Speciale
Benvenuto in America, Mister Trump
L’inquadratura di Donald Trump che con il sangue che gli cola sulla guancia alza tre volte il pugno e grida alla folla “Lottate!” (Fight!) non è l’unica cosa da osservare con attenzione nel video del suo tentato assassinio. Ma vediamo prima che cosa entrerà nella storia. Qualunque stratega elettorale sceglierebbe la fotografia della Associated Press, scattata mentre Trump scende dal palco. La descrizione che ne ha fornito Benjamin Wallace-Wells sul “New Yorker” (versione online), è da leggere con attenzione. Traduco qui il primo paragrafo:
“Quasi subito dopo gli spari al comizio di Donald Trump a Butler, in Pennsylvania, l'ex Presidente ha avuto un sussulto sul palco, si è portato una mano al viso ed è caduto a terra. Negli attimi di caos che sono seguiti, Trump è stato aiutato a rialzarsi dagli agenti del Servizio Segreto e ha dato una prova definitiva di vita: ha alzato il pugno destro verso il cielo e ha urlato alla folla "Lottate!". Nella foto circolata poco dopo, scattata da Evan Vucci dell'Associated Press, Trump è stagliato contro un cielo azzurro e limpido, mentre quattro agenti del Servizio Segreto lo stringono. Uno di loro guarda dritto nell'obiettivo, gli occhi protetti dagli occhiali scuri. Una bandiera americana sembra quasi veleggiare sulla scena. Trump ha le labbra serrate, gli occhi stretti e il mento un poco sollevato. Strisce di sangue colano dall'orecchio destro e sulla guancia. Lo sguardo è rivolto ben oltre quello che la macchina fotografica può catturare – al pubblico, al futuro – ed è uno sguardo di sfida. Chiunque abbia cercato di ucciderlo, ha fallito. È già l'immagine indelebile della nostra epoca di crisi e di conflitto politico” (The Attempt on Donald Trump’s Life and an Image That Will Last | The New Yorker)
L’immagine è straordinaria. Il candidato ferito e la bandiera, il candidato ferito e il cielo che l’America ha sempre voluto raggiungere, il candidato ferito che non si arrende, nemmeno per un attimo dimentica chi è e dove si trova, il comandante il cui primo pensiero va ai suoi soldati che continueranno la battaglia per lui. Durante l’assalto al Campidoglio aveva preferito restare in retroguardia, mandando avanti le sue truppe. Ora si è trovato in prima fila, e sotto il fuoco (amico o nemico? Non si sa, e per le ragioni che spiegherò più avanti non ha importanza saperlo) non ha sfigurato.
Ma quello che accade alcuni istanti prima dello scatto di quella foto è altrettanto significativo. Nel filmato del comizio tenuto a Butler, cittadina della Pennsylvania, in un’area aperta e facilmente controllabile (assolutamente incredibile che l’FBI o il Servizio Segreto o chi per loro non abbia messo nessuno sul tetto del capannone dove si è appostato il potenziale assassino, che pure era stato visto e segnalato; non mi butto in speculazioni ma sono curioso di sapere quale testa cadrà), bisogna osservare le reazioni del pubblico che sta dietro a Trump. In qualunque film, buono o mediocre che sia, al primo accenno di spari la gente si disperde caoticamente, urlando e con le facce contorte dal terrore. È questa la reazione “normale” che ci si aspetta, no? No, è normale solo nei film. Non è quello che è accaduto a Butler e non è quello che vediamo nel video. Trump si porta una mano all’orecchio, cade a terra, gli agenti del Servizio Segreto si precipitano su di lui, non lo rialzano immediatamente, potrebbero venire altri spari e il palco lo protegge. Ci sono stati momenti convulsi che non vediamo, quando Trump ricompare si sente che dice qualcosa come “Trovatemi le scarpe”. Nel frattempo, la piccola folla dietro di lui si è alzata, si è risieduta, non si vede nessuno lasciarsi andare a gesti convulsi, nessuno cerca di scappare, chi ha in mano un telefonino non smette un momento di inquadrare l’ex-presidente, continua a filmarlo mentre cade e quando viene rialzato, come se ogni cittadino fosse un veterano cronista di guerra che non si stupisce più di nulla. E mentre Trump viene accompagnato giù dal palco si alza il grido “USA! USA! USA!”.
Stati Uniti d’America, sì, ma quale America? Quella che ha assalito il Campidoglio su incitamento di Donald Trump è diversa dall’America che tenta di ucciderlo, oppure è la stessa? L’assassino, non solo potenziale, visto che ha ucciso una persona tra il pubblico e ne ha ferite altri due, è stato identificato con nome, secondo nome e cognome (perché è così che la polizia diffonde l’identità dei sospetti, da John Wilkes Booth che uccise Lincoln a Lee Harvey Oswald che uccise Kennedy e oltre). Si chiama Thomas Matthew Crooks, residente a Bethel Park, Pennsylvania, vent’anni, si dice registrato alle primarie come repubblicano e che tempo fa avrebbe mandato una piccola donazione (15 dollari) a una associazione liberal – ma nessuna delle due cose significa alcunché, uno può registrarsi come repubblicano e votare democratico e viceversa, o registrarsi come indipendente e votare per chi gli pare.
È stato prontamente ucciso e non gli potrà chiedere che cosa gli sia passato per la mente, ma saperlo non farebbe una grande differenza. Negli Stati Uniti, le uccisioni politiche raramente hanno una chiara matrice ideologica. Sono eruzioni prodotte da una febbre che non si placa, e che l’America ha contratto fin dalla Guerra di Secessione e dall’assassinio di Lincoln. Chiedere a Thomas Crooks perché ha cercato di uccidere Trump sarebbe come chiederlo al Travis Bickle di Taxi Driver. Sparare a un presidente, a un candidato presidenziale, a una rock star o al militante di un movimento per i diritti civili, è una delle tante cose che un americano con un’arma in mano può fare. Non è un gesto politico, è un gesto identitario, è un altro modo di dire “Sono un americano”, un altro modo di gridare “USA!”.
Il termine “violenza redentrice” (redemptive violence) è stato coniato dal teologo Walter Wink in The Powers That Be, un libro pubblicato nel 1999, anche se con altri termini è un concetto che già circolava. Wink, un teorico della non-violenza, pensava ai poteri imperiali e alle teologie politiche che autorizzano la violenza da parte dello stato. Il suo ragionamento parte dal quotidiano, dalle strutture mitiche dei cartoni animati in cui l’eroe trionfa sempre ma il suo avversario non viene mai sconfitto. Wink, in cerca della radice di questi archetipi narrativi, lo va a trovare nell’Enuma Elish, il mito babilonese della creazione, fondato sulla violenza che intercorre tra gli stessi dei e che è all’origine stessa dell’universo. Il libro della Genesi, sostiene Wink, è un’implicita contestazione dell’Enuma Elish in quanto introduce un Dio che presiede a una creazione “buona”, eliminando senza violenza il caos che la precede. Ma non per questo il mito della violenza redentrice viene sconfitto (come nei cartoni animati o nei film serializzati, appunto, il cattivo non muore mai). Se sotterraneamente si continua a pensare che solo la violenza possa garantire la vittoria dell’ordine sul caos, allora qualunque forma di ordine, non importa come venga raggiunta, è preferibile a ciò che vi era prima.
La convinzione che la violenza porti salvezza è dunque il vero mito del mondo moderno. Non l’ebraismo, il cristianesimo o l’Islam. Se ci si rivolge a Dio solo quando tutte le altre vie appaiono chiuse, la violenza assume caratteristiche divine, diviene essa stessa un dio al quale si devono offrire sacrifici. Walter Benjamin ha scritto cose altrettanto illuminanti sulla violenza divina, ed è un peccato che Wink non si confronti con lui, ma la sua analisi, che vuole estendersi a tutta la civiltà umana, è ancora più efficace se la restringiamo agli “USA!” gridati dalla folla dei sostenitori di Trump, i quali non fanno una piega davanti alla violenza subita dal loro capo e continuano a filmarlo. Il caos, hanno poi riferito altri giornalisti, è intervenuto solo dopo. Quando infine il luogo è stato sgomberato, sul terreno erano sparsi vari telefonini. Come nei film in cui basta la porta di un’automobile aperta su una strada deserta per suggerire che l’invasione degli zombie è già avvenuta (ho in mente la scena iniziale di L’ultimo uomo della terra, un film del 1964), probabilmente questa è la vera immagine dello scenario post-apocalittico occidentale: non un cadavere riverso ma un telefonino abbandonato in mezzo a un prato (le guerre vecchio stile, come si sa, accadono altrove).
La violenza redime coloro che la subiscono (beati i perseguitati perché di essi è il regno dei cieli), ma redime anche coloro che la commettono, perché li riconnette con il caos che precede la creazione e che ancora si agita dentro di loro. A Thomas Crooks non importava nulla di essere ucciso, l’aveva messo in conto. Uccidendo chi ha portato il caos in America si consegnava egli stesso al dio del caos. In un certo senso, uccidere Trump era molto meglio che votarlo. Era l’omaggio più sincero che potesse rendere a una sorta di caotica divinità scesa in terra e che di sicuro aveva invaso la sua mente come quella di milioni e milioni di seguaci e di oppositori. Pensateci: nessuno potrà più liberarsi di Trump; nessuno potrà più permettersi di passare una giornata della sua vita senza pensare a Trump, discutere di Trump, preoccuparsi per Trump, adorarlo o averne terrore. Era già così fino a ieri, e oggi lo è immensamente di più. Ma con una differenza fondamentale. Fino a ieri, Trump era ancora un’entità misteriosa, una creatura di cui sembra si sappia tutto ma di cui si ignora l’essenza e perfino le motivazioni, che non sono quelle del tiranno tradizionale. Finora, sostenitori e avversari lo hanno considerato quasi come se avesse un diverso DNA, chiedendosi quale forza spaventosa lo portasse avanti a dispetto di tutto, la stessa che gli ha fatto alzare il pugno al di sopra della faccia sanguinante, ma ora qualcosa di irreversibile è accaduto. Così come il suo potenziale assassino, Trump è stato redento. Dalla violenza esercitata su di lui e dalla violenza che ha promesso in risposta (Fight!). Ora è diventato veramente americano, ha ricevuto il battesimo del sangue, che è molto più forte di quello dell’acqua. Dal 2016 al 2021 ha abitato alla Casa Bianca, ma era difficile considerarlo un presidente. Anche per i suoi sostenitori, era più un unto del Signore che una figura politica. Se ora tornerà alla Casa Bianca, sarà veramente un presidente. E che il dio del caos ci aiuti, visto che sembra l’unico rimasto, sperando che si riservi ancora il suo antico diritto, quello di essere imprevedibile.
La foto di copertina è di Evan Vucci - Associated Press ©