Festa del teatro a San Miniato / Don Milani e lo Straniero
Dal 1947 tra le colline toscane il teatro dialoga con il sacro, con quella religione che per secoli è stata considerata, non a torto, una sua avversaria. La storia dei rapporti tra scena, attori e gerarchie ecclesiastiche è costellata di divieti, condanne, censure, tentativi di riutilizzare i mezzi di persuasione e fascino dell’arte teatrale per conquistare anime. E di molti altri complessi rapporti.
L’Istituto del dramma popolare di San Miniato nacque nel 1947 con l’intento di fare un “teatro dello spirito”, in un’epoca in cui i conflitti ideologici e le visioni del mondo si erano polarizzate nello scontro tra i due blocchi sortiti dal dopoguerra, e spesso il campo culturale sembrava orientato su versanti contrastanti quelli della religione e dei suoi riferimenti politici. Si legge nello statuto che questo Istituto, ora Fondazione, nasceva “per ridare al popolo il suo teatro, per far sì che il teatro acquisti nella evoluzione sociale la sua missione guida. L’Istituto si propone con una diversa struttura materiale ed organizzativa del teatro, di rendere veramente accessibile al popolo il teatro stesso... E poiché il teatro, oltre ad avere una funzione artistico-culturale, deve avere anche e particolarmente una funzione etico-sociale, l’Istituto del Dramma Popolare metterà sulle sue scene lavori a sfondo e di ispirazione cristiana, sicuro di assolvere il suo compito, che è eminentemente educativo”.
Nei suoi lunghi anni di attività da quel dopoguerra, le Feste teatrali di San Miniato hanno messo in scena spettacoli firmati da registi credenti come Orazio Costa o testi di scrittori cattolici come Eliot (Assassinio nella cattedrale) o Diego Fabbri, Julien Green, ma anche di Sartre o di una teologa come María Zambrano, via via aprendo anche il teatro cattolico a nuovi orizzonti, lontani da quelli del clima di scontro culturale della guerra fredda. È rimasta in vigore sempre l’idea di un “teatro popolare”, ossia che si misuri con i valori di fondo cristiani usando come strumento espressivo la narrazione articolata in testi “ben fatti”, basati su una solida drammaturgia di parola, senza voli sperimentali.
Vangelo secondo Lorenzo
Quanto siano mutati i tempi lo rivela il tema dello spettacolo più importante dell’edizione di quest’anno, dedicato a don Milani, Vangelo secondo Lorenzo, di Leo Muscato e Laura Perini, con la regia dello stesso Muscato e un bel gruppo di attori, con Alex Cendron nel ruolo principale e, al suo fianco, Alessandro Baldinotti, Giuliana Colzi (efficacissima nel ruolo della perpetua Eda), Andrea Costagli, Nicola Di Chio, Silvia Frasson, Dimitri Frosali, Fabio Mascagni, Massimo Salvianti (vecchio leone del teatro toscano, che come gli altri dà corpo a vari personaggi), Lucia Socci (la madre di don Milani e altre parti), Beniamino Zannoni. La impegnativa produzione, che prevede anche alcuni bambini nel ruolo degli scolari di Barbiana, è una coproduzione di Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Arca Azzurra Teatro e Teatro Metastasio di Prato per la Festa del teatro. Vale a dire che si sono unite realtà fortemente legate ai luoghi dove operò don Milani con un centro come Elsinor, interessato da sempre a un teatro che si misuri con i temi della fede (ricordiamo la militanza di Giovanni Testori per quella produzione).
Il risultato, nella scena dai colori cangianti, dal verde smeraldo all’azzurro metallico, di Federico Bancalani, è uno spettacolo narrativo, una biografia romanzata che fugge, molte volte, nell’aneddotico, finendo per costruire una moderna agiografia. Proviamo a spiegarci.
Don Milani è noto per la sua dirompente carica pastorale e pedagogica, e per la sua coerenza evangelica radicale, non disgiunta da un rispetto puntuale delle regole d’ubbidienza, che spesso gli causarono dirompenti conflitti interiori prima ancora che con la gerarchia ecclesiastica. La sua vicenda va collocata, oltre che in un ambito biografico ricchissimo di fili contrastanti, nel nostro dopoguerra e nei suoi dissidi. Di ricca e colta famiglia con ascendenze ebraiche, ebbe un particolarissimo cammino di formazione che lo portò alla fede e a un sacerdozio vissuto sempre come testimonianza al fianco degli ultimi. Visse intensamente quel dopoguerra di conflitti ideologici, scegliendo la fede ma anche i poveri, quelli che spesso militavano dall’altra parte della barricata.
La sua vita la racconta in modo ammirevole il bel “romanzo” di Eraldo Affinati che ha concorso l’anno scorso al premio Strega, L’uomo del futuro (Mondadori). E lo fa, in modo ampio, partendo da un punto focale urgente per l’autore, educatore egli stesso, quello della pedagogia di don Lorenzo. La vicenda biografica del priore di Barbiana si incrocia con i viaggi nella malascuola, nel disastro in cui sono lasciate l’infanzia e la gioventù nel mondo dell’autore, che insegna a Rebibbia, che trova nell’insegnamento ai più svantaggiati uno specchio per penetrare le inquietudini del prete e molti malori attuali. Alla fine opera centrale risulta naturalmente quella Lettera a una professoressa che squarciò il velo su un altro modo di fare scuola possibile. Il libro apprestato negli ultimi tempi di vita del prete è un’opera collettiva, ricostruita nel libro di Affinati anche con le testimonianze dei ragazzi, ora cresciuti, che lo scrissero. La voce di Don Milani si sente forte in L’uomo del futuro, da cui estraggo una bella annotazione: “Non ci lascia un’opera, una filosofia, un sistema, un progetto, ma energia allo stato puro. Una tensione che stenta a sciogliersi. L’inquietudine che c’è prima dell’azione. Come se non fosse possibile tenerlo fermo per esaminarlo, sfugge a qualsiasi definizione. Maestro, scrittore, politico, educatore”.
Questo è ciò che manca allo spettacolo. Quello visto è una parte di un disegno più vasto, che dovrebbe coprire l’intera vita di don Milani e articolarsi in quattro episodi, dalla nascita alla morte. Con Muscato, uomo di teatro iperproduttivo, lo firma Laura Perini, autrice, sceneggiatrice e regista cinematografica. E il taglio sa molto di una di quelle fiction biografiche che spesso vediamo in tv: corretta, piena di dati, ma assente di fuoco. Nei due sensi: quello che brucia di passione e quello che rende nitidi certi tratti, magari sfocandone altri, accentando che il teatro sia un’arte parziale, che vive di immediatezza, di incontro, di bagliori. Di fiamme, insomma, e fuoco.
Qui tutto si svolge tra il racconto e l’esemplificazione, con un doppio piano scenico. Passano i dati biografici, le idee, ma in modo tedioso, che non accende lo spettatore. Viene attuata una canonizzazione di don Milani, inevitabile a 50 anni dalla morte (ah, gli anniversari!), in epoca di papa Francesco. Manca lo scandalo, oggi. Rimane la notizia di quello che suscitò nel tempo con la sua chiesa classista, per scelta evangelica, per stare al fianco dei poveri. Dalle due ore e mezzo di spettacolo, nella chiesa di san Francesco a San Miniato, disturbate ogni tanto da qualche signora che si sentiva male per il caldo e pestava sull’impiantito di legno con i vertiginosi tacchi indossati, come il nero per gli uomini, all’apericena (chiedo venia per il termine) pre-spettacolo offerta dallo sponsor Cassa di Risparmio di San Miniato, delle due ore e mezza resta qualche frase, qualche momento, forse la tosse che perseguita il priore nella via crucis finale, il funerale di Libero con le bandiere rosse in chiesa, i gridii dei bambini attori, che poco danno l’idea di quegli “zucconi” montanari cui don Lorenzo si dedicò.
Trascrivo dal copione, che naturalmente tratta di discorsi sulla casa, sull’obiezione di coscienza, sulla scuola, di necessità di parlare prima di lavoro, di casa, di istruzione e poi di fede, trascrivo un pezzo che sembra di dirompente attualità. Al Pipetta, un comunista (forse, in questa scena un suo fantasma nell’immaginazione del priore): “Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordati, Pipetta, non ti fidar di me, perché quel giorno io ti tradirò. Quando tu non avrai più fame né sete, io me ne tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quel giorno, finalmente, potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli…”. Da che parte starebbe oggi don Milani? Questo non si chiede lo spettacolo. E perciò fa aneddotica e agiografia.
Leila della tempesta
Se lo domanda invece, in altro modo, un intenso lavoro presentato all’inizio del festival, di un autore, regista e attore che non bisogna smettere di tenere d’occhio, uno passato dalla sperimentazione, che con il teatro dell’Impasto e con Balletto Civile mescidiava parola, canto e danza, a un teatro essenziale e spirituale, nel senso che cerca radici fondamentali dell’essere umano, del suo coraggio, del suo vivere. Nella spianata davanti al santuario della Madonna dei Bimbi di Cigoli l’associazione culturale Ca’ Rossa ha presentato Leila della tempesta, regia di Alessandro Berti, con lo stesso Berti e la bravissima Sara Cianfriglia.
Il mare sembrava unirsi al cielo per ingoiare la piccola nave carica di disperati in cerca di un futuro migliore, aggrappati a una vita che pareva fuggire. Il terrore. I pianti. Te la figuri, quella notte, negli occhi di Leila che scrutano lontano, proiettati nelle parole, e nello sguardo dell’Altro, che sembra perso in quello che lei racconta. Sarà tutto così Leila della tempesta. Ci sono solo uno spoglio tavolo e due sedie, uno spazio definito e isolato da luci essenziali intorno al quale si muovono gli attori, davvero una barca nel mare dell’esistenza. Ma dei naufragi che avvengono ogni giorno tra l’Africa e la nostra Europa sentiamo solo echi lontani. Siamo trasportati da una finzione carica di verità in un parlatorio del carcere della Dozza di Bologna, dove un volontario incontra una detenuta musulmana imprigionata per spaccio di droga.
La storia è tratta da un libro con lo stesso titolo del monaco dossettiano Ignazio De Francesco, pubblicato da Zikkaron. Nelle sue pagine la vicenda di Leila genera altri sguardi su vite di stranieri reclusi. Qui invece tutto è concentrato su di lei, in una forte tensione al dialogo, continuamente interrotto dagli irrigidimenti di Leila e poi rimesso in moto dal suo interlocutore, in modo emblematico indicato solo come l’Altro. Questo, all’inizio, confonde la sua interlocutrice: parla benissimo l’arabo, ha vissuto a lungo in Medio Oriente. Sembra un fratello musulmano, e lei si confida. Quando scopre che è un infedele, la donna erige un muro, non vorrebbe più incontrarlo. Poi la voglia di confrontarsi con qualcuno nell’isolamento della detenzione vince. Leila viene da un piccolo villaggio, ha sognato un avvenire diverso, portandosi sulle spalle in quella notte di tempesta, come tutti quelli che fuggono, la miseria e l’avvenire di tutta la sua famiglia. È stata educata a una religiosità semplice, popolare, intransigente. Non ha accettato il matrimonio con un ragazzo siciliano perché l’islam non consente di sposare un cristiano se questo non si converte.
L’Altro le mostra la Costituzione italiana e quella della nuova Tunisia, parla di uguaglianza di fronte alla legge, di libere scelte. Le fa conoscere poesie arabe ricche di colori contrastanti, di spiritualità ma anche di desideri che si accendono nel corpo. Scava con tensione su cosa rodeva Leila al punto tale da farle spacciare morte, droga, lei che sa quanto è male per la sua religione. Senza moralismi, senza concessioni. Il rapporto teso tra i due è un’avventura di diffidente conoscenza umana, resa benissimo oltre che con le parole attraverso i silenzi, gli sguardi, i dinieghi, i gesti segnati di Sara Cianfriglia, i bagliori e gli offuscamenti dei suoi occhi, e la pazienza maieutica di Alessandro Berti, sempre un tono indietro, come un pedagogo che fa dell’ascolto il suo segreto.
Leila, che vuol dire notte, alla fine, uscita di prigione, rifiuterà il suo aiuto. Non accetterà di andare a vivere presso una famiglia disposta ad accoglierla, che lui le ha trovato. Volerà verso una sua personale, nuova, misteriosa se volete, libertà.
Lo spettacolo vive mirabilmente del racconto ma soprattutto di piccoli scarti, di “primi piani” dell’anima, di invenzioni minimali che precipitano lo spettatore col fiato sospeso in una bellissima, aspra vicenda di incontro umano.