storia del dolore / Byung-Chul-Han. La società senza dolore
“Il filosofo tedesco più letto nel mondo” (El Pais), “La punta di diamante di una nuova, accessibile filosofia tedesca” (The Guardian), “Uno dei più importanti filosofi contemporanei” (Avvenire). Byung-Chul Han è, senza dubbio, uno dei pensatori attualmente più apprezzati a livello internazionale. I suoi libri sono letti e studiati non solo dagli addetti ai lavori nel campo della filosofia, ma in ogni settore disciplinare intento a decifrare con lucidità le caratteristiche del presente. Addirittura, Der Spiegel usa il termine “gratitudine” per l’audacia con cui il filosofo sudcoreano cerca di interpretare quella complessità del reale che, quotidianamente, rischia di sopraffarci e di soffocarci.
Il segreto dell’universale entusiasmo nei confronti di Han è riconducibile, soprattutto, alla sua capacità di vestire plausibilmente i panni di un Günther Anders del XXI secolo, quindi di un critico radicale, pessimista e apocalittico delle principali tendenze politiche, sociali, culturali e tecnologiche odierne, adottando però uno stile di scrittura tanto cristallino quanto fascinoso e attraente. Le proposizioni perlopiù stringate, che connotano la forma dei suoi brevi pamphlet polemici, celano una scrupolosa ricerca dell’immagine perfetta per togliere il fiato al lettore, nonché del gioco di parole più seducente che, facendoci progressivamente aumentare lo stato d’ansia, stimoli in noi il lato maggiormente critico e censore del presente. Non fa eccezione il nuovo pamphlet, intitolato in modo enfatico Una società senza dolore, il quale addirittura estremizza la forma stilistica adottata nei libri precedenti. Ne è senza dubbio complice la particolare delicatezza del tema scelto da Han: il rapporto assai problematico tra il mondo contemporaneo e il dolore.
La teoria di base del libro è la seguente: per comprendere pienamente le peculiarità di una società occorre svolgere un’attenta ermeneutica del dolore. “Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei”: il motto di Ernst Jünger apre il libro, ponendo il filosofo sudcoreano nella condizione di svelare subito le sue carte. L’epoca odierna è profondamente segnata da una radicale algofobia, una paura generalizzata del dolore; questa algofobia è, al tempo stesso, una tanatofobia, una paura altrettanto diffusa della morte. Non può che derivarne l’anestesia permanente, il cui unico esito politico consiste nella democrazia palliativa. Una democrazia, cioè, della positività imposta a forza, che cerca di sbarazzarsi in tutti i modi possibili del negativo: quindi, del dolore e della morte. Il ricorrente uso metaforico di termini come “anestesia”, “analgesico” e “palliazione” è funzionale per sottolineare il processo di farmacologizzazione, a volte solo simbolica a volte invece reale, a cui ci sottoponiamo volontariamente e con convinzione per evitare sofferenze fisiche e psichiche, sociali e culturali.
Il tema del rapporto tutt’altro che armonico tra la società contemporanea e il dolore non è certamente nuovo né rappresenta un aspetto inedito del XXI secolo. Le principali riflessioni interdisciplinari sulla rimozione sociale e culturale della morte, che ha contraddistinto tutto il Novecento, evidenziano infatti il nesso indissolubile tra il rifiuto della morte e quello del dolore all’interno dello spazio pubblico occidentale. Max Scheler, per esempio, sottolinea in Morte e sopravvivenza, pubblicato postumo nel 1933, come a un tipo salubre di rimozione della morte dallo spazio pubblico si sia sovrapposto – nel corso degli anni – un altro tipo di rimozione, stavolta patologico e destabilizzante. Scheler auspica, ai fini della sopravvivenza, una “leggerezza metafisica” che consiste in uno “stato di misteriosa calma e ‘allegria’ di fronte al peso e all’evidenza del pensiero della morte” (p. 59). Se pensassimo, in ogni singolo istante, al nostro destino mortale e alla sofferenza che ne deriva saremmo infatti, molto probabilmente, incapaci di agire con libertà e ardore nelle varie situazioni della vita quotidiana. Tuttavia, questa leggerezza metafisica, di per sé necessaria, è stata sopraffatta gradualmente da una pericolosa rimozione della nostra fragilità biologica ed esistenziale, la quale ci porta a non credere più nella sopravvivenza. L’uomo “non crede più in una sopravvivenza, in cui la morte verrebbe per così dire superata, in quanto non vede più con chiarezza che la propria morte gli sta dinanzi, non ‘vive’ più ‘al cospetto della morte’. Detto in modo più radicale: egli non crede più nella sopravvivenza in quanto, con il suo modo di vivere e di occuparsi delle faccende quotidiane, rimuove dalla chiara zona della coscienza un fatto intuitivo costantemente presente alla nostra stessa coscienza: che la morte è per noi certa; e questa rimozione prosegue fino al punto in cui non rimane altro che il puro sapere astratto di dover un giorno morire” (Scheler, p. 34). Un puro sapere astratto che non ha alcuna familiarità con quella sofferenza che contraddistingue la vita umana stessa.
Norbert Elias, a sua volta, nel classico La solitudine del morente (1982) descrive come l’ospedalizzazione del fine vita abbia trasformato la morte in una “macchia bianca sulla carta geografica del sociale” (p. 47): non ci fa paura tanto la morte di per sé ma la coscienza della morte, dunque del dolore che ne deriva, per cui adottiamo ogni strategia “artificiale” per nasconderla e per evitare il pensiero della sofferenza.
Potrei andare avanti per ore a menzionare gli studi novecenteschi su questo particolare fenomeno culturale: dalle riflessioni storico-sociali di Philippe Ariés agli studi filosofico-sociologici di Jean Baudrillard, dal concetto di pornografia della morte di Geoffrey Gorer alle recenti considerazioni del medico Atul Gawande. Ognuno di questi studi riprende e sviluppa secondo le proprie specifiche prerogative la narrazione dell’insuperabile classico La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj, tutt’oggi rappresentativo del modo in cui l’uomo contemporaneo affronta la malattia e il destino di morte.
Sono soprattutto i progressi tecnologici e scientifici, il processo di secolarizzazione e le trasformazioni politico-economiche a cui si è sottoposto l’Occidente ad aver determinato queste radicali metamorfosi, le quali hanno favorito l’imporsi di quella che l’antropologo Stefano Boni definisce “schermatura tecnologica”: vale a dire, l’insieme delle “membrane protettive” che separano progressivamente l’essere umano dalle debolezze della propria biologia, liberando il corpo “dalla necessità di confrontarsi con la naturalità circostante, permettendo la soppressione di attività che richiedevano un’interazione sensoriale olistica e complessa, spesso faticosa e fastidiosa” (Homo Comfort. Il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze, Elèuthera, 2014, p. 98). Han si muove precisamente in questa direzione, attribuendo al capitalismo contemporaneo la colpa del rifiuto generale del dolore. Il neoliberalismo pretende la massima e continua performatività da esseri umani divenuti robotici, privi di pensiero e di vita: essi devono formare, nel loro insieme, una moltitudine di “articoli indeterminati” (Anders docet), il cui livellamento razionale e il cui comportamento programmatico sono finalizzati a una prestazione lavorativa priva di debolezze, di indecisioni e di fragilità.
Non è un caso per Han che siano sempre più esosi gli investimenti economici nel campo dell’intelligenza artificiale, la quale manca proprio di vita e, quindi, di pensiero: “solo la vita che vive, che è capace di provare dolore riesce a pensare” (p. 54). Il filosofo sudcoreano stabilisce un’equivalenza totale tra il dolore e la realtà tout court, così da evidenziare l’artificialità esistenziale che caratterizza l’attuale epoca storica: il dolore “sortisce un effetto reale. Noi percepiamo la realtà soprattutto a partire dalla resistenza, che provoca dolore. L’anestesia permanente nella società palliativa derealizza il mondo” (p. 44). Questa derealizzazione si traduce, sul piano individuale, nella difficoltà dell’attuazione dei processi di formazione e di crescita quando il singolo individuo cerca strenuamente di evitare ogni tipo di sofferenza. A proposito, mi torna alla mente il ragionamento svolto da Konrad Lorenz, in Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (1973), quando afferma la positiva dialettica tra lo stimolo che genera un condizionamento, il quale ci spinge a ripetere un comportamento precedente, e lo stimolo che produce un decondizionamento, il quale ci spinge invece a non ripeterlo.
Il primo tipo di stimolo permette l’insorgenza di uno stato di piacere, mentre il secondo tipo di stimolo lo sviluppo di uno stato di dolore. Lorenz è convinto che la combinazione dei due tipi di stimolo, dunque la combinazione tra piacere e dolore, renda efficace il processo di apprendimento e di crescita. Ad esempio, il dolore cagionato da una malattia rende possibile la consapevolezza a posteriori della condizione di salute, una condizione praticamente ignorata in assenza della malattia. Tale consapevolezza porta alla luce le prerogative fondamentali della condizione di salute, dunque permette una maggiore conoscenza della propria organicità. Più volte è accaduto che l’esistenza di un meccanismo fisiologico primario, ma in una posizione defilata all’interno dell’organismo, sia stato riconosciuto per la sua vitale importanza conseguentemente al danneggiamento arrecatogli da una malattia.
Ancora, gli stimoli incrociati di piacere e dolore svolgono il fondamentale compito di soppesare il prezzo richiesto in rapporto al guadagno previsto: più cose ho a disposizione e minore sarà lo sforzo che impiegherò per ottenerne delle altre. Lorenz è convinto, a proposito, che il dolore sia un elemento imprescindibile per ogni individuo mortale nell’ottica del conseguimento di quel piacere che ne garantisce la sussistenza e che lo fa pedagogicamente crescere. Tentando invece di espungere il dolore dalla nostra società, rischiamo una vita piatta e banale, condizionata dall’abitudine e dall’inerzia, il cui risultato ultimo è l’apatia totale, dunque la mancanza di piacere: «l’intolleranza al dolore, fenomeno sempre più diffuso ai giorni nostri – spiega Lorenz – trasforma i naturali alti e bassi della vita umana in una pianura artificiale, le onde grandiose del mare tempestoso in vibrazioni appena percettibili, le luci e le ombre in un grigiore uniforme” (p. 60).
Han è perfettamente d’accordo con Lorenz, anche se i principali punti di riferimento del suo pamphlet sono Jünger, Heidegger e Nietzsche. “Il dolore è vita […] Senza dolore non è possibile alcuna conoscenza capace di rompere radicalmente col passato” (p. 53). Egli, in parallelo alla critica nei confronti del neoliberalismo e dell’intelligenza artificiale, prende di mira la sempre più radicata scientificizzazione della natura umana, il cui punto di arrivo più estremo è il pensiero transumanista, intento a creare un’umanità futura senza alcun tipo di negatività e totalmente artificializzata. Via il dolore fisico, via il dolore psichico, via la morte, addirittura via la noia. L’ultimo capoverso del libro riassume nel miglior modo possibile il pensiero di Han riguardo alle conseguenze di questa filosofia transumanista, volta a rendere reale la distopia descritta da Ray Bradbury in Fahrenheit 451: “La vita priva di dolore e munita di costante felicità non sarà più una vita umana. La vita che perseguita e scaccia la propria negatività elimina sé stessa. La morte e il dolore sono fatti l’uno per l’altra. Nel dolore, la morte viene anticipata. Chi vuole sconfiggere ogni dolore dovrà anche abolire la morte. Ma una vita senza morte né dolore non è umana, bensì non morta. L’essere umano si fa fuori per sopravvivere. Potrà forse raggiungere l’immortalità, ma al prezzo della vita” (p. 79).
Ora, è assolutamente convincente la riflessione generale del libro riguardo ai pericoli che derivano dal desiderio di abolire il dolore, desiderio strettamente connesso al problema della rimozione della morte. Han porta alla luce alcune limpide problematicità proprie di una società che pretende dall’uomo solo felicità e positività, affinché sia più performante e produttivo. I problemi sorgono là dove il filosofo reitera un aspetto che – da sempre – contraddistingue le sue teorie e il suo modo di argomentare: la banalizzazione della complessità del reale, conseguenza prima di un’interpretazione del mondo che bandisce i chiaroscuri. Tutto è bianco o è nero per Han. Le conseguenze non possono che essere molteplici.
In primo luogo, la convinzione che la rivoluzione digitale svolga un ruolo basilare per il nostro rifiuto del dolore, rendendoci schiavi del narcisismo e del facile like da social media, non tiene in alcun modo conto di tutti quegli studi di natura filosofica, sociologica, antropologica e psicologica che, invece, evidenziano la positività della Rete per superare proprio la rimozione socio-culturale del dolore e della morte. I Cancer Blogger, il Death Positive Movement, le implicazioni dei funerali in streaming e delle rappresentazioni online dei morti: questi sono alcuni dei tanti temi che, da diversi anni, vengono affrontati all’interno del campo interdisciplinare della Digital Death, il quale porta alla luce inediti comportamenti umani volti ad affrontare esplicitamente – dunque a non eludere – il negativo che definisce la nostra esistenza (tra i tanti studiosi, mi limito a segnalare le profonde riflessioni di Margaret Gibson e i lavori splendidi di Caitlin Doughty, gli studi filosofici di Eric Steinhart e di Patrick Stokes, nonché le attività psicologiche di Elaine Kasket).
In secondo luogo, qualsivoglia riflessione sulla farmacologizzazione del dolore fisico e di quello psichico nella società contemporanea non può esimersi dal tener conto di una serie di questioni che evidenziano l’estrema complessità dell’oggetto tematico affrontato: per esempio, l’importanza delle innovazioni tecnologiche per sopperire alle menomazioni fisiche, il ruolo benefico delle cure palliative negli ultimi periodi della propria vita, le molteplici discussioni riguardanti la dialettica tutt’altro che chiara tra la depressione e la malinconia, i contrasti tra l’elaborazione del lutto di stampo freudiano e la teoria dei Continuing Bonds, il ruolo sempre più importante dell’etnopsichiatria all’interno di una realtà quotidiana multiculturale, la contrapposizione tra una psichiatria di stampo riduzionistico e una di stampo prevalentemente fenomenologico, ecc. Han preferisce stare in superficie, facendo un discorso generale che ha – come già detto – una evidente plausibilità ma che rimane alla fine un po’ limitato.
In terzo luogo, la lettura delle ottanta pagine del libro porta spesso il lettore ad avvicinare pericolosamente il ragionamento di Han a una forma di “dolorismo” francamente discutibile.
Per usare le parole del medico palliativista Luciano Orsi, il dolorismo consiste in “quella concezione teorica che valorizza la sofferenza psico-fisica e, quindi, vede con diffidenza o addirittura scoraggia o vieta l’uso di analgesici per la sofferenza fisica o il ricorso al supporto psicologico per quella psichica. A seconda delle visioni religiose o anche laiche, questa valorizzazione viene declinata con formule diversificate ma sinteticamente riassumibili in un nucleo concettuale che concepisce la sofferenza come un mezzo di elevazione spirituale, un canale di comunicazione privilegiata con la divinità, una via per conoscere meglio se stessi…” (P. Di Piazza, V. di Piazza, L. Orsi, Per un dolore umano. La sofferenza considerata da un punto di vista etico, medico e spirituale, nuovadimensione, 2020, pp. 47-48). Questo tipo di atteggiamenti, che riassumono il dolorismo, è ricorrente nel testo di Han, soprattutto quando afferma più volte che “il dolore purifica, emana un effetto catartico” (p. 8). L’impressione che se ne ricava è la seguente: la possibilità, secondo il filosofo, di sacrificare l’uso degli analgesici in presenza di sofferenza fisica per recuperare il valore simbolico, purificante e stimolante del dolore. Sacrificio certamente più affine a una concezione religiosa della realtà che a una riflessione di natura filosofica. E, personalmente, non colgo l’attinenza tra una sensata riflessione sul riconoscimento del ruolo del dolore nella vita umana e il rifiuto – per esempio – di un antidolorifico dopo l’estrazione di un dente o di una sedazione palliativa quando una malattia tumorale ci sta conducendo alla morte.
Infine, in quarto luogo, sono particolarmente problematiche le parti del libro dedicate alla pandemia da Covid-19. In linea con il pensiero di Giorgio Agamben, il filosofo sudcoreano sostiene che il virus ha dimostrato una volta per tutte che la democrazia palliativa è una società della mera sopravvivenza: “il virus fa breccia nella zona di benessere palliativa e la trasforma in una quarantena in cui la vita s’irrigidisce diventando mera sopravvivenza” (p. 22). Egli aggiunge poco dopo: “nel nome della sopravvivenza sacrifichiamo volentieri tutto ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta. Dinanzi alla pandemia, anche la radicale limitazione dei diritti fondamentali viene accettata senza discussioni. Senza opporre resistenza ci adeguiamo allo stato di eccezione che riduce la vita a nuda vita. Sottoposti allo stato di eccezione virale, ci rinchiudiamo volontariamente in quarantena” (p. 23). Le pagine successive estremizzano queste affermazioni, evidenziando lo stupore del filosofo dinanzi al fatto che anche i sacerdoti indossano la mascherina e mantengono il distanziamento sociale.
Leggendo il bel libro di Frank M. Snowden Storia delle epidemie. Dalla morte nera al Covid-19 (LEG edizioni, 2020), si può notare limpidamente come non sia prerogativa della società odierna il valore della sopravvivenza, come dimostrano le scelte adottate dalle varie autorità, nel corso della storia, in presenza di pestilenze e pandemie. Conferma di ciò si trova anche nelle riflessioni filosofiche di Elias Canetti in Massa e potere, quando il pensatore, affrontando il tema della peste, descrive i sacrifici e i comportamenti a tratti feroci adottati dai cittadini nella speranza di sopravvivere al contagio. Esempi simili sono innumerevoli e fondamentali per capire il presente, a dimostrazione dell’importanza assoluta di quei chiaroscuri concettuali che, se Han smettesse di ignorarli, renderebbero – senza dubbio – ancora più grande la gratitudine espressa da Der Spiegel nei confronti di un pensatore tanto abile a portare alla luce le criticità dello spazio pubblico in cui viviamo.