Carla Accardi, o dell'antipittura

4 Maggio 2024

Un piccolo tavolino tondo su cui sono poggiati pochi barattolini di metallo dei colori e uno grande di vetro per l’esiguo numero di pennelli. Così ci appare nel video di Teche Rai, all’interno della sua casa-studio inondata dalla luce delle grandi finestre. Dopo aver abitato per un periodo in via Masolino da Panicale, Carla Accardi si trasferisce all’ultimo piano di un palazzo di via del Babuino 164 (numero civico importante per alcuni successivi sviluppi biografici che si vedranno in seguito). Capelli corti, con un semplice, quasi austero, golfino blu con bottoni madreperlacei e l’immancabile smalto rosso, steso sulle unghie delle mani ben curate, Carla, al secolo Carolina, Accardi è intenta a dipingere. Stavolta, non seduta sul pavimento, ma in piedi, con la tela, sempre orizzontale, poggiata sul piano di un tavolo. Postura di pollockiana evocazione, certo, ma che, altrettanto indiscutibilmente, dichiara la sua posizione di “antipittura”, di una negazione che parte dalle fondamenta, dal rifiuto di ciò che, per antonomasia, rappresenta la pittura: il cavalletto. Ma la sua opposizione non rinnega la tradizione pittorica, bensì solamente il linguaggio, che non ha ancora accolto quelle innovazioni già largamente diffuse in Europa come negli Stati Uniti.

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Verde ble, 1949, olio su tela, cm 60 x 80, Collezione privata Ca.Sa.

Una pittura, quella tradizionale, figurativa, che, per Accardi, tiene ancora fortemente conto delle istanze patriarcali, di quell’iconografia fissata dall’universo maschile. Contro questi canoni, risponde con una pittura che rinnega il figurativo, le sfumature, con toni a contrasto, adottando quella pratica che l’ha non solo contraddistinta, ma resa celebre: il segno astratto. La passione per la pittura affonda le sue radici già in tenera età, si manifesta sin da bambina. L’artista racconta, infatti, che, prima di recarsi a scuola, usciva tutti i giorni alle sette del mattino per andare a disegnare, realizzando ritratti a parenti e amici. Supportata e assecondata dal padre, che amava molto il suo talento, dopo gli studi classici, intraprese quelli dell’Accademia di Belle Arti. Dapprima a Palermo, per poi andare a Firenze. Ma, a causa di un’atmosfera culturale per lei poco stimolante, perché ancora fortemente influenzata da Morandi e Rosai, quando, invece, era già “interessata a Matisse, a Picasso, agli artisti dell’avanguardia europea”, su suggerimento di Antonio Sanfilippo, si trasferì nella Capitale “ché a Roma ci sono degli artisti che stanno facendo una situazione molto interessante”.

Conosciuto qualche tempo prima (1944) proprio a Palermo e rincontrato a Firenze, sposerà Antonio Sanfilippo nel settembre del 1949. Arrivò, così, a Roma nel 1946, dove, ad eccezione di brevi parentesi a Parigi e in Marocco, visse per l’intero arco della sua vita, fino alla sua scomparsa nel 2014. E, a Roma, trovò effettivamente quel contesto culturale che cercava, tanto che, già dal primo giorno, incontrò Pietro Consagra (amico di Sanfilippo e compagno di Carla Lonzi) e Giulio Turcato, “con i quali iniziammo a fare delle riunioni per formare questo Gruppo, che chiamammo Forma, di cui facevano parte anche Ugo Attardi, Piero Dorazio, Mino Guerrini e Achille Perilli” (marzo 1947). La prima frase del manifesto del gruppo recitava: "Ci proclamiamo formalisti e marxisti, convinti che i termini marxismo e formalismo non siano inconciliabili", e continuava affermando che “la forma è mezzo e fine. il quadro deve poter servire anche come complemento decorativo di una parete nuda, la scultura anche come arredamento di una stanza; il fine dell'opera d'arte è l'utilità, la bellezza armoniosa”.

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Arciere su bianco, 1955,tempera alla caseina su tela, cm 73 x 116, Collezione Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT - in comodato presso la GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, Su concessione della Fondazione Torino Musei, Foto Paolo Robino, 2003.

Si andavano, dunque, ad inserire all’interno di quel dibattito molto acceso sull’arte e sulla difesa della libertà degli artisti, portato avanti dalle colonne di “Il Politecnico” (che riprende la pubblicazione nel settembre del ‘45 sotto Giulio Einaudi con la direzione di Elio Vittorini). In una Roma dove era molto attiva l’Art Club – associazione artistica internazionale, guidata da Joseph Jarema ed Enrico Prampolini, nata nel ’45 in quella via Margutta che sarebbe diventata la strada degli artisti, per poi trovare il proprio cuore nella Galleria San Marco di via del Babuino 61 –, che, tra i principali intenti, aveva quello del confronto di generazioni, dell'apertura internazionale, dell'inclusione di correnti. Immediatamente, intorno al gruppo, si creò grande interesse, perché le posizioni erano radicali, tenendo pure conto del fatto che, per circa vent’anni, in città, l’avanguardia era stata la Scuola Romana, mentre “noi saltavamo proprio il fosso”, lavorando ognuno alla ricerca di un proprio stile. Nei grandi capitoli che segnano l’esistenza di Carla Accardi c’è stata un’unica grande costante: la totale adesione della sua vita all’arte.

Una vita che, seppur si sia staccata da quell’impegno politico militante che l’ha vista protagonista di diverse iniziative, è stata sempre l’espressione di una sua chiara posizione e risposta politica. A partire proprio dal suo forte contributo per l’affermazione dell’Astrattismo e dell’Informale nel nostro Paese. Dagli esordi (come in Natura morta, 1946, olio su tela e Composizioni e Scomposizioni con prismi cromaticamente vivi), dove risente della lezione di Picasso e predomina il colore (quello dei Fauves), ben presto inizia a realizzare i suoi primi disegni e quadri bianco su nero (1954 – anno in cui avviene anche un incontro fondamentale per l’artista: la conoscenza di Michel Tapié, che le apre le porte delle gallerie parigine, in particolare con la galleria Stadler). Una tappa, questa, che è fondamentale, perché, per Carla Accardi, segna un netto taglio col passato.

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Assedio rosso n. 3, 1956, tempera alla caseina e smalto su tela, cm 97 x 162, Collezione privata, Firenze. Courtesy Tornabuoni Arte.

Fasi che, con uno svolgimento pedissequamente cronologico, si possono seguire nelle circa cento opere raccolte nella grande mostra antologica, aperta al pubblico fino al 9 giugno 2024, nelle sale del piano nobile del Palazzo delle Esposizioni di Roma, curata da Daniela Lancioni e Paola Bonani. Con il grande proposito di celebrare il centenario della nascita, le opere esposte ricoprono i sessantotto anni della sua attività artistica. Nata, infatti, nel 1924 a Trapani, fin dalla prima sala, si può seguire la sua intensa e ricca biografia nello splendido e originale wall dating (che di suo è un piccolo saggio) dove lo scandire delle date è arricchito e interrotto dall’inserimento di documenti, anche fotografici, attestanti passaggi e momenti salienti, a partire proprio dai suoi primi tentativi artistici con l’Autoritratto diciottenne, realizzato a matita e carboncino su carta nel ‘42, a cui fa da contraltare l’Autoritratto a olio su tela del ’46. Sin da questi due lavori, si rintracciano immediatamente alcuni elementi legati sia alla sua biografia che alla sua attività artistica.

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Autoritratto, 1946, olio su tela, cm 31 x 23, Archivio Accardi Sanfilippo.

Oltre alla già accennata precoce passione, dall’aneddotica sappiamo che il padre, seppur non la abbia ostacolata, diceva che non si era mai vista una Raffaello donna. E lei risponde con questi due autoritratti, dove l’impianto è totalmente raffaellesco. In tutti i modi, in Carla Accardi è talmente stretta la correlazione vita/arte, che ripercorrere la sua biografia equivale a seguire anche un importante spaccato sociale della storia dell’Italia di quegli anni. Perché, oltre ad essere tra i fondatori di Forma e, quindi, ad aver contribuito all’affermazione nella Penisola dell’Astrattismo prima e dell’Informale poi, insieme a Carla Lonzi e ad Elvira Banotti, forma Rivolta Femminile, uno dei primi gruppi di sole donne femministe italiane nato dai gruppi di autocoscienza, sancito dal Manifesto di Rivolta Femminile (luglio 1970), che tappezzò i muri della Capitale e la cui attività venne divulgata attraverso gli scritti pubblicati dalla casa editrice Scritti di Rivolta Femminile libretti verdi, fondata a Milano (non a caso i primi due libretti ad essere pubblicati furono Sputiamo su Hegel – di appena trentasette pagine, al costo di Lire 300 – e La donna clitoridea e la donna vaginale – sessantatré pagine al costo di Lire 450 – di Carla Lonzi). E l’indirizzo della sede di Rivolta Femminile qual è? Proprio quel via del Babuino 164, nella casa dell’Accardi.

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Grande rettangolo grigio, 1960, tempera alla caseina su tela, dittico, cm 204 x 336, Collezione privata, Foto ©Roberto Marossi by SIAE 2024.

Proprio uno di questi libretti verdi, Superiore e Inferiore (1972), centosettantadue pagine di una raccolta di registrazioni effettuate da Carla Accardi con alcune ragazzine delle scuole medie inferiori sul comportamento discriminante degli adulti nei loro confronti di donne, le costò la sospensione definitiva dall’insegnamento presso la scuola media Papini (15 luglio 1971) per aver discusso di sessualità in classe. Un sodalizio, quello tra Lonzi e Accardi, che dura quasi un decennio e che arriva alla rottura proprio per screzi caratteriali perché “(Carla) in quanto artista, io in quanto coscienza di un’identità ‘diversa’” (Carla Lonzi, Diario), un’amicizia che sembra essere stata drasticamente interrotta con un telegramma dell’Accardi (8 febbraio 1973), per queste diverse posizioni, perché per la Lonzi era inconciliabile la militanza politica con quella artistica. Opinione assolutamente non condivisa dalla Accardi, convinta, invece, che si potessero incarnare contemporaneamente le due anime.

Difatti, nel 1976, insieme a un gruppo di donne, tra cui Eva Menzio e Suzanne Santoro, fonda la Cooperativa di via Beato Angelico 18, con la finalità di organizzare mostre di artiste donne e discutere così su cosa volesse dire essere donna nel mondo dell’arte. Dopo quella inaugurale Aurora di Artemisia Gentileschi (8 aprile 1976), che ebbe lo straordinario merito di far conoscere al grande pubblico la storia allora poco conosciuta di Artemisia Gentileschi, fu allestita la personale proprio di Carla Accardi, Origine (25 maggio 1976), titolo della mostra, ma anche dell’opera riallestita in una delle sale delle Palazzo delle Esposizioni. Seppure non siano state suddivise in sezioni, le opere approntate nelle sale del pian terreno, possono essere raggruppate in macroaree: Esordi e la pittura in bianco e nero (1946/1960), L’esplosione del colore e gli ambienti (1963/1971), Origine, La sala nella Biennale del ’64 e gli anni Settanta, La joie de vivre degli anni Ottanta e La Biennale di Venezia del 1988, La pittura degli anni Novanta e Duemila, con i grandi dittici e trittici. Vedendo così riunite un numero cospicuo di opere, immediatamente si colgono quegli aspetti peculiari della sua attività artistica e, soprattutto, della sua continua e costante ricerca.

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A Gent abbiamo aperto una finestra, 1971-1986, vernice su sicofoil e telaio di legno, cm 181 x 147 x 47, Collezione S.M.A.K., Stedelijk Museum voor Actuele Kunst, Gent.

A partire dai materiali come dalle tecniche. La curiosità verso i nuovi materiali (che ha caratterizzato tutta una generazione: basti pensare, ad esempio, all’uso del polistirolo da parte di Tomaso Binga), l’ha portata, dal 1965, a un uso caratteristico e non consueto del sicofoil. Un materiale che le ha permesso di introdurre nella pittura non solo la lucentezza, ma anche la trasparenza, un ulteriore sfondamento del piano pittorico (esasperando il taglio di Fontana o il riflesso di Pistoletto). È, altresì, possibile constatare la “scrittura espositiva” dell’artista, perché qui riproposti alcuni allestimenti pensati dalla stessa Accardi. Come anche il ritmo, la vitalità del suo segno, che non è mai automatismo, e oscilla dal geometrico all’organico, e che, probabilmente, risente delle reminiscenze calligrafiche arabesche. Un ritmo fatto dal pulsare della luce, dai colori fluorescenti (spesso ottenuti dalla tempera alla caseina), che, in una forma intima e personale, indicano il contatto con la vita e il suo incessante fluire.

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Animale immaginario 1, 1987, vinilico su tela, dittico, cm 220 x 320, Collezione privata, Foto © Roberto Marossi by SIAE 2024.

Quella vita fatta anche di relazioni, di amicizie, che non tenevano mai conto dell’età bensì delle affinità, come riccamente confermato nella collezione di opere dell’Accardi, formata dai lavori di artisti a lei cari (da Francesco Impellizzeri – storico assistente di Accardi, molto prezioso per questa mostra per la sua conoscenza diretta di fatti a dell’archivio – a Luigi Ontani – che ha lasciato il suo noto confetto d’oro vicino al suo lavoro – ; da Giuseppe Salvatori a Getulio Alviani, Marco Tirelli, Alfredo Pirri, Paola Pivi, Franz West, Lucio Fontana, per citarne alcuni) esposti come un nastro, all’interno di teche di vetro, per ripetere la sequenza che l’artista aveva in casa (come attestato da una foto esposta). È altresì possibile ammirare da vicino la Triplice Tenda, concessa dal Pompidou dopo estenuanti contrattazioni, che, seppur ricorda le tende del Marocco, rappresenta per Accardi un modo diverso di vivere en plein air, un vivere spirituale, ridotto all’essenziale, una sorta di liberazione, rispetto al concetto di casa tradizionale. Dopo questa parentesi, sente il bisogno di una nuova concretezza. Inizia, infatti, ad usare la tela grezza per dittici e trittici di grandi dimensioni, utilizzando il vinilico. Un’esposizione che racchiude tante mostre, quante sono state le anime dell’Accardi, dando una diversa sostanza al grande “teatro delle Mostre”. 

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Imbucare i misteri, 2014, vinilico su tela, cm 130 x 180, Collezione privata.

Carla Accardi, Roma, Palazzo delle Esposizioni
fino al 9 giugno 2024

In copertina, Triplice tenda, 1969-1971, vernice su sicofoil, telaio in plexiglass, altezza cm 255, Ø cm 438, Centre Pompidou, Parigi, Musée national d'art moderne / Centre de création industrielle, Acquisizione 2005 © Centre Pompidou / Musée national d'art moderne / Centre de création industrielle / RMN-Grand Palais / Georges Meguerditchian/ Dist. Foto SCALA, Firenze.

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