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Cucinare insieme: cappelletti per Natale
“Non si mangia più come una volta …ormai è Natale tutti i giorni…”
Conservo un netto ricordo del senso di questa frase… persa nei Natali di diversi anni fa e regolarmente pronunciata da mia zia, alla fine del pranzo, probabilmente verso le quattro del pomeriggio,
Erano già anni di un benessere comune e scontato ma per le generazioni nate prima degli anni cinquanta la differenza era evidente.
Oggi completamente dentro a quel benessere una domanda potrebbe essere non sulla quantità, ma se la “forma e la sostanza” del cibo che mettiamo a tavola nel pranzo di Natale per noi e i nostri figli abbia ancora qualcosa del significato della festa più sentita nella civiltà cristiana e più in generale occidentale.
Già, il suo significato…
Di solito il Natale, almeno in città, è appuntamento che si inizia ad avvertire dopo le festività dei morti. Ognuno ci inciampa una prima volta, aldilà di un calendario ancora lontano. Un incontro che improvvisamente irrompe con una prima vetrina addobbata, nello scontro con le pile di panettoni al lato delle casse, su una striscia di luminarie intravista per strada o su un terrazzo.
Poi dall’Immacolata, è per tutti un precipitare nella certezza del Natale. Anche per chi è avvezzo al telecomando come strumento salvifico alle molestie della pubblicità, il Natale invade attraverso gli spot televisivi: una babele di seduzioni profumate innanzitutto e poi pandoro e pandori farciti, snack e coca cola, the industriali, nutelle addobbate, persino McDonald’s tutti in abiti natalizi sono il più comune e diffuso sottofondo pubblicitario. Sono questi, ben più degli spot sui giocattoli, a introdurci a un Natale imminente, anche per i più distratti, anche per chi, accoglie questi giorni con qualche ansia malcelata.
Sì, pochi giocattoli nella pubblicità… come se negli anni il Natale fosse diventato – ci sarebbe da interrogarsi su questo – una festa più per adulti che per bambini.
Forse perché il Natale non solo può essere festa sacra per eccellenza, ma piaccia o non piaccia – come e ben più del capodanno – è ricorrenza che più di ogni altra ha a che fare per noi adulti con il tempo personale, festa in cui lo si celebra, per tutti sorta di “macchina” che ci misura il tempo, destino a cui non si sfugge.
Così se c’è ansia malcelata, questa potrebbe essere solo un’indiretta conferma: il Natale che anno su anno diventa una misura del “diventare grandi”… così lontano dal tempo dell’attesa dei regali portati nel piacevole dubbio – per quelli delle mia generazione mai svelato abbastanza – di Gesù bambino o Babbo Natale.
Certo, può essere anche questo, eppure…
Almeno per me – e molti ancora – c’è dell’altro, cresciuto come sono stato, in pranzi natalizi dai tavoli allungati, in pranzi dove tre generazioni erano presenti insieme ai rami laterali degli zii e dei cugini. Sono stati questi certamente i miei Natali, quelli della festa, della condivisione e della gioia insieme; lì a tavola dove anche i regali ricevuti diventavano solo un preambolo, una premessa, un preliminare al vero Natale.
Poi… Natale su Natale il sapore sorprendente amaro di un tavolo via via più ristretto al frastagliarsi delle famiglie, alle diverse scelte, alla mancanza di qualcuno e del mondo che portava con sé. Diventare adulti, almeno per la mia generazione, è stato ridurre la dimensione di quei pranzi natalizi, è stato ridurne la gioia e la condivisone, è stato ridurre la festa, in mezzo il tempo, commensale non invitato.
Già, il tempo – non solo quello personale – ma sempre lui diritto dentro al Natale e a quei giorni, ben prima che il Cristianesimo ne ereditasse il senso con la nascita del Gesù. Sono stati infatti anche i giorni della celebrazione di Mitra, il Dio impostosi a fianco degli dei dell’Olimpo nella Roma imperiale a partire dal tardo I sec d.C e assimilato dalle regioni orientali dell’impero. In quel periodo a Roma si festeggiava il 25 dicembre, Mitra, Dio del sole invictus. È con l’imperatore Costantino – nel 330 d.C convertitosi al cristianesimo – che il 25 dicembre si incominciò a festeggiare non più il "Natalis solis" ma il "Natalis Christi".
Non può essere una coincidenza: il Cristianesimo eredita qualcosa di precedente e i giorni della celebrazione della nascita del Signore sono – pur nelle incertezze dei calendari antichi – quelli coincidenti con il solstizio invernale, proprio quando il sole riprende il suo cammino in ascesa sull’orizzonte celeste, prima annunciazione della nuova stagione, di un nuovo ciclo vitale fino all’apoteosi del solstizio d’estate.
Il tempo dunque, ancora e sempre il tempo…
E allora può essere solo un caso che i nostri dolci più “iconici” e tradizionali del Natale – il pandolce, il panettone, il pandoro – abbiano in qualche modo la forma del sole? Qui sarebbe la forma, la vera “ricetta immateriale” dispersa nel tempo: dolci iper lievitati in cui il lievito fa bene il suo lavoro spingendo la massa lievitata a imitare il sole crescente.
Sarebbe una relazione in qualche modo sorprendente, quella dei dolci iper lievitati rispetto al Natale e al solstizio d’inverno. Ma possiamo individuare altri esempi di questa relazione in cui il cibo diventa sacro e celebra il tempo che si rinnova o dobbiamo semplicemente credere a una coincidenza, un’associazione azzardata?
Tosco Emiliano di nascita, ligure di adozione ho avuto accesso facilitato a queste tradizioni alimentari fin da bambino, inevitabilmente frequentate durante pranzi natalizi che erano anche la sintesi della vita dei miei genitori (e della moltitudine di emigranti appenninici lungo tutto lo stivale).
Cappelletti in brodo per l’Emilia, Spongata per la Lunigiana, Cima alla genovese erano piatti molti comuni nei miei pranzi natalizi; sintesi e mappa gastronomica della via di cui sopra, dalla montagna alla grande città.
Dei cappelletti non occorre spiegazione mentre degli altri occorre probabilmente una presentazione.
Nessuna gastronomia da guardare ma tutti e tre questi piatti natalizi hanno una forma circolare o ellittica circolare nel caso della cima (un impasto fatto di uova, piselli, cervello di vitello, formaggio chiuso e cucito in una sacca di carne di vitello e lessato). Per quest’ultima la forma ellittica circolare è sia del piatto finito che delle fette in cui viene portata a tavola.
E la spongata? Questo è dolce tradizionale tra il Reggiano e l’alta Toscana, in quest’ultima versione a base di pasta frolla ripiena di impasto a base di miele, mandorle e fichi secchi, canditi. Ciambella bassa, schiacciata, comune in un largo tratto della via Francigena, con ingredienti che raccontano dell’estate precedente, ciambella che nei giorni di Natale, attraverso la sua lunga conservabilità, prelude all’estate che verrà: ancora il tempo, dunque.
E poi sono tutti piatti di un colore chiaro o giallo, comunque solare.
Ma se si esce dalla forma che pur mostra un suo significato, questi piatti (e molti altri lungo lo stivale) sono caratterizzati anche da una lunga e attenta preparazione. Ricordo bene mia madre “piegare i cappelletti” a centinaia il giorno prima o quello prima ancora aiutata da sua sorella, da una sua cugina o amica; era una cortesia vicendevole che veniva ricambiata. Più il cappelletto, chiuso circolarmente, era piccolo più era apprezzato.
Non solo la forma e il colore… il cibo del Natale, quello tradizionale, sembra avere anche quest’altra dimensione che lo accomuna. Sono piatti che vogliono cure e attenzioni, cura e dedizioni; sono piatti che pretendono ordine e lo coltivano.
Ecco nei “giorni sospesi” del solstizio d’inverno, nel periodo dell’anno dove la società contadina di un tempo si fermava davanti all’immobilità della natura, l’ordine del cibo preparato e condiviso il giorno di Natale segnava un elemento comune, era un rito e metafora di una difesa contro la fragilità della vita. È questa forse la caratteristica più significativa del cibo che possiamo preparare e condividere a Natale, ben lontano dal disordine consumistico, dalla banalità alimentare imperversante fuori come negli spot televisivi.
La civiltà contadina pastorale resta la madre di tutte le nostre tradizioni alimentari. Civiltà che fin dalle sue origini ha dovuto addomesticare il tempo insieme alla natura. Non c’è stata agricoltura, non c’è stata dunque civiltà se insieme alla domesticazione delle specie vegetali più produttive non ci fosse stata una profonda conoscenza dei cicli della natura legati al calendario e al tempo astronomico. È proprio in quelle conoscenze che abbiamo perso un po’ della nostra fragilità di fronte alla natura. Quella fragilità che tuttavia ogni anno si riproponeva nei giorni in cui la natura sembrava immobile, gelida, sterile; quella fragilità tornava ad affacciarsi nella consapevolezza di ognuno, e potrebbe farlo anche oggi se solo provassimo a spegnere ogni luce e ad attendere un’alba che non arriva, se solo si è ancora in grado di “ascoltare” il freddo e il buio.
In questi giorni, per secoli e secoli, la necessità di un ordine che tenesse tutto assieme, oltre la fragilità dell’essere umano e delle sue comunità, si faceva urgente e contemporaneamente si faceva auspicio.
Quell’ordine che nel cibo lungamente preparato diventava “metafora vivente” e che, condiviso, era il filo comune in grado di legare le certezze del passato alle speranze del futuro, era quello il convitato invisibile quanto benedetto, da accudire e celebrare insieme al Natale.
Oggi, il disordine e la fragilità che incombono nelle nostre esistenze hanno forme diverse da quelle della società contadina ma non per questo meno reali; per questo l’ordine che impregna, che nutre quelle antiche ricette andrebbe ricordato e riproposto, ognuno come può, sulla tavola di Natale.
Nella preparazione o almeno nella condivisione con i propri cari ma anche con chi quell’ordine ce l’ha tramandato e che ora non è più alla nostra tavola.
È un nutrimento che può essere anche educazione potente e silenziosa verso i figli, antidoto emotivo e alimentare per la babele del cibo industriale che preme, che semina il disordine, che intossica e affoga tutt’intorno, anche in questi giorni.