimano l’istituzione e il mantenimento della white supremacy. Infrastruttura della whiteness, “forma visibile dell’ordine stabilito della gerarchia razziale”, parte di quella “estetica del rispetto per l’ordine stabilito” ricordata da Frantz Fanon: cosa aspettiamo a buttarle giù? a smantellare una volta per tutte l’immaginazione e l’immaginario colonialisti?
In sintesi, due posizioni si fronteggiano: chi le statue vuole tenerle seppur con vari distinguo, e chi le statue vuole distruggerle. Da una parte, semplifico, gli storici dell’arte e i conservatori dei musei, per cui il patrimonio va protetto; dall’altra parte, militanti e studiosi del visivo, attenti principalmente al ruolo e agli effetti culturali di questi artefatti. Entrambi concordano sulla potenza delle immagini: per i primi hanno un ruolo decisivo nell’educazione e nell’apprendimento della storia; per i secondi sono simboli che influenzato i nostri comportamenti. Si dividono però sul ruolo culturale del museo, che i secondi guardano con sospetto: che l’altare di Pergamo sia conservato, con tutti i crismi della museologia, a Berlino non ha facilitato la sua restituzione ad Atene, al contrario.
Non solo America
Il dibattito sui Confederati non è rimasto limitato nei confini degli Stati Uniti. Prendiamo due casi, a partire dal Witte de With Center for Contemporary Art di Rotterdam che, è notizia recente, verrà ribattezzato il prossimo anno. Questo al fine di rimuovere il passato coloniale dell’ammiraglio olandese Witte Corneliszoon de With, che guidò spedizioni in India e Indonesia per la Compagnia dell’India dell’Est, assaltò territori spagnoli in Sud America e stabilì la compagnia olandese dell’India orientale nel 1618 a Jakarta. Una carriera che stride con quanto viene esposto all’interno dell’istituzione.
Il secondo caso viene dalla Francia che, a seguito agli eventi di Charlottesville, ha condannando il razzismo e la xenofobia in nome dei loro valori repubblicani. Se non fosse che la Francia – sempre pronta a impartire la lezione agli altri – finge di non vedere la trave nei suoi occhi (Vos héros sont parfois nos bourreaux, in “Libération”, 29 agosto). Se Pétain è bandito dalla toponomastica francese, non mancano strade dedicate a negrieri: Pierre Balguerie-Stuttenberg Balguerie, David Gradis, Paul Broca a Bordeaux; Guillaume Grou e Leroy a Nantes; Masurier e Lecouvreur a Havre. Casi simili sono stati rilevati a La Rochelle, Saint-Malo, Marsiglia e, ovviamente, Parigi, la ville lumière. Qui troviamo una panoplia di quei militari che hanno organizzato e mantenuto questo sistema economico e politico. Se rue du Général-Richepanse è stata sbattezzata nel 2002, restano il maresciallo Jean-Baptiste Donatien de Vimeur de Rochambeau. Dietro questo nome pomposo da armata Brancaleone si nasconde l’uomo che proponeva, in una lettera nel 1803, di dare i negri ribelli in pasto ai bulldog: “Vous devez leur donner des nègres à manger”.
Per non citare il caso più controverso, quello di Colbert. A lui sono dedicati una statua e una sala all’Assemblée nationale; un’ala al Ministero dell’economia; licei, strade e persino un software per favorire il rientro delle imprese in Francia, chiamato Colbert 2.0. Colbert – quello vero – il colonialista autore del Codice nero che considerava gli schiavi beni mobili, fondatore della Compagnia delle Indie occidentali, è commemorato come grande economista francese del XVII secolo. Simile il caso di Jules Ferry che, se istituisce l’educazione laica, gratuita e obbligatoria per tutti, difende al contempo la colonizzazione. Diciassette porti in Francia parteciparono alla tratta dei neri, 1.3 milioni tra il XVII secolo e l’abolizione del 1848, senza contare il numero incalcolabile di quanti furono uccisi durante la cattura. Per non citare la guerra in Algeria, una ferita ancora aperta: il generale Dugommier, schiavista e proprietario di una piantagione in Guadeloupe, che ristabilisce l’ordine in Martinica contro i coloni recalcitranti alla Rivoluzione, ha una strada, una stazione della metro e una targa al Panthéon di Parigi. O il generale Gallieni, legato ai massacri in Indocina.
Anche qui due posizioni opposte si confrontano: da una parte un lavoro pedagogico con commissioni composte da storici e discendenti degli armatori, accompagnate da un dibattito sui nomi della strade più controversi. Dall’altra chi considera questi sforzi meritori opera di libri e film, laddove le strade devono celebrare gli eroi. Insomma, la Francia è lontana dall’aver decolonizzato gli spazi e le coscienze. Pensiamo solo allo storico Marcel Dorigny, autore di un Atlante dello schiavitù, dall’Antichità ai nostri giorni che, come confessa in un’intervista apparsa su “Libération” il 22 agosto, non riesce a trovare un editore pronto a pubblicare una guida sulla Parigi più nascosta e sconosciuta, quella coloniale.
Imparare da New Orleans
In una fase di estrema fragilità politica gli Stati Uniti sono in guerra non solo col loro presente ma anche col loro passato. Per comprendere meglio la posta in gioco, potremmo fare un salto indietro, ripercorrendo la distruzione delle immagini – rappresentata e agita –, dal dipinto di Thomas Cole, The Course of Empire: Destruction (1836) alla distruzione di Tilted Arc (1981) di Richard Serra (cfr. James Simpson, Under the Hammer. Iconoclasm in the Anglo-American Tradition, Oxford University Press 2010). Senza andare così lontano, preferisco evocare, in conclusione, un evento recente ma indipendente dalle emozioni suscitate dai fatti di Charlottesville.
Mitch Landrieu è il sindaco bianco di New Orleans, una città che ha storicamente inventato il jazz ma è stato anche il più grande mercato di schiavi, venduti, comprati e spediti sul Mississippi, dove li aspettava un’esistenza miserabile di lavori forzati. A fine maggio scorso il sindaco ha tenuto un discorso pubblico di grande lucidità e sensibilità (riportato sul “New York Times” del 23 maggio) in occasione della rimozione dell’ultimo monumento dei Confederati della città.
Vale la pena di riportarne degli stralci: “Queste statue non sono solo pietra e metallo. Non sono giusto ricordi innocenti di una storia benigna. Questi monumenti celebrano intenzionalmente una Confederazione falsa e sterilizzata, nella piena ignoranza della morte, della schiavitù e del terrore che rappresentano”. I monumenti sono stati eretti lì non per adornare le piazze ma per incutere timore ai cittadini neri: “Questi monumenti festeggiano intenzionalmente una Confederazione immaginaria e sterilizzata. Dopo la Guerra civile, queste statue erano parte di quel terrorismo quanto una croce in fiamme nel giardino di qualcuno; sono stati eretti intenzionalmente per inviare un messaggio forte a chiunque cammini al loro cospetto per ribadire chi comandava ancora in questa città”. Allo stesso tempo, “la storia non può essere cambiata. Non può essere rimossa come una statua. Ciò che è fatto è fatto”. “Per questo oggi reclamiamo questi spazi per gli Stati Uniti d’America. Perché siamo una nazione, non due; indivisibile con libertà e giustizia per tutti (…) e non per qualcuno”.
In modo simile il rettore della Duke University Vincent Price: “Abbiamo la responsabilità di unirci come comunità per determinare come poter rispondere a questo malcontento, in un modo che dimostri il nostro impegno fermo verso la giustizia, non la discriminazione; verso la protesta civile, non la violenza; verso il dialogo autentico, non la retorica; e verso l’empatia, non l’odio”.
Il cammino è lungo. Negli Stati Uniti ci sono monumenti a streghe giustiziate, a vittime del terrorismo, ad astronauti scomparsi, a donatori di organi, a seguito della memorial mania degli ultimi decenni (Erika Doss, Memorial Mania. Public Feeling in America, Chicago Press 2010). Eppure mancano memoriali sulla schiavitù o sul linciaggio, quanto incoraggia l’amnesia bianca. E taggare i monumenti con un “Black Lives Matter” non è sufficiente. La riconciliazione è lontana, offuscata dall’attuale presidenza, culturalmente impreparata ad affrontare temi del genere, a discutere non solo il ruolo dell’arte pubblica nella società americana ma anche, in ultimi analisi, i miti fondatori della nazione.
Eppure l’alternativa è la spaccatura, ovvero l’opposto di quello che gli Stati Uniti, negli intenti più alti dei suoi fondatori, hanno cercato di essere. Come recita il loro motto nazionale “E pluribus unum”, tradotto come “Out of many, one”. La moltiplicazione incontrollata delle rivendicazioni comunitarie mette ora in pericolo quell’unità, la faticosa costruzione di una storia condivisa collettivamente, quell’“us” (noi), pronome di prima persona plurale che, in inglese, suona anche come US, gli United States.
Qui la prima parte.