Nucleare / Non toccate i gatti radioattivi!
Gatti verdi e viola. Verdi e viola perché radioattivi. Schivati come la peste dagli umani. Solo così questi umani riusciranno a sopravvivere. La sinossi monca di un romanzo apocalittico o di un film di fantascienza? Acqua. Facciamo un salto indietro.
Semiotica nucleare
Nel 1981 il Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti e la società edilizia e ingegneristica Bechtel Corporation costituiscono lo Human Interference Task Force (HITF), un gruppo eterogeneo di ricercatori composto da scienziati, linguisti, ingegneri, antropologi, fisici nucleari e scienziati comportamentali. Da loro dipende la sopravvivenza del genere umano, come si sentirebbe dire con enfasi in un trailer: sono infatti invitati a riflettere su come tenere gli umani del futuro alla larga dai depositi di scorie nucleari altamente radioattive per almeno i prossimi 10.000 anni. All’epoca si annuncia come imminente l’apertura dello Yucca Mountain Nuclear Waste Repository in Nevada, un progetto controverso e alla fine fallimentare (come ben ricostruito John D’Agata in About a Mountain, 2010).
Il problema è immenso perché, come sanno bene gli studiosi, bastano mille anni per rendere un testo illeggibile e indecifrabile. I codici linguistici e simbolici di cui ci serviamo come moneta corrente nelle nostre società potrebbero diventare dei geroglifici dall’interpretazione incerta se non oscura. Il poema epico Beowulf di mille anni fa è oggi incomprensibile, allo stesso modo dei quipu, le cordicelle annodate della civiltà Inca, impiegate come una forma di calcolo e di scrittura, malgrado ci separino solo sei secoli. Su lassi di tempo superiori a cinquemila anni – coincidenti con la scrittura umana – ci è difficile esercitare l’immaginazione.
Nei primi anni ottanta nasce così la semiotica nucleare, alla ricerca di segni linguistici ed extra-linguistici capaci di trasmettere un senso di pericolo che perduri per migliaia di anni, che si tramandi per 300 generazioni, per un periodo così imperscrutabile che ignoriamo persino se esisterà ancora il linguaggio. E se un’involuzione profonda portasse l’umanità a una nuova età del bronzo? Fino a che punto e in che termini è possibile rallentare o tenere a bada l’obsolescenza di un messaggio, di un’informazione, di un codice, di una lingua? Un messaggio può veramente viaggiare nel tempo senza deteriorarsi? E cosa pensano, al riguardo, i membri dell’HITF?
Alcune loro elucubrazioni sono pubblicate nel 1984 in tedesco en vase clos, ovvero su una di quelle riviste di settore scritte, acquistate o meglio lette in biblioteca solo dagli accademici, “Zeitschrift für Semiotik”. Meritano tuttavia di essere riprese in questi giorni che, oltre al recente 36imo anniversario della catastrofe di Chernobyl (26 aprile 1986), si torna a parlare di un rischio nucleare ai confini dell’Europa.
Il semiologo Thomas Albert Sebeok, uno degli autori più noti, immagina l’istituzione di una Atomic priesthood, una casta religiosa composta da esperti che preservi e trasmetta alle generazioni future il pacchetto di conoscenze man mano acquisite in materia di scarti nucleari, di pericolosità del sito e di rischi eventuali per la sopravvivenza della specie umana. In che modo? Creando ex nihilo miti, rituali, leggende e scritture sacre che proibiscono l’accesso ai depositi di stoccaggio. Avvicinarli comporterebbe, per utilizzare la terminologia sacra che si addice al progetto, profanarli. L’energia nucleare diventa una forza diabolica da cui stare alla larga, il fuoco della fissione un’immagine industriale delle fiamme dell’inferno.
Ogni cento anni o, è lo stesso, ogni tre generazioni le informazioni riguardanti il nucleare saranno updated, adattate alle esigenze linguistiche e comunicative del periodo, tradotte nelle nuove lingue dominanti, rese conformi ai codici vigenti, alla sensibilità culturale e alle sue mutazioni.
Per Sebeok, non si tratta di una mera trasmissione dell’informazione scientifica ma di un intervento morale al fine di evitare, ad esempio, l’intrusione di stalker o uno di quegli scismi che segnano la storia. Non si può semplicemente vietare l’accesso alla Zona, si devono fornire ragioni valide per non profanarla. Nasce così l’Atomic priesthood, una sorta di garante morale pronto a elargire miti di retribuzione per chi non varcherà la soglia della Zona e a infliggere punizioni per chi la trasgredirà. Ragione scientifica e credenza popolare si congiungono.
Il culto religioso subentra, in particolare, là dove si temono gli effetti dell’instabilità sociale. Sebeok ritiene che la religione è un’istituzione umana stabile, percepita come se fosse regolata da un’autorità soprannaturale, capace di sopravvivere là dove società e civiltà tramontano. Una longevità comprovata dalla storia occidentale, e non a caso il modello di Sebeok è la storia del monoteismo, in particolare della Chiesa cattolica – una sorta di Vaticano del nucleare.
Che il sacro e il nucleare siano tra le invenzioni più durature della civiltà umana? Che condividano una simile cornice temporale? In fondo entrambe hanno a che fare con l’incommensurabile e con un certo penchant per l’invisibile. Di certo il nucleare diventa una questione non solo tecno-scientifica ma metafisica capace o, meglio, costretta a gettare uno sguardo sulla nostra condizione post-mortem. Alvin M. Weinberg, uno dei padri dell’energia nucleare e dell’idea dell’Atomic priesthood, considera il nucleare come un “Faustian bargain”, un patto faustiano contratto con la società.
Ora, le criticità della proposta di Sebeok sono palesi: una casta detentrice di un sapere che ricorda la Repubblica platonica, la perpetrazione di un culto religioso ex nihilo, il mantenimento di un apparato istituzionale necessario a tener vivo il culto di una religione artificiale. Che si tratti di una sacralizzazione o di una demonizzazione, fa lo stesso, dell’energia nucleare, resta una soluzione elitista, fondata sull’immobilismo sociale e il mantenimento dello statu quo. Presuppone una spaccatura socio-culturale tra un gruppo ristretto di detentori di un Sapere e una massa ignorante e manipolabile cui trasmettere informazioni e miti artefatti ma necessari per la loro stessa sopravvivenza.
La questione del nucleare si lega alla logica del segreto, un segreto all’appannaggio di un ceto dirigente, a un credo superstizioso rigidamente imposto dall’alto, come un marionettista che anima i suoi fantocci attraverso i fili. Al di là delle intenzioni esplicite di Sebeok, siamo pur sempre nei primi anni ottanta negli Stati Uniti, e Reagan è stato appena eletto presidente.
Come trasmettere il pericolo mortale al di là dei mezzi di comunicazione attuali come delle nostre capacità cognitive? Come farlo sapendo che la catena di significati può spezzarsi in qualsiasi punto e momento, che può prodursi un’ambiguità sul messaggio originario, un deterioramento del suo contenuto? Basta un nulla affinché si generi un malinteso che rovesci la missione originale dell’HITF. Una fase di confusione, un grande abbaglio, circostanze storico-sociali avverse che ridistribuiscono il potere, che rinegoziano le funzioni dell’Atomic priesthood se non del messaggio di cui sono i sacri custodi… tanti gli scenari, nessuno improbabile, che mostrano la fragilità del sacerdozio atomico.
Bioluminescenze sospette
Le proposte di Sebeok combinano aspetti utopici e distopici, echeggiando, come ricorda Sebastian Musch in The Atomic Priesthood and Nuclear Waste Management, idee di scrittori di fantascienza quali Isaac Asimov (il primo libro della Fondazione, 1951), Walter M. Miller Jr. (A Canticle for Leibowitz, 1960, 1997) e Arsen Darnay (Karma. A Novel of Retribution and Transcendence, 1978). In questi romanzi un gruppo ristretto di uomini preserva un sapere scientifico, non senza quei casi di sopruso, superstizione e leggende che segnano la storia delle religioni monoteiste.
Non sorprende che tra i ricercatori dello HIFT figuri anche l’autore di Solaris Stanisław Lem, che propone di mettere in orbita dei satelliti che trasmettano alla Terra le informazioni sul nucleare per millenni. Ma alla soluzione astronomica ne affianca una biologica che m’intriga: creare information plants, vegetali artificiali che crescono solo nelle vicinanze dei depositi di stoccaggio e nel cui DNA manipolato sono contenute le informazioni necessarie per localizzarli e conoscerne il contenuto nocivo.
Una proposta che mi porta finalmente a introdurre quella, spiazzante, di due autori lontani dalla fisica nucleare quali Paolo Fabbri e Françoise Bastide. Da studiosi di semiotica, comprendono che è necessario prescindere dalla sopravvivenza delle nostre lingue e di altri linguaggi simbolici, che non ci si può affidare al culto elitario ed elitista di Sebeok e che l’idea di Lem di sollecitare la sfera biologica è più perspicace e promettente.
Così si affidano agli animali sinantropici per eccellenza tra i più venerati e amati nella storia sin dalla civiltà egiziana, ovvero i gatti. (Perlomeno questo è il mio caso: quando tutto va in vacca mi rilasso vedendo video felini. Cuccioli che rotolano e si azzuffano, salgono su giradischi in azione come su una giostra, si arrampicano in parapendio sulle tende, miagolano mentre sbadigliano, restano interdetti davanti lo specchio o spiccano salti acrobatici per catturare animali che passano alla televisione, dormono acciambellati con le zampe sugli occhi o mettono in fuga cani grandi e grossi… Mai copertina di libro fu più azzeccata che quella di Perdere tempo su internet di Kenneth Goldsmith: l’immagine in caricamento di un gattino.)
La cosiddetta “ray-cat solution” di Fabbri e Bastide si articola in due passi, uno più bislacco dell’altro: il primo consiste nella creazione in laboratorio di gatti geneticamente modificati che si illuminano o discolorano in presenza di oggetti e ambienti altamente radioattivi. Un gatto così sensibile alle radiazioni da cambiare colore, da diventare verde come l’incredibile Hulk o viola come una melanzana. I gatti come contatori Geiger viventi insomma, che anziché gracchiare quando l’aria si fa radioattiva mutano drasticamente il colore del pelo. Il secondo passo, che risuona con Sebeok, consiste nel creare una tradizione popolare di miti e proverbi, secondo la quale bisogna evitare come la peste le zone frequentate dai gatti cromaticamente mutanti.
Nel 1981, anno di formazione dell’HITF, la fotografa Sandy Skoglund realizza una delle sue più celebri staged photography, Radioactive cats. Che l’idea fosse nell’aria?
Certo, la proposta di Fabbri e Bastide si scontra con diversi limiti biogenetici. I due studiosi riprendono una proprietà di tanti animali che vivono in ambienti immersi nell’oscurità, quella di assorbire o emettere luce o bioluminescenza. In un passaggio inter-specie, la contemplano per i felini che non hanno avuto bisogno di sviluppare tale qualità per sopravvivere. Oppure: “Un altro modo consisterebbe nel rendere possibile che i gatti risplendano grazie all’interazione enzimatica – un meccanismo utilizzato per studiare l’attività cellulare”. Grande è invece la fiducia dei due studiosi nell’abilità umana di raccontare storie e tramandarle ai posteri – l’aspetto più durevole della nostra civiltà non è, al di là dell’architettura, proprio la cultura?
Con gli obelischi e le stele recanti messaggi di pericolo, per ricordare una delle proposte più classiche di memento nucleare, restiamo nell’ambito della scultura, la cui sopravvivenza non è garantita. L’oralità ha invece più chance di sopravvivere, una trasmissione che passa di bocca in bocca, che si mantiene viva finché ci saranno esseri umani per raccontarla. Un’alternativa valida al complesso tecno-scientifico da cui la questione degli scarti nucleari è incapace di uscire: che la soluzione sia non in un surplus di scienza ma nella capacità umana di raccontare storie che parlino non solo del ma al futuro?
Il ritorno dell’ipotesi felina
Qual è stato il destino delle proposte della task force sull’interferenza umana nei depositi nucleari? Dopo due anni di valutazione della loro fattibilità o credibilità, il rapporto ufficiale del 1984 avanza una soluzione più classica: erigere monoliti di pietra con incisi i pericoli nucleari in tutte le lingue conosciute. Pare che Sebeok, che coordinava i lavori dell’HITF, non abbia mai preso sul serio l’ipotesi felina di Fabbri e Bastide. Pubblicata in tedesco in una rivista accademica di semiotica, finì così nel dimenticatoio. Poteva essere l’ultima parola ma le cose sono andate diversamente e i gatti radioattivi tornano all’attacco. Nel 2016 – un anno dopo il documentario di Peter Galison e Robb Moss Containment – viene realizzato The Ray-cat solution, un breve documentario di Benjamin Huguet, da un’idea di Matthew Kielty, radio reporter per il podcast “99% Invisible”. Nel frattempo il Bricobio, un bio-laboratorio a Montreal fondato dal biologo Kevin Chen, s’interessa alla produzione di un gatto sensibile alle radiazioni, studiando le meduse e facendo esperimenti su C. elegans, un tipo di verme nematode. Il New Hampshire Institute of Arts s’interroga su come creare e perpetrare la tradizione culturale del gatto radioattivo. Viene inaugurato un sito dedicato, dove la prima domanda nella sezione delle FAQ è “Are you serious?” e la risposta “Completely”. Viene infine composta una canzone da Emperor X, Don’t Change Color, Kitty inclusa nell’album 10,000-Year Earworm to Discourage Settlement Near Nuclear Waste Repositories. La chicca di tale revival del gatto radioattivo resta però l’intervista concessa da un Fabbri visibilmente entusiasta che, nella sua casa di Rimini, ritorna, parlando in francese, su questo episodio sconosciuto della sua carriera. E constata soddisfatto che il gatto radioattivo è diventato un segno.
Se Yucca Mountain ha fallito, altri depositi geologici sono in costruzione e le discussioni dell’HITF non sono state abbandonate. Nel 1990 si è costituito un nuovo gruppo di geologi, linguisti, astrofisici, architetti, artisti e scrittori per riflettere alle questioni affrontate nel 1981. Per trovare un marker adatto, un dissuasore efficace, c’è tempo fino al 2025-35, quando il Waste Isolation Pilot Plant (WIPP), un deposito geologico nel deserto Chihuahuan in Nuovo Messico, sarà sigillato. La sfida è davanti a noi: generare un’iconografia del futuro nella speranza che l’essere umano di domani – poco importa se caduto in un analfabetismo causato da eventi catastrofici o bio-tecnologicamente potenziato secondo i vaneggiamenti transumanisti – avrà capacità simili alle nostre di leggere il visibile.
Non sappiamo (come) parlare a quest’umanità a venire, ci mancano le parole e le immagini, che siano sotto forma di monoliti o gatti radioattivi che il mito c’invita a tenere alla larga. Forse un domani non lontanissimo l’umano si esprimerà come Lucifer Sam, la canzone dei Pink Floyd scritta da Syd Barrett, che teneva in casa diversi gatti siamesi. Senza troppa fantasia, due di loro si chiamavano rispettivamente Pink e Floyd e, alla stregua del loro padroncino, assumevano l’LSD – “That cat’s something I can’t explain”.