Speciale
Matera / C’era una volta nei Sassi
Questa è la storia di come si viveva nei Sassi nei primi anni Quaranta nel Novecento: una storia vera, il cui protagonista era allora un ragazzino che adesso ha quasi 90 anni e una memoria granitica.
Preambolo
Come si presentano i Sassi (Barisano e Caveoso) agli inizi degli anni Quaranta del secolo scorso? Apparentemente come adesso: case ricavate nelle grotte o scavate nel tufo, l’una abbarbicata all’altra, collegate da viottoli e scalette, dislocate sulle due pareti dell’altopiano delle Murge che degradano verso il torrente Gravina. Un presepe a cielo aperto. Erano però senza fognature né elettricità né riscaldamento e raccoglievano oltre 15.000 persone che vivevano, se non in miseria, senza grandi mezzi: contadini, braccianti, operai, artigiani, piccoli commercianti le cui famiglie si conoscevano e, ciascuna nel proprio “vicinato” (cioè nel gruppo di case intorno alla propria), avevano rapporti di familiarità reciproca e si aiutavano nella quotidianità di quegli anni. Gli animali abitavano spesso con le persone, in condizioni igieniche a dir poco precarie, oggi inimmaginabili, e per molti arrivare alla fine del mese non era scontato. Quando sopraggiunse la guerra, le condizioni economico-sociali divennero proibitive e portarono Palmiro Togliatti, nel 1948, a marchiare i Sassi come “vergogna nazionale” e a prefigurarne lo sgombero, che divenne obbligatorio con la Legge Speciale del 1952 firmata da Alcide De Gasperi, dopo che lo statista democristiano, giunto a Matera, non trattenne le lacrime osservando gli abitanti del Barisano e del Caveoso.
Eppure i Sassi avevano una loro ricchezza. Un carico di umanità, di tradizioni, di capacità di essere solidali, di modalità espressive, di ritualità. Un groviglio irriproducibile perché consustanziale a quel vissuto e a quella forma architettonica.
Allora facciamo un salto nel tempo… Stacchiuccio (da Eustachio, patrono della città) abita in via Casale, proprio sotto la Cattedrale, in una delle zone esterne alla Civita, nel cuore del Sasso Barisano. È il secondo di sei fratelli, certo non ha una stanza per sé, privilegio allora impensabile. Si dorme tutti assieme e alla lettera, cioè su un grande letto: lui, Peppino e Vituccio vicini, Brunetta e Carmela distese ai piedi, Vittoria va dalle zie perché spazio non ce n’è più. Questa “zona notte” si trova al fondo, sulla sinistra, di un unico ambiente che costituisce una tipica casa dei Sassi. La cucina all’epoca non esisteva, c’è il focolare sul quale è adagiato il treppiede di ferro: lì, con una carrucola ancorata alla volta, si cala il grande calderone di rame dove si cuoce la minestra. La carne, come Stacchiuccio sa bene, in una famiglia numerosa come la sua si mangia solo quando è festa: il che accade poche volte l’anno, cioè a Natale, a Pasqua e alla Festa della Bruna, patrona di Matera, il 2 luglio. Il bagno consiste in un vaso da notte cilindrico di terraccotta smaltata nel quale ciascuno, con discrezione e rispetto, fa quel che deve. E poi, quando è sera, il compito ingrato di vuotare quel contenitore nel gettatoio pubblico e pulirlo con acqua e scopino, lì fuori, spetta alla mamma, che esce silenziosamente e con passo altrettanto felpato, nell’oscurità, rientra. Alle otto, del resto, si dorme già: per i contadini la giornata comincia alle tre.
La mamma, Lucia, è casalinga, l’unica nel vicinato che con la seconda elementare sa leggere e scrivere in un’epoca in cui l’analfabetismo è largamente diffuso. Si occupa della famiglia e fa sì che tutto funzioni come un orologio; si va avanti con quel che guadagna il padre Damiano, operaio edile. Le galline, altre ospiti della casa acquattate sotto il letto (che è alto oltre 60 centimetri per allontanarlo dal freddo e dall’umidità della pietra: ai più piccoli serve una sedia per salirvi), sono fonte di reddito, le uova hanno un mercato e Stacchiuccio qualche soldo lo ha racimolato dalla loro vendita al Monsignore della Cattedrale. Tutto intorno si estende il vicinato: ogni anfratto è una casa o una bottega con una serie di personaggi che compongono il quartiere, ciascuna con la propria attività.
C’è la famiglia della vacchér, che ha due mucche e vende il latte; la rivendita di sale e tabacchi di “Rosaria del sale”, c’è il barbiere, mest M ’chél, (maestro Michele), il falegname u barés (“il barese”: “u” in materano è l’articolo determinativo, sta per “il”). C’è la parrocchia di San Pietro Barisano, tutta in grotta, la cui facciata sovrapposta ricorda lo stile delle vecchie chiese coloniali dei paesi messicani, e una fontanella dove Stacchiuccio va a prendere l’acqua, uno dei suoi compiti nel corso della giornata, ovviamente dopo la scuola. Che è uno dei pochi luoghi dove si parla l’italiano, perché qui la lingua comune parlata da tutti, istruiti e non, è il dialetto. La Padre Minozzi, la scuola elementare sul piano (cioè fuori da Sassi), raccoglie la maggioranza dei bambini materani. Lui è fortunato, perché ha l’unica maestra donna della città, molto brava, Rosaria, che ha innanzitutto il difficile compito di insegnare loro a tenere in mano la matita, prima di passare al pennino da intingere nel calamaio, e a evitare di premere troppo o troppo poco sul quaderno. Rigorosamente con la mano destra, va da sé: il Duce non tollera che si faccia nulla con la sinistra. Gli alunni spendono i primi tre o quattro mesi a imparare l’alfabeto in italiano, a pronunciare correttamente le lettere e a scriverle prima su quaderni a quadretti grandi e poi a righe. Devono assimilare l’idea che ad esempio u birr è “il burro” o la post è “la pasta”, mentre la pést è “la posta”, o che taté è “papà”, maméj è “mamma” ma mammònn è “nonna”… e così via, effettivamente non è semplice. Alla fine della prima elementare non tutti sanno scrivere e leggere. In terza si sostiene il primo esame che Stacchiuccio supera con successo prima di affrontarne altri due: quello di quinta, la cosiddetta licenza, che abilita a partecipare ai concorsi pubblici statali (oggi è necessaria la terza media). E poi la prova d’ammissione, scritta e orale, per proseguire gli studi nella scuola media. Ancora lo ricorda, quel dettato pronunciato dall’insegnante senza l’indicazione della punteggiatura che andava dedotta (e inserita) dall’intonazione della voce e dalle pause. Con il sopraggiungere della guerra, anche la vita scolastica risentirà dello sconvolgimento della quotidianità: le scuole vengono occupate dalle truppe alleate e le lezioni sono a singhiozzo.
Ma torniamo al vicinato. Più avanti, in piccolissimi locali della nuova chiesa della Madonna delle virtù, c’erano il sarto, mest Lic (maestro Luca) e il calzolaio, mest Saverj (maestro Saverio), soprannominato poscia mej (“porgimi”) perché chiede sempre al garzone di porgergli tempestivamente uno per uno i chiodini che pianta nelle suole o gli attrezzi da lavoro. Nei loro negozi è tutto un fiorire di saluti, di com scém? (come andiamo?), di chi s’informa sulle ultime notizie del quartiere o prende appuntamenti. Gli uomini di solito si incontrano alla Fontana Ferdinandea, in Piazza Vittorio Veneto (sul piano), è lì che si fanno gli affari, si vendono il grano o i cavalli, si stringono accordi in un’epoca in cui non esiste il telefono. Impressionanti sono i due forni (u do forn), uno accanto all’altro sprofondati in una grotta: per questo la zona in cui si trovano – via Fiorentini, la strada principale del Barisano, all’altezza della chiesetta della Madonna dei Sette dolori, successivamente demolita – si chiama “L’inferno” (u ’mbirn): la mattina si scende e ci si trova di fronte due grandi bocche di fuoco. E, a proposito di forni…
Il pane
Due squilli di diverse trombe, alle quattro del mattino, si odono nel Sasso Barisano. Sono destinati alle donne, che li aspettano e riconoscono quello che preme a ciascuna di loro. Annunciano l’arrivo del dipendente del forno di San Gennaro e quello de “la tr’chér” (la trichera) e le padrone di casa devono affrettarsi: il suono, infatti, è il segno della chiamata dei visc ’toll, delle clienti. Di cosa si tratta, a quell’ora improba? Di un bene primario come il pane. Gli uomini in arrivo fanno il giro delle strade per prendere le ordinazioni del pane da cuocere. Tutti i giorni tranne i festivi va in scena questo rito. Le donne si affacciano dal portello di casa (una piccola apertura nella parte superiore della porta d’ingresso) e avvisano che quel mattino impasteranno il pane. Preparano il tavoliere – una tavola di legno quadrata con i bordi alti circa 15 centimetri – in cui cernono la farina di grano duro, la lavorano con il lievito e quando ottengono un composto ben compatto lo dividono in pezzi che avvolgono in lenzuola e coperte di lana e lo ripongono al caldo nel lettone. Dopo qualche ora, verso le 9, il dipendente del forno torna a fare il giro del quartiere, aiuta la donna di turno a liberare l’impasto e a sistemare i vari pezzi su una tavola lunga due metri che poi ricopre con un lenzuolo e trasporta a spalla fino al forno. La cosa si ripete per le varie case-grotta in cui è stata presa l’ordinazione.
Giunte a destinazione, le tavole ricolme di impasti vengono sistemate su sostegni infissi nel muro, seguendo l’ordine di arrivo. Le diverse clienti a loro volta si presentano al forno ciascuna con il proprio marchio di famiglia e quando giunge il loro turno chiedono al fornaio di realizzare la forma di pagnotta che desiderano: più alta con più mollica (u pizz, il pezzo) o più bassa (u squanét). Il fornaio rielabora ogni pezzo di impasto, quindi vi imprime il marchio in modo che al momento della consegna venga riconosciuto e dato alla cliente senza fare confusione. Una volta sfornato, il pane – inebriante con il suo profumo – viene rimesso sulla tavola e l’operaio lo riporta a spalla nelle varie case del Sasso Barisano. Su e giù, su e giù. Quando i pezzi non sono molti si riescono a trasportare due tavole, incrociate tra loro sulla stessa spalla, adagiate direttamente sull’omero in modo da equilibrare i pesi. Una faticaccia: l’uomo fa tanti viaggi quante sono le donne in attività. Si impastava una volta al mese, sette-otto pezzi di altrettanti chili che duravano a lungo perché il pane di grano duro è soffice. Quando diventava raffermo, si tagliava a fette e si arrostiva sul fuoco. Così era di nuovo croccante, e chi aveva la possibilità lo cospargeva d’olio e pomodori: era la fedda ross, la “fetta rossa”, cioè la bruschetta. La fama del pane di Matera, il cui sapore e la cui consistenza sono particolari e fanno concorrenza oggi al prodotto più conosciuto di Altamura, risale a questa tradizione.
Non è finita. Dal residuo di impasto si faceva u pizzaridd. Talvolta la donna, per la gioia di marito e figli, tratteneva un po’ del composto (circa un chilo) per preparare la focaccia alla chianca: condita con olio, pomodoro e origano, la portava direttamente al forno. Altre volte faceva il “ricco d’olio”, u ricc d’ uggh, un impasto schiacciato nella tortiera di rame, in cui si versa più olio, che viene condito senza pomodori e con lo zucchero. Un dolce, profumato e saporito.
Aiutati che il vicinato t’aiuta
La vita nel vicinato ha un suo equilibrio. Tutti si conoscono, quando ci sono le ricorrenze si frequentano, si invitano, si sta assieme. Soprattutto ci si aiuta, ognuno mette a disposizione il proprio sapere e la propria esperienza. Per esempio c’è la “vecchia che aggiusta le ossa”. Quando accade qualcosa di non troppo grave non si va in ospedale (che ovviamente c’è), ma da lei.
Stacchiuccio è un ragazzino esuberante e sempre in movimento. Come gli altri della sua età, vive le sue giornate all’aperto nei Sassi. Si gioca con la palla di pezza, si corre per le viuzze e per le scale, si salta da un muretto all’altro, d’estate si va alla Gravina nonostante le raccomandazioni dei “grandi” di starci lontano perché è pericoloso. Altri giochi che non siano quelli offerti dall’ambiente, non esistono.
E quindi capita spesso una sbucciatura qui, una slogatura lì. Un giorno si storce un dito, gli fa decisamente male tanto da dover andare dalla “vecchia”. La quale armeggia e manipola facendogli vedere le stelle, poi prende una fascia, una stecca artigianale, due uova sbattute e fa un impacco che diventa duro come la pietra (la cosiddetta stppèdd… una sorta di gesso ante litteram). Il dito di Stacchiuccio, in effetti, andrà a posto. E la “vecchia” alimenta la sua fama di aggiusta ossa. Un episodio rivelatore della solidarietà tra vicini è quello più grave accaduto alla sorella piccola di Stacchiuccio, Carmela. La quale, a soli due anni, a un certo punto di sera cade a gambe aperte nel braciere intorno al quale ci si riunisce per scaldarsi. Purtroppo è un tipo d’incidente sempre in agguato per i bambini piccoli, specie nelle famiglie numerose dove il controllo è difficile, per giunta in ambienti poco illuminati come dobbiamo immaginarci queste case-grotta: cadere è un attimo.
Carmela si brucia il basso ventre. Il panico, assieme alle urla della piccola, si scatena immediato. Che devo fare?, si chiede mamma Lucia. Poi l’idea. Va a bussare a casa della vacchér che già dorme da un pezzo, ma subito prende in mano la situazione e si rivolge a Stacchiuccio dicendogli ovviamente in dialetto: “Vej da Andenj e ’ addmònn c’ ten anghér u pisciatìr” (“Vai da Antonia e chiedi se ha ancora l’urina”, intendendo se non si è ancora disfatta dell’urina contenuta nell’orinale da notte). Secondo le convinzioni popolari, infatti, la pipì ha delle proprietà disinfettanti perché
ricca di ammoniaca. Stacchiuccio corre, anche se è sera e se l’orario è al limite del disturbo, spiega la situazione alla signora Antonia che per fortuna non ha ancora buttato via l’urina e… la scottatura non si infetta, Carmela si rimette. L’istinto di Lucia, la prontezza della vacchér e la disponibilità di Antonia sono stati provvidenziali.
Anche per quel che riguarda un momento delicato come il parto, il vicinato entra in azione. È considerato infatti un disdoro far nascere un bambino in ospedale: vorrebbe dire che la futura mamma è malata, debole o ha qualche problema. Il neonato deve vedere la luce a casa sua. E così all’arrivo delle doglie si preparano l’acqua bollente in una tinozza, la biancheria e una tavola (normalmente quella del letto, che si libera dal materasso) su cui viene fatta distendere la partoriente: le stanno accanto la madre, le sorelle – solo quelle maritate – e le vicine di casa più intime (inconcepibile, al tempo, la presenza del marito). Quando arriva il momento del parto vero e proprio si chiama la levatrice che estrae il piccolo, recide il cordone ombelicale e cuce.
In tempo di guerra, poi, le famiglie aspettano con ansia le lettere o le cartoline postali dei giovani partiti al fronte (le cartoline postali sono dei cartoncini beige di misure standard, con una facciata libera per scrivere dei messaggi e l’altra facciata con la veste tipica delle cartoline: sulla destra, l’ingombro per destinatario e indirizzo e, in alto, quello per l’affrancatura). Nel vicinato di Stacchiuccio è Lucia il punto di riferimento: come dicevamo sa leggere, scrivere e far di conto, dunque è il tramite di tutte le mamme (analfabete) con i figli costretti ad “andare alla guerra”.
Quando arriva il postino ci si precipita a casa sua, ci si raduna intorno al tavolo e si ascolta avidamente la sua lettura. Piccolina, il fisico minuto e scattante, i capelli raccolti, attiva, Lucia non si sottrae mai a una richiesta che è d’importanza vitale per tutte le vicine, qualunque cosa stia facendo. Un giorno si presenta N’ziét (Nunziata), tutta felice con una missiva del suo primogenito. Va detto che gli stessi soldati quasi sempre sono analfabeti e chiedono a loro volta ad altri commilitoni di scrivere per loro. Sicché Lucia comincia a leggere: “Cara motr, ti faccio sapere che mi trov appìs jund la cucìn”, al che cominciano le urla di disperazione della donna che ascolta e pensa al figlio appeso in un angolo della cucina della caserma, pensando che non ha retto alla violenza di quella vita, alla lontananza da casa, alla nostalgia degli affetti. “Figgj mi c’ha fat, ca t’hon appìs jund la cucìn” (“Figlio mio, che hai fatto, che ti hanno appeso in cucina”) ripete senza sosta, come una giaculatoria, N’ziét in lacrime. Solo dopo Lucia scoprirà che il ragazzo intendeva dire di essere stato mandato a Pisa e di essere stato assegnato ai servizi di cucina! Con grande gioia della madre e di tutto il vicinato.
Gli anni della guerra si ricordano a Matera, e in particolare nei Sassi, perché le condizioni economiche, già difficili, diventano quasi insostenibili. Gli uomini vengono chiamati a dare il loro contributo militare, il peso della gestione della quotidianità ricade interamente sulle donne. Il denaro scarseggia ancora di più, in un’economia in cui spesso il salario è in natura (si scambiano sale, olio, grano, legno). È così che Damiano, il padre di Stacchiuccio, decide di coltivare dei pomodori in un terreno lontano dai Sassi, alle porte della città, che era riuscito a ottenere da un suo conoscente. Essendo però lui lontano da casa, perché mobilitato dalle autorità e mandato in Calabria per la costruzione di opere di fortificazione contro il possibile attacco degli alleati, tocca a Stacchiuccio e fratelli occuparsene, innaffiarlo e curarlo. E un giorno lui e Peppino si salvano per miracolo dalla rappresaglia dei tedeschi, che uccidono 20 persone per vendicare l’assassinio di due loro soldati. I due ragazzini, infatti, in compagnia di un amichetto che sta percorrendo la stessa loro strada, all’ultimo momento decidono di prendere una scorciatoia per raggiungere il terreno e andare a raccogliere i pomodori. Questo li salverà: l’amico, dopo pochi metri, sarà catturato dai nazisti e portato nel palazzo della Milizia che sarà minato e fatto saltare la sera stessa assieme ad altri ostaggi. La sera le famiglie del vicinato si rifugiano nella casa vicina a quella di Stacchiuccio, una grotta particolarmente profonda, perché i tedeschi stavano cannoneggiando e mitragliando in direzione della Chiesa Madre… Matera è la prima città del Sud a sollevarsi contro gli occupanti, il 21 settembre del ’43 (Napoli lo farà una settimana dopo), stanca di violenze e soprusi all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, ben descritti da Marcello Morelli nella sua Storia di Matera: “I tedeschi qui stanziati da padroni, dopo un momentaneo smarrimento, iniziarono una serie di ruberie sia nelle botteghe sia nei negozi, come nelle campagne e nelle masserie. Automobili, gomme, orologi da polso, gioielli; e poi scarpe, borse di pelle, capi di bestiame… tutto divenne bottino per i biondi giovanottoni scorrazzanti sulle loro motociclette. In sospetto di spionaggio, uccisero pei campi inermi contadini e pastori. […] Continuavano a razziare, a minare ponti, a incendiare vagoni ferroviari”. Per la sua ribellione, Matera ha ottenuto solo il 17 novembre 2016 dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella la medaglia d’oro al valore civile. E con questo epilogo possiamo passare ad argomenti più lieti.
Usanze sociali: cibo e la “trasuta”
Nei Sassi il momento in cui la famiglia si riunisce intorno al tavolo è la sera. L’ora di pranzo, infatti, non è per tutti: se il papà è operaio e quindi non rientra a mezzogiorno, ci si arrangia con l’alimento base, il pane, aspettando appunto l’imbrunire per il pasto caldo. Che si consuma da un grande piatto, in terracotta rivestita di ceramica: seduti intorno al tavolo, ciascuno cala la propria forchetta nella zona che gli sta di fronte, senza “invadere” quella del vicino. La pasta fresca è la specialità, le donne sono velocissime nel prepararne chili: orecchiette al pomodoro, cavatelli con le cime di rapa, altre varianti con i legumi. In occasione delle feste (Natale, Capodanno, l’Epifania, Pasqua e la Festa della Bruna) ci si concede la pasta comprata dal pizzicagnolo – i mezzi ziti, i vermicelli – e, come si è detto, la carne. I più piccoli, nelle famiglie più evolute, mangiano in piatti separati.
Un momento importante nella vita sociale è quello della trasuta. Una tappa che segna un traguardo. Quando si è giunti qui, significa che un ragazzo e una ragazza hanno superato un percorso potenzialmente irto di ostacoli, si sono magari guardati da una punta all’altra del Barisano, dove sfruttando il sistema di echi messo a disposizione dalla natura si potevano lanciare messaggi che solo loro intendevano, fino ad arrivare al grande momento: la conoscenza delle famiglie. E dunque la trasuta, cioè l’ingresso dei genitori di lui a casa dei genitori di lei. Un rito. Che si compie secondo regole precise (un’usanza in parte in vigore ancora oggi, semplificata).
Gli ospiti vengono accolti in maniera affabile ma semplice, siamo pur sempre nei Sassi: biscotti, tarallini, vino, dolcetti fatti in casa e rosolio. Un momento significativo è lo scambio dei doni e la lettura della dote degli sposi: vengono descritti minutamente il corredo, gli elementi da cucina, la quantità di denaro che porta la futura moglie. Altrettanto si fa per l’uomo, sul fronte dei vestiti, degli attrezzi da lavoro, dei terreni e degli animali di cui beneficerà la casa comune. Dopo la trasuta, la coppia finalmente può smettere di frequentarsi di nascosto, farsi vedere insieme prima della formalizzazione dei rapporti sarebbe stato un atto di sfacciataggine. A una settimana dal matrimonio, la dote viene esposta in casa e mostrata a parenti e invitati.
Anche i Sassi, come le realtà sociali di una certa ampiezza, hanno gli “scemi del paese”, conosciuti da tutti e oggetto di scherzi e sfottò. Come per esempio Iariadoch (aria dolce), un uomo buono, ingenuo, e credulone, che dice sì a tutto. O Egidiorario, che fa delle commissioni a chiunque gliele chieda dietro piccolo compenso in natura, seguendo dei turni a memoria scanditi dal tempo: ogni volta che gli si chiede l’ora, pur non avendo l’orologio sa dirla e a volte si insiste fino a farlo impazzire. Poi c’è il trio che fa parte della bassa banda musicale che apre le processioni in giro per la città: Fra sch’ tòn (Fragitone) suona la grancassa, è alcolizzato tanto da essere già ubriaco dalla mattina e quando cammina, per respirare, gonfia le guance e sgrana gli occhi.
I ragazzi lo insultano e lui li rincorre senza riuscire ad acchiappare nessuno. Vi cenz suona i piatti e Vito Nicola il tamburo: deforme, è vestito di cenci, e si gratta continuamente. Un trio memorabile.
Conclusione
Dove sono andati a finire gli “scemi del paese” con l’evacuazione dei Sassi, nel ’52? Chissà. Svuotati della loro gente, ricollocata in sette borghi e quartieri costruiti ad hoc (La Martella, Venusio, Spine Bianche, Picciano, Agna, Serra Venerdì, La Nera), il Barisano e il Caveoso sono stati chiusi e abbandonati per lunghi anni. Divenuti sporchi, rifugio di topi e ricettacolo di siringhe di drogati, erano bollati come un luogo pericoloso. Ma pian piano negli anni si è fatta strada la consapevolezza della necessità del recupero di un patrimonio storico, socio-culturale e architettonico importante. Nel 1986 viene approvata dal Parlamento una Legge Speciale, la 771, che fissa giuridicamente ed economicamente questo obiettivo, con 100 miliardi di lire destinati al risanamento e al restauro dei Sassi e il proposito di farli rivivere, dando la possibilità ai materani di riappropriarsene. Nel 1993, grazie allo studio dell’architetto Pietro Laureano, arriva l’inserimento dei Sassi nella lista dell’Unesco, primo sito dell’Italia meridionale giudicato meritevole di entrare nel patrimonio mondiale dell’umanità. Laureano racconta tutto in un libro istruttivo, Giardini di pietra. I Sassi di Matera e la civiltà mediterranea, dove esamina il sistema spaziale, sociale, ecologico della città scavata nel tufo e lo confronta con analoghe strutture di altre aree mondiali, da Petra a Matmata, da Fethiye in Licia (Turchia) ai nuraghi di Sardegna fino ai monumenti megalitici britannici e del Sahara. “La città dei Sassi – sottolinea Laureano – è frutto di una sapienza antica, che aveva realizzato canali, cisterne, giardini pensili e spazi collettivi per la vita comunitaria e civile.” Ciò che la rende unica al mondo, sostiene l’architetto, è però un modello di convivenza basato su principi immutati “dalla preistoria fino a tutto il Settecento: conservando modi di vita antichissimi l’abitato si evolve dagli sparsi villaggi neolitici fino a un centro di 29 ettari”, si sviluppa per secoli nel rispetto dell’ambiente e facendo un uso intelligente e oculato di risorse scarse, prima fra tutte l’acqua. Questo è avvenuto in parte per la conformazione geografica, con le aride Murge solcate dalla Gravina (se ci si accosta nel silenzio della notte, in uno qualsiasi dei punti panoramici, si sente il suo gorgoglio), in parte per la scelta antropologica, di fedeltà all’“economia della terra e dell’acqua”, al “controllo delle energie del sole e del vento”.
L’ingresso nell’Unesco è un salto di qualità determinante per Matera, le permette di acquisire notorietà internazionale. Si affacciano finalmente i turisti, fino ad allora sporadici, arrivano i media, le produzioni cinematografiche e televisive si intensificano, sfruttando il set naturale – e unico – offerto dai Sassi. Di lì nasce il percorso che ha portato alla candidatura a Capitale europea della cultura, all’idea che poteva non essere solo un sogno, al lavoro quotidiano che ha condotto al risultato del 17 ottobre 2014, quando un boato di felicità esplode in piazza San Giovanni dopo la proclamazione del ministro Dario Franceschini: Matera 2019.
La vergogna nazionale è cancellata per sempre, tramutata in orgoglio d’Europa.
Questo testo è tratto dal volume AA. VV. (a cura di Mimmo Sammartino), Basilicata d'autore. Reportage narrativo e guida culturale del territorio, ed Manni, 2017, p. 256, E, 16,00