Celan e Szondi: il carteggio
Il carteggio Celan–Szondi, recentemente pubblicato da Neri Pozza con il titolo L’oro e l’oblio. Lettere 1959-1970, a cura di Christoph König con le traduzioni di Luca Guerreschi, è molto più di una relazione epistolare tra un poeta e un critico. È anche e soprattutto il riflesso di una stagione della cultura tedesca – e in una certa misura anche di quella francese – dei primi quindici anni del secondo dopoguerra. Ed è questo che lo rende interessante, grazie anche alla sapiente acribia del curatore che, in un apparato di note imponente – ma mai come in questo caso indispensabile –, ricostruisce nei minuti dettagli le vicende di cui le lettere sono talora una sintetica o cifrata testimonianza.
La prima sensazione che se ne trae è di una strana commistione di distruzione e costruzione, di radicale disincanto rispetto alle utopie della storia e insieme, paradossalmente, di febbrile costruzione di un futuro.
Si confrontano qui una delle voci più ascoltate e apprezzate tra i poeti tedeschi della generazione uscita dalla guerra con quello che poteva definirsi l’astro nascente della critica letteraria. Ebrei entrambi e profondamente segnati dalla Shoah: la famiglia di Szondi riesce in extremis, nella Budapest del ’44, a sottrarsi alla deportazione, i genitori di Celan vengono assassinati, lui si salva miracolosamente.
Erano due figure destinate a incontrarsi: non solo per la comune origine ebraica, ma per una postura ribelle rispetto alla medietà borghese della Germania del dopoguerra, che aveva rapidamente anestetizzato la colpa storica.
Il non ancora trentenne Peter Szondi, in particolare, si era distinto da subito anche nel dibattito culturale contemporaneo, sebbene gli interessi accademici lo inducessero a fruttuose e profonde letture filosofico-storiche dei generi letterari della Modernità a partire dalla ‘Goethezeit’.
La sua filologia, sia quando si rivolgeva al passato protoromantico sia quando si orientava sulla contemporaneità letteraria e accademica, non era mai concepita come un gesto asetticamente scientifico ma sempre come una militanza intellettuale caratterizzata da una visione in senso lato politica.
Non si trattava di engagement diretto ma appunto di ‘critica’ in un senso molto vicino a quello della scuola di Francoforte: critica della cultura anzitutto e critica delle istituzioni che dissimulavano le vecchie appartenenze ideologiche sotto l’apparenza della scelta democratica.
Il poeta Paul Celan era anch’egli a suo modo una figura del dissenso: alla radice del suo fare poetico era leggibile un risentimento rispetto alla maniera edulcorata con cui la poesia affrontava il male assoluto che si era consumato pochi anni prima.
Quando Adorno nel 1949, in una celebre frase, spesso fraintesa, affermò che “scrivere poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie” sottolineava il rischio di una rimozione del dramma attraverso la sua traduzione mitopoietica. L’enormità dello sterminio, la sua verità si sottrae alla parola che lo vuole dire, dinanzi ad esso si può solo tacere. Una frase che sarà corretta e precisata da Adorno stesso e non da ultimo al cospetto delle liriche di Celan.
Le composizioni ermetiche di Paul Celan, quella particolare maniera di cifrare l’orrore, il male, la barbarie attraverso schegge di memoria, oggetti che affiorano come relitti sperduti che ci interrogano con la loro presenza misteriosa, i suoni, i ritmi, le sinestesie posso essere intese come il solo modo di cogliere l’essenza di quell’orrore: il frammento, che in quanto tale nega la continuità razionale del racconto, rifiuta la linearità del tempo storico e consente solamente un accesso alla verità incerto, claudicante, costantemente interrotto. Questa scelta e la convinzione che l’accompagna di essere colui che rovescia come un guanto la pretesa salvifica della poesia può essere intesa come la risposta indiretta alla sentenza adorniana.
Il materiale raccolto in questa accurata edizione consiste di più di cento testimonianze tra lettere, telegrammi, cartoline che ci consentono di seguire, grazie anche alle numerose annotazioni, lo sviluppo di questa relazione epistolare, che costituisce uno dei momenti più interessanti dei numerosi confronti tra poeti, scrittori e critici.
Per il curatore la lettera che meglio rivela la natura di questa relazione è quella di Celan a Szondi dell’11 agosto 1961. In essa si legge:
“Lei, come me, è ebreo, e così posso qui tralasciare alcune cose e esprimere, in questo contesto, un pensiero che, Dio sa, non mi pare essere campato in aria: dai «migliori» stessi, l’ebreo – e questi non è nient’altro che una figura dell’umano, ma quantomeno una figura – viene fin troppo volentieri sublimato come soggetto e pervertito in un oggetto o «sujet»”.
Celan avvertiva come gli ebrei sopravvissuti allo sterminio apparissero agli occhi dei non ebrei, e talora anche di alcuni ebrei, come delle icone dematerializzate, quasi fossero dramatis personae, personaggi di un’atroce commedia umana e non esseri viventi.
Contro questa anestetizzazione dell’identità personale attraverso l’elevazione a icona Celan opponeva l’urto traumatico delle sue dissonanze verbali e delle sue aporie sinestetiche. Lo straniamento e l’angoscia che ne derivavano erano un antidoto alla narrazione rassicurante di chi – ed erano in molti in Germania – voleva solo voltare pagina, lasciandosi gli orrori del passato alle spalle.
Eppure, se si cercassero tracce estese di queste riflessioni nel carteggio con Szondi si rimarrebbe delusi. Celan era molto restio a parlare della sua poesia e si rivela tale anche in queste lettere. Anche Szondi, autore di alcune tra le analisi più convincenti e precise dell’opera poetica dell’amico, raramente indugiava su questioni esegetiche relative alle liriche del suo interlocutore. Questo riserbo ermeneutico era la cifra della loro relazione. Solo in una circostanza il critico uscì allo scoperto, e fu in occasione delle accuse di plagio che la vedova del poeta francese Iwan Goll, di cui Celan fu amico negli ultimi anni della sua vita nonché traduttore in tedesco, aveva rivolto all’autore di “Fuga di morte”.
Si trattò di un fatto che ebbe molta risonanza nel mondo culturale tedesco, ne scrissero i giornali, ci furono prese di posizione, alcune reticenti, altre dichiaratamente in sostegno di Celan. Szondi fu tra i primi a schierarsi in favore dell’amico e lo fece con la forza di persuasione che era connaturata alla sua raffinata critica ermeneutica.
In breve, Claire Goll, la vedova di Iwan, dichiarò in un articolo apparso su una rivista nel 1960 che Celan avrebbe scritto le poesie di “Mohn und Gedächtnis” (Papavero e memoria), pubblicate nel 1952, copiando espressioni che compaiono nel volume del marito “Erba di sogno” (1951) nonché da altre raccolte poetiche precedenti che Celan aveva tradotto in tedesco. Chi difese Celan, e Szondi fu tra i più attivi con numerosi articoli che comparvero nelle pagine culturali dei maggiori giornali tedeschi e svizzeri (in quegli anni Szondi viveva ancora a Zurigo), dimostrò che le composizioni oggetto delle accuse, poi confluite in “Papavero e memoria”, erano precedenti a quelle pubblicate dal marito.
L’inconsistenza di quella accusa si dimostrò infine in tutta la sua evidenza e Celan ne uscì nel migliore dei modi. Nello stesso anno gli fu conferito il prestigioso Büchner Preis che ne consolidava definitivamente l’importanza letteraria. Fu in quella occasione che pronunciò il discorso “Der Meridian” (Il meridiano). E tuttavia la vicenda lasciò in lui, che accusava da tempo disturbi depressivi, una traccia indelebile e negli anni successivi si resero necessari ricoveri in cliniche psichiatriche.
Szondi era un raffinato critico-filologo, un convinto assertore della critica genetica, e nella difesa dell’amico dimostrò la sua notevole abilità esegetica. Notò anche, da un confronto delle prefazioni di due edizioni differenti del volume di Goll, come ci fossero delle manipolazioni dell’ordine cronologico della redazione dei testi che erano evidentemente riconducibili a Claire Goll.
Di questo engagement in suo favore Celan serbò una profonda gratitudine all’amico, sia pure con l’understatement che lo contraddistingueva. Ciò che maggiormente lo angustiava era il non essere capito, il dover combattere per vedersi riconosciuto il diritto alla sua peculiare cifra ermetica.
Come ha scritto Christoph König nella postfazione al volume delle lettere: “il modo caparbio di utilizzare nomi, parole, figure retoriche e frasi si sostituiva a una nozione o tentava di dominarla. Quasi non furono trattate le cose che stavano loro a cuore: la poesia di Celan, ad esempio, o gli scritti di Szondi, la sua battaglia nel «’68» a Berlino per i fondamenti istituzionali e politici della sua filologia, oppure la malattia di entrambi”.
Qui è bene ricordare un’altra simmetria di questo rapporto antiempatico seppure di una straordinaria intensità: anche Szondi accusava gravi disturbi depressivi; una crisi acuta nell’autunno del 1963 gli impedì di accettare un incarico come professore ospite nel semestre invernale 1963-1964 presso la Freie Universität di Berlino.
La fine, tragicamente simmetrica anch’essa, di Celan e Szondi, a un anno di distanza l’uno dall’altro, è tristemente nota.
L’intesa profonda sotto la scorza antiretorica della loro relazione epistolare si è rivelata in un’altra occasione, in cui da parte di Celan ci fu un plauso insolitamente esplicito e convinto: si trattò della prolusione che chiudeva l’iter di abilitazione di Peter Szondi presso la Freie Universität di Berlino dal titolo: “La ricerca del tempo perduto in Walter Benjamin”. Il testo fu poi elaborato e pubblicato in un successivo momento dal suo editore Suhrkamp e oggi compare come postfazione (anche nell’edizione italiana di Einaudi) a “Infanzia berlinese” di Benjamin con il titolo “Hoffnung im Vergangenem” (Speranza nel passato).
Le parole di Celan, affidate a una dedica, furono: “A Peter Szondi, dopo la lettura della sua prolusione, con pensieri commossi, e cordiali saluti. 11.10.1961”
Evidentemente il trattamento della temporalità del filosofo berlinese, che Szondi metteva a confronto con quello della Recherche proustiana, trovava in Celan un ascolto particolarmente attento e partecipe: lo stadio ulteriore, dopo il naufragio della storia, erano i relitti affioranti nella memoria del poeta che si facevano scrittura e cifra poetica della fine del tempo.
Nel dialogo tra i due entrano altri personaggi, e si tratta spesso di amici che si ritrovavano tutti gli anni in quella oasi della felicità montana che era dai tempi di Nietzsche, e forse un po’ ancora oggi, Sils Maria in Engadina. Fra questi Theodor Adorno (la scuola di Francoforte era largamente rappresentata), i coniugi Jean e Mayotte Bollack, Jakob Taubes e numerose altre figure di spicco dell’intellettualità tedesca degli anni Sessanta.
In chiusura, una lettera da Sils da cui traspare l’affetto dell’amico per il grande poeta rumeno, di lingua tedesca, naturalizzato francese:
“Sils, 4. 8. 60
Caro signor Celan,
Sils, la pensione, il vecchio tavolo di legno in giardino, gli amici comuni (gli Adorno e i Bollack, che adesso si conoscono) – tutto ciò fa sì che io sia, nei pensieri, più spesso accanto a Lei che a Berlino, e che mi rallegri di rivederLa in autunno o in inverno a Parigi. Cordiali saluti, anche a Sua moglie e a Eric,
il Suo Peter Szondi.”
Nella convivialità montana la vicinanza empatica con il poeta si esprimeva con maggiore intensità rispetto all’intelligenza critica esercitata nella dimensione accademica.