Andò, Pirandello e “la stranezza”
Il teatro è finzione – dice Luigi Pirandello (Toni Servillo) a Sebastiano detto Bastiano e Onofrio detto Nofrio (Ficarra e Picone), che stanno allestendo una commedia, che presto diventerà la fonte materiale di Sei personaggi in cerca d’autore. Mai un film aveva tentato di entrare così da vicino nel processo creativo di un’opera letteraria: Andò lo fa, con grande determinazione e notevole umorismo.
Pirandello si era confrontato col cinema a più riprese, dai Quaderni di Serafino Gubbio operatore (prima, Si gira) fino alla trasposizione hollywoodiana di Come tu mi vuoi (As You Desire Me di George Fitzmaurice, con Greta Garbo, Melvyn Douglas ed Erich Von Stroheim), ma la macchina da presa gli è sempre sembrata un orpello inutile rispetto alla dialettica fondamentale tra vita e forma che anima tutto il suo pensiero. Le «macchine voraci», che trasformano ogni elemento di vita in «cosa», scriveva Giancarlo Mazzacurati in quello che resta a tutt’oggi il saggio più bello su Pirandello e il cinema (Il doppio mondo di Serafino Gubbio), sono la manifestazione non solo simbolica di quel capitalismo industriale che fa di tutto una merce: «Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una mostruosa gestazione meccanica», annotava Serafino, prendendo coscienza non tanto di un processo di trasformazione quanto di «sostituzione della realtà naturale con una realtà artificiale, di secondo grado, che si nutre della prima e la assorbe entro i circuiti totalitari dello spettacolo-merce» (Mazzacurati). Meglio non sfidare Pirandello su questo terreno, allora, a rischio di venire fagocitati nella sua stessa critica alla «mano che gira la manovella».
Come si fa, in effetti, a mettere in scena la riflessione, da cui, scriveva Pirandello una decina d’anni prima dei Quaderni, scaturisce l’umorismo, con quel passaggio dall’avvertimento del contrario (le cose non sono come dovrebbero essere: la vecchia signora che si veste come una ragazzina) al sentimento del contrario (la scoperta della ragione per cui le cose stanno come stanno: forse si sente vecchia e ha paura di perdere il marito)? Si fa con l’umorismo, appunto, per cui l’uomo che pretende che la sorella resti vergine è un cliente abituale del bordello locale, il commediografo di provincia suggerisce che il professore venuto da Roma di teatro ci capisca ben poco e l’attore un po’ autistico fa una pausa fuori tempo nella recitazione della battuta “non ho nessuno | scopo e sono felice”.
A tal fine la scelta di Ficarra e Picone, che mettono in scena la classica coppia della commedia italiana (Ciccio e Franco in versione duemila, presenti del resto nell’omaggio pirandelliano più bello dei fratelli Taviani, Kaos) rivisitata nella chiave del doppio pirandelliano (già fondamentale in Viva la libertà, sempre di Andò, sempre con Servillo), è davvero perfetta, perché il duo crea una sinergia straordinaria di complicità e malintesi, identità e rivalità, che fa ripetutamente sorridere lo spettatore, ma lo costringe anche a chiedersi continuamente se ha di fronte due geni o due idioti. Cosa ci potrebbe essere di più pirandelliano di questo necessario spostamento del punto di vista, per cui la realtà non è mai uguale a sé stessa e la vita si ribella incessantemente alla forma?
Non riescono a dare una forma al loro spettacolo teatrale, i due, becchini reinventatisi drammaturghi, che non sanno neppure se il testo che metteranno in scena è una commedia o un dramma, perché “chi sa cosa può succedere durante la rappresentazione”, come afferma a un certo punto Nofrio. L’imprevisto è sempre in agguato, come la coincidenza, che fa sì che i due, nella veste professionale di becchini, debbano occuparsi della sepoltura della balia (Aurora Quattrocchi) di Luigi Pirandello, appena defunta, col risultato di guadagnarsi uno spettatore d’eccezione per il loro spettacolo.
Uno che sta disperatamente riflettendo sull’impossibilità di rappresentare la realtà, come riconosce, in uno strepitoso, ma non troppo credibile incontro, Giovanni Verga (Renato Carpentieri), che gli affida la sua eredità ideale sulla strada di un realismo che la realtà sappia non solo fotografarla, ma anche smontarla nei suoi meccanismi costitutivi. Che i due grandi scrittori siciliani a cento anni di distanza siano interpretati da due attori campani la dice lunga sullo spostamento degli equilibri culturali del Meridione d’Italia, ma la scena, con le due mani che si sovrappongono, è davvero toccante: non solo per gli appassionati di letteratura, perché lì si vede la continuità tra le generazioni, quella che le tante retoriche della creatività e dell’energia giovanili vorrebbero abolire senza troppi riguardi.
Da qui Pirandello matura la scelta di assistere prima alle prove e poi alla messa in scena della commedia-noncommedia dei due becchini-drammaturghi, al cui centro c’è una seduta spiritica (come nel Fu Mattia Pascal, ma si tratta di un’ossessione pirandelliana), che funziona tanto bene da far perdere il senso di realtà agli attori coinvolti, che fanno fatica a guardare il pubblico, come pretende il regista, essendo troppo presi dall’evento. Realtà o finzione, come si chiedevano gli attori alla fine dei Sei personaggi in cerca d’autore e come ci chiede continuamente Andò?
Si tematizza in tal modo la morte, che è sempre presente, ma anche ripetutamente sfidata, perché “i morti sono i veri vivi”, sempre in agguato anche loro, trasformando il caso in caos, come avviene quando un’altra morte, reale, di una vecchia nonna, costringe la protagonista della progettata recitazione a ritirarsi, sostituita infine, in uno strepitoso conflitto delle parti, proprio da Bastiano, che si offre volontario per impedire che sia la sorella ad andare in scena, mettendo a repentaglio la sua ossessiva protezione nei confronti di lei. Col risultato, prevedibile, che la sorella (Giulia Andò, la figlia del regista reale, in un altro gioco delle parti al quadrato) starà con l’amico, tanto gentile e così poco virile, ma pronto a cogliere l’occasione al volo a dispetto dell’amicizia fraterna col fratello di lei.
Affascinato da questa commistione insensata tra la commedia da realizzare e la vita che ripetutamente la invade, Pirandello comincia a ricevere nella sua immaginazione proprio i due becchini, trasfigurazione di quei personaggi che gli chiedono pressantemente di essere scritti e sceneggiati. Da questi fantasmi in carne e ossa nasceranno i Sei personaggi, alla cui prima i due becchini saranno invitati personalmente dall’autore, che di fatto si è ispirato alla loro vicenda.
La storia non è vera, naturalmente, perché Nofrio e Bastiano non sono mai esistiti, come leggeremo nei titoli di coda, ma chissà che non possa essere vera. Il cinema, come il teatro, crea la sua realtà, che non ha minore cittadinanza nel regno dell’esistente di ciò che consideriamo reale sulla base dell’esperienza. Andò sfida Pirandello sul suo terreno, perché aggiunge un elemento di realtà possibile alle tante realtà possibili che l’arte crea quotidianamente.
Meta-metateatro, allora, è ciò che il film ci propone, come metateatro erano i Sei personaggi, perché il gioco di specchi tra teatro e realtà si moltiplica ulteriormente: se il teatro è forma che imprigiona la vita, come affermano i sei personaggi nel testo pirandelliano, non sarà il cinema a liberare la vita rimettendo tutto in discussione? È così che Pirandello ritorna a sé stesso, in quegli sguardi curiosi e stupiti sul mondo che Servillo realizza alla perfezione, in un ruolo poco parlato che gli consente di esprimere al meglio la sua natura di grandissimo interprete, fino a risultare uguale all’originale nella resa della faccia. Quella faccia «gracile, pallida, con radi capelli biondi; occhi cilestri, arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso», come nell’ironico autoritratto che affiorava proprio nei Quaderni di Serafino Gubbio: chissà che non sia stata questa pagina a ispirare Andò e Servillo, nel momento in cui hanno restituito Pirandello a quella funzione voyeuristica di teatri di posa che gli piaceva tanto.
Come attore di teatro, del resto, Servillo ha cominciato, scoprendosi mimetico piuttosto che oracolare, cosa che questo film gli restituisce magnificamente. A compensare la sua straordinaria maschera dal sorriso astratto e stereotipato, ma proprio perciò ideale in questo contesto, Ficarra e Picone portano l'avanspettacolo (e il B-movie) dentro al cinema, facendolo tracimare verso la vita e destituendo l'insieme da troppe pretese di serietà e intellettualismo.
Primi piani continui, alternandosi sullo sfondo della luce piena degli spazi aperti e della penombra degli interni, realizzano l’introspezione necessaria ai fini della rappresentazione della riflessione e dell’intuizione, di modo che la vicenda si sposti sistematicamente dallo sguardo del narratore esterno e onnisciente all’interiorizzazione da parte del personaggio (grazie alla fotografia, di Maurizio Calvesi, e al montaggio, di Esmeralda Calabria). Pirandello è cerebrale, come diranno gli spettatori della prima dei Sei personaggi, ma anche e soprattutto sensitivo. Affiora la follia, come nelle splendide danza e risata della moglie (Donatella Finocchiaro) rinchiusa in un sanatorio, l’irrazionale del sole e della terra, allontanato e rimosso dalla ragione, ma sempre in agguato nei fantasmi della memoria e dell’assenza. Ritornato siciliano, secondo la lezione di Sciascia, omaggiato nella dedica del film, l’autore di teatro più sconvolgente di tutto il Novecento (più di Brecht, più di Beckett, più di Ionesco) diventa personaggio, fino a essere lui l’oggetto di quelle scomposizioni che gli piacevano tanto, lasciandoci col dubbio se egli sia stato un geniale interprete della realtà che si muoveva intorno a lui oppure un semplice trascrittore di esperienze altrui.
Se il cinema possa darci degli strumenti nuovi di lettura della storia è la domanda che questo film impone: non se rappresenti la realtà più e meglio della letteratura e della storia, ma se alla letteratura e alla storia fornisca chiavi d’accesso capaci di illuminare aspetti che finora erano rimasti oscuri, misteriosi o semplicemente inspiegati. Appropriandosi di una storia altrui e manipolandola ai propri scopi, il regista ci costringe a cambiare il punto di vista, raddoppiare lo sguardo e assumere lo strabismo come modalità obbligatoria di lettura: dentro l'uovo che contiene il principio vitale, limitandolo e ingabbiandolo, non ci sarà più un solo tuorlo, ma due.
Per cui all'alternativa tra realtà e finzione si dovrà aggiungere un terzo termine, l'inganno, che è probabilmente l'unica via di accesso alla verità. Capovolgendo sempre ciò che ci sembra di aver capito e moltiplicando la percezione anziché ridurla alla definizione: fino a doverlo rivedere, questo film, perché non finirà mai di dirci quel che ha da dirci. «C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo. Ma appena quest’oltre baleni negli occhi di un ozioso come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate», osservava Serafino Gubbio: chi non vorrà vederlo, quest’oltre, si fermerà a Ficarra e Picone; ma appena qualcuno lo vedrà, ci sarà chi si sentirà offeso o disturbato.