C’era una volta il mondo di Hegel
Il senso di questo libro è già tutto contenuto nel titolo e nella doppia natura del suo genitivo.
“Il mondo di Hegel” è anzitutto il tempo storico in cui la vicenda esistenziale e intellettuale del filosofo di Stoccarda ha preso avvio e si è poi sviluppata, ma è anche la sua interpretazione del mondo e dunque la relazione di conoscenza che il suo pensiero ha istituito con esso. Per riprendere ed estendere la portata semantica del titolo del libro di Kaube si potrebbe dire che l’ambizione critica che anima questa ponderosa ricerca, in cui si scorgono in filigrana anni di studio e di accurata consultazione delle fonti, è di fornire una sorta di ‘opera mondo’ della critica a Hegel. Quasi che nel ripercorrerne le tappe dell’esistenza si liberasse un’intonazione epica, unita ad una visione d’insieme che presenta quegli anni e l’intreccio di rapporti che l’ha animato, come il fondamento più solido del pensiero della Modernità.
Lo sguardo micrologico di Kaube, filosofo e condirettore della Frankfurter Allgemeine Zeitung, ricostruisce minutamente gli ‘anni di apprendistato’ del pensatore svevo – 1788-1793 – che si è formato in dialogo con gli amici dello Stift di Tübingen, Schelling e Hölderlin, anch’essi impegnati nell’elaborazione di un pensiero che andasse oltre al criticismo kantiano e problematizzasse l’idea di limite della conoscenza su cui si era edificato l’impianto gnoseologico del filosofo di Königsberg.
Non a caso, scrive l’autore, l’immagine che meglio rappresenta le aspirazioni filosofiche dell’idealismo tedesco è il volo della mongolfiera, che si librò nell’aria la prima volta a Lione nel 1783. Anche per i giovani filosofi di Tübingen l’obiettivo sarà di “elevarsi a un’altezza che consente di osservare il mondo da una prospettiva fino a quel momento ignota, vale a dire come un organismo unitario formato da parti che sono connesse l’una all’altra in un modo dotato di senso, come qualcosa che è degno di ammirazione, frutto del lavoro di intere epoche storiche…”.
Il pallone aerostatico dei fratelli Montgolfier diventa dunque l’emblema di un’intenzione filosofica all’insegna della consapevolezza: in primis la coscienza di sé come condizione di un sapere del mondo che ne supera gli orizzonti ristretti, consentendo di oltrepassare i limiti dell’esperienza.
La seconda vicenda epocale che segnerà gli anni di formazione di Hegel e dei suoi sodali è lo sconvolgimento rivoluzionario che ha come teatro la Francia e che lascerà tracce profonde e decisive nella mente dei giovani studenti di teologia del seminario di Tübingen.
Qui Kaube dà una spiegazione assai persuasiva quando afferma che il punto nodale che stava a cuore ai tre – Hegel, Hölderlin e Schelling – era “un concetto evoluto di libertà”, tale da consentire l’unione di razionalità e moralità pubblica, e di intendere il pensiero come una forza attiva calata nella concretezza della storia, un’unione di pensiero e sentimento.
L’immagine ideale era quella della polis greca, un “modello in parte storico e in parte mitico”, un connubio tra moralità e ragione che Hegel definì in un appunto giovanile, in calce a una sua traduzione dell’Antigone di Sofocle, come “amorosamente animata dal caldo soffio dei sentimenti”.
L’immagine di Hegel che qui emerge è quella di uno studioso determinato a realizzare le sue aspirazioni di ricerca, ma nondimeno una figura tormentata. Il confronto che lo stimola e lo assilla è con la genialità vulcanica di Schelling, autentico enfant prodige di cinque anni più giovane e già in grado di tracciare le coordinate di un nuovo sistema filosofico e di esporle nei suoi corsi a Jena dove nel 1798, a soli ventitré anni, viene nominato professore straordinario di filosofia, grazie all’interessamento di Goethe.
Hegel sarà anch’egli chiamato all’Università di Jena nel 1801 come professore di filosofia dopo aver svolto per alcuni anni la mansione di precettore privato a Berna e poi a Francoforte.
Di lui furono subito apprezzate la genialità e la profondità culturale, sebbene fosse tutt’altro che facile seguire la complessità delle sue lezioni.
Goethe, che lo conobbe in occasioni conviviali a Weimar, lo descrive così in una lettera a Schiller: “A proposito di Hegel mi è sorto questo pensiero: se non gli si potesse procurare un grande beneficio insegnandogli la tecnica retorica. È un uomo eccellente, ma ci sono molte cose che ostacolano le sue affermazioni”.
Eppure quella dizione aggrovigliata e indifferente alle regole della retorica riesce a penetrare nelle teste dei suoi allievi, anzi ne fa rapidamente degli adepti che riconoscono nelle sue parole l’assoluta novità rispetto alle vulgate filosofiche correnti. La grandezza di Hegel sta proprio nella radicalità senza compromessi del suo pensiero, quella che gli fa preferire la scienza all’intuizione, il ragionamento rispetto alla doxa. Se i romantici del Circolo di Jena, pervasi di misticismo estetico, ricercano una nuova mitologia da contrapporre a quella antica, Hegel risponde con sarcasmo che “il bello, il santo, l’eterno, la religione e l’amore sono l’esca a cui si ricorre per suscitare la voglia di abboccare; a costituire il sostegno della ricchezza della sostanza e permetterne la diffusione dovrebbero essere non il concetto, ma l’estasi; non la necessità della cosa, che procede freddamente, ma i fermenti dell’entusiasmo.” (p.153)
Alla “vuota profondità” di chi rinuncia all’intelletto, Hegel contrappone il lento progredire della logica. I concetti richiedono di essere elaborati, non si possono sostituire con un’intuizione improvvisa e illuminante. La luce che ne deriva è destinata a spegnersi subito e a lasciare lo spettatore nell’oscurità della sua dolorosa ignoranza, nella coscienza della morte da cui disperatamente vuole liberarsi.
In uno degli appunti del periodo di Jena, risalente agli anni in cui prendeva corpo la Fenomenologia dello spirito (1807), Hegel scrive: “L’uomo è questa notte, questo puro nulla, che tutto racchiude nella sua semplicità – una ricchezza senza fine di innumerevoli rappresentazioni e immagini delle quali nessuna gli sta di fronte o che non sono in quanto presenti. Ciò che qui esiste è la notte, l’interno della natura – un puro Sé, in fantasmagoriche rappresentazioni tutt’intorno è notte, improvvisamente balza fuori qui una testa insanguinata, là un’altra figura bianca, e altrettanto improvvisamente scompaiono. Questa notte si vede quando si fissa negli occhi un uomo – si penetra in una notte, che diviene spaventosa; qui ad ognuno sta sospesa di contro la notte del mondo”.
L’insistenza ossessiva sulla dimensione notturna dell’uomo manifesta il lato sofferto, quasi tragico della ricerca di Hegel: la libertà non è un gesto poetico e nemmeno una hybris improvvisa della volontà di conoscere ma il risultato di una lunga fatica, di un lungo cammino che attraversa il tempo fin dai primordi dell’umanità. Ed è certamente un merito del libro di Kaube l’aver individuato questa tensione che sottende il grande disegno sistematico della Fenomenologia dello spirito e la sua ampia e solida narrazione.
L’autore ci ricorda che le ultime pagine dell’opera furono scritte quando nell’ottobre del 1806 le truppe napoleoniche stavano entrando vittoriose a Jena mettendola a ferro e fuoco. “Jena è un lazzaretto: nel novembre del 1806 sono ricoverate all’ospizio 1200 persone, su una popolazione che non raggiunge i cinquemila abitanti. Alla fine Hegel non vive neanche più a casa sua, bensì presso i Frommann…”.
Le sollecitazioni, anche drammatiche come si è visto, della storia contemporanea fanno da contrappunto a una visione della storia universale che si presenta con ampie campate epocali in cui si oggettiva la ragione, ossia il senso ultimo che governa la progressione del tempo. Una ragione mai astratta ma sempre colta nella sua dimensione materiale fin dentro nei meandri della storia, nelle sue istituzioni, nelle diverse manifestazioni delle arti, debitrici anch’esse di una ratio superiore che le governa e le dirige. L’aspirazione di Hegel, a partire dall’esperienza jenese, è a una sistemazione definitiva dell’idea di razionalità che governa il mondo pur nella caoticità infinita delle sue manifestazioni apparenti. L’obiettivo della sua ricerca sarà sempre più una scienza del pensiero intesa come un “accesso motivato al mondo e alla sua «logica», intesa nel senso del suo funzionamento sensato”.
La biografia di Kaube ha l’ambizione di mostrarci il progredire della filosofia hegeliana entrando nel vivo della sua elaborazione, glossando i passaggi più importanti del suo argomentare. A queste parti più analitiche, talvolta un po’ macchinose e criptiche, Kaube alterna passaggi più discorsivi che ridanno fiato al lettore. Ma l’avvertenza resta in ogni caso chiara: con Hegel siamo in presenza di un pensiero tendenzialmente alieno alle facili riduzioni didascaliche. Un convincimento che impone una disciplina nell’esposizione mettendo fuori gioco le formule di comodo e che richiede ai lettori una partecipazione non dissimile da quella che Hegel stesso pretendeva dai suoi allievi. Anche a quelli del ginnasio di Norimberga a cui anticipava i contenuti della sua logica. Una sfida rivolta a ragazzi tredicenni figli della borghesia della città.
Infine, nel 1818, Hegel approda alla neonata università di Berlino. Sono anni di lenta e faticosa rinascita dopo la disfatta prussiana ad opera di Napoleone e la nuova accademia doveva essere il punto di orientamento culturale della città. Kaube illustra bene la geografia intellettuale delle maggiori università tedesche e in particolare la fisionomia di quella berlinese. “Era stata fondata nel 1809 nello spirito di Weimar, di Jena e delle riforme prussiane. Weimar l’ideale della formazione culturale e l’autorevolezza dell’antichità, Jena la filosofia idealista come rivoluzione interiore e la volontà romantica di rendere le istituzioni accessibili all’epoca contemporanea.”
Berlino rifletteva il desiderio dello stato prussiano di dotarsi di una istituzione in grado di formare una nuova classe di funzionari, la nuova classe dirigente dello stato. Non a caso la prima pubblicazione di Hegel a Berlino, che sarà anche l’ultima pubblicata in vita, saranno I lineamenti di filosofia del diritto, il cui sottotitolo recita: Diritto naturale e scienza dello stato in compendio.
Il suo celebre distico iniziale, che ha dato vita a infinite discussioni anche coeve – “ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale” – riassume la sua intera filosofia, ma si presta anche a essere sistematicamente frainteso. Kaube ci spiega con subtilitas filosofica il senso di quell’enunciato e ci mostra come Hegel avesse una predisposizione a interrompere le sue lunghe frasi con affermazioni sibilline che si prestavano ad essere memorizzate dagli allievi. Frasi che sono diventate celebri come: “Il vero è il tutto”; “la bellezza si determina mediante la parvenza sensibile dell’idea”; “i periodi felici nella storia del mondo sono pagine bianche”; “la verità dell’intenzione è l’azione”; “ciò che in generale è noto, proprio perché è noto, non è conosciuto”.
A questa nuova biografia intellettuale di Hegel va riconosciuto il merito di fornire una mappa approfondita e a tratti affascinante della cultura filosofica tedesca tra l’ultimo decennio del Settecento e i primi dell’Ottocento. Ne emerge con chiarezza il profilo di un’epoca sospesa tra il desiderio nostalgico del mondo antico e lo sguardo verso una modernità ancora enigmatica e inquietante, palesemente eversiva dell’ordine politico e culturale del passato e degli assiomi estetici che l’avevano caratterizzato per secoli.
Laddove questa illustrazione prospettica cede il passo alla minuta ermeneutica testuale e a un confronto serrato con i testi hegeliani lo stile discorsivo delle parti biografiche cede il passo a una dizione criptica, quasi si trattasse di un necessario contrappasso o di un eccesso mimetico della scrittura del suo biografato. Ma ciò non toglie nulla a una prova solida, di ampio respiro e di notevole originalità su un capitolo della cultura tedesca ed europea che a distanza di due secoli non ha ancora esaurito la sua produttività ermeneutica.