“Esalta da 34 a 46″
Sin dall’invenzione del telefono il tasso di innovazione nel campo delle comunicazioni è andato aumentando senza soluzione di continuità, fino a giungere oggi allo smartphone, che ha ormai ben poco in comune con il suo celebre antenato.
Tanto per citare alcune delle straordinarie caratteristiche di questo strumento ormai considerato “comune”, oggi chiunque può disporre di un navigatore satellitare, di una connessione Internet, di una fotocamera ad alta risoluzione, il tutto integrato in un vero e proprio computer da portare sempre con sé, sufficientemente potente da far girare qualsiasi tipo di software. Così, se siamo in vacanza possiamo muoverci per la città con il navigatore, cercare un ristorante per la sera, prenotare un tavolo con il numero di telefono che troviamo su Google Maps o cercare un punto di interesse che ci hanno consigliato. Se la scritta su un cartello, un’insegna o un menù attira la nostra curiosità, basta scattare una foto perché ne venga estratta la parte testuale, venga elaborata per eliminare l’effetto prospettico e inviata a un traduttore. Certo, non è propriamente cool passare la vacanza scattando centinaia di foto da dare in pasto a Goggles o vivendo la realtà aumentata di Layar, ma l’idea che un oggetto che ricarichiamo in un paio di ore e portiamo sempre con noi sia in grado di interagire così bene con la realtà che ci circonda, e ci permetta anche di condividerla con gli altri, ha un suo indubbio fascino.
E non è un caso, a proposito di fascino, che Google abbia preso lo smartphone e gli abbia dato la forma di un paio di occhiali, facendo indossare i suoi Project Glass alle modelle della New York Fashion Week di Settembre 2012 che sfilavano per la stilista Diane von Furstenberg.
Dal punto di vista tecnico Glass ha le stesse caratteristiche di uno smartphone, quindi permette di scattare foto e filmati, inviare messaggi vocali, fare una ricerca su Internet e visualizzare informazioni su quello che stiamo guardando con la realtà aumentata. Il tutto a comando vocale. Sembra peraltro che non saranno necessarie cuffie per ascoltare la musica, perché l’audio si avvarrà della nuova tecnologia di conduzione ossea: un paio di speaker posti ai lati delle asticelle permetteranno di trasmettere suoni sfruttando le ossa del cranio (qui il brevetto di Google).
Secondo il report della FCC, presso cui i Glass devono ottenere l’approvazione, gli occhiali del futuro supportano il Wi-Fi 802.11 b/g e il Bluetooth 4.0 HS. Probabilmente la connessione 3G-4G non sarà possibile per motivi di salute: se è infatti vero che gli studi condotti finora non forniscono l’evidenza scientifica di una relazione tra l’utilizzo del cellulare e tumori al cervello (qui la posizione ufficiale del Ministero della Salute), è altrettanto evidente che si tratta di studi condotti su telefoni cellulari e smartphone, che, a differenza dei Glass, portiamo alla testa solo per il tempo di una chiamata. La connessione a Internet avverrà quindi tramite Wi-Fi, direttamente a un router o sfruttando il Wi-Fi-Tethering dello smartphone, che rimane un oggetto indispensabile e complementare, da cui, a quanto pare, questa generazione di dispositivi ancora non riuscirà ad affrancarsi.
Nello stesso tempo, anche sull’ultima idea Apple, l’iWatch, si riversano aspettative esagerate, in buona parte alimentate da questo video. Si favoleggia così di videochat a ologrammi e gestione di attività e immagini stile Minority Report. Facile immaginare che queste aspettative verranno deluse, visto che con ogni probabilità l’orologio di casa Cupertino avrà al più un sensore di movimento e di posizione, un touchscreen e la possibilità di ricevere notifiche, ma non disporrà di fotocamera e per la connessione dati farà capo all’iPhone, a cui dovrà necessariamente essere abbinato.
Tuttavia è evidente che la ricerca si sta muovendo verso soluzioni sempre più ergonomiche, in cui lo smartphone occuperà un ruolo sempre più marginale, sino a scomparire del tutto. La linea che si persegue sembrerebbe quella di dispositivi sempre meno ingombranti e scomodi, e sempre più adattabili al nostro corpo, che vedano quello che vediamo noi e sentano quello che sentiamo noi, rispondendo alle nostre richieste in modo sempre meno dipendente dal contatto delle nostre dita su un touchscreen.
Certo, se ci trovassimo in una biblioteca, in un’aula durante una lezione, oppure semplicemente sulla metropolitana, sarebbe quantomeno strano parlare con un paio di occhiali nel silenzio generale. Abbinando invece gli occhiali a un MYO, un dispositivo a bracciale prodotto dalla Thalmic Labs, in grado di misurare con precisione i segnali elettrici prodotti durante la contrazione dei muscoli, sarebbe possibile comunicare wireless con gli occhiali muovendo le mani secondo gesture, senza dettare operazioni ad alta voce come degli invasati. Niente cavi, niente dispositivi particolarmente scomodi, solo un semplice bracciale bluetooth. Ai posteri la sentenza se sia più bizzarra la scena di persone che comunicano con i propri occhiali o che gesticolano come in preda a dei tic nervosi.
Sembrerebbe invece che i fanatici della corsa o del fitness si risparmieranno il ludibrio generale per il fatto di parlare con le proprie scarpe, perché succederà il contrario: saranno le Google-Adidas Sneakers a parlare con loro, sfidandoli in un po’ di sano trash-talk. Dotate di sensori (accelerometro, giroscopio e sensore di pressione), sarebbero in grado di elaborare i dati dell’allenamento e dare consigli. Ma, a dirla tutta, finché dipenderanno dagli smartphone e non avranno un GPS integrato, saranno poco più che un costoso giocattolo da sfoggiare come status symbol. La cosa potrebbe farsi interessante, invece, nel caso in cui si incrociassero – per esempio tramite un software intelligente – i dati raccolti dalle scarpe con quelli registrati dai sensori MC10 applicati su specifiche parti del corpo e in grado di rilevare temperatura e idratazione corporea. Si tratta di microchip che hanno l’aspetto di una pellicola simile a una seconda pelle, una sorta di tatuaggio in cui le maglie del circuito sono talmente sottili da resistere all’acqua (quindi alla doccia o al nuoto in piscina) e da esfoliarsi naturalmente dopo due settimane. Con tutta probabilità, un dispositivo come l’attuale cardiofrequenzimetro si estinguerà presto, lasciando spazio – letteralmente – a questo tipo di soluzioni, decisamente più comode.
E, a proposito di ergonomia, tornando agli occhiali firmati BigG, non ci vorrà poi moltissimo prima che i Google Glass evolvano in qualcosa di simile agli occhiali di Luce Virtuale di Gibson, a creare una realtà aumentata direttamente nella corteccia visiva di chi li indossa, o persino che si miniaturizzino in delle lenti, che si mettano la mattina e tolgano la sera come semplici lenti da vista, molto meno scomode di un paio di occhiali.
E ancora, spingendo per un attimo l’immaginazione ai limiti del possibile, non è forse lecito pensare che prima o dopo questi dispositivi saranno talmente integrati da by-passare il comando vocale o il tramite dei muscoli, non necessitare di bracciali bionici e rispondere direttamente agli impulsi elettrici del cervello?
D’altra parte, chi avrebbe mai ritenuto possibile che un paio di occhiali con videocamera e delle lenti fotovoltaiche impiantate nella retina potessero mai ridare la vista ai non vedenti? Eppure questo è proprio ciò che stanno provando a realizzare James Loudin e il suo team all’Università di Stanford, in California . La videocamera posta sugli occhiali di Loudin acquisisce le immagini e le trasmette tramite infrarossi a una sorta di micro-pannello fotovoltaico subretinale. La luce infrarossa viene convertita poi in segnale per stimolare i neuroni e inviare le informazioni al cervello. Al momento la sperimentazione è ferma su alcuni topi da laboratorio, ma i risultati lasciano ben sperare.
A giudicare dalle caratteristiche di questi nuovissimi dispositivi sembrerebbe che la strada per la sempre più completa simbiosi tra tecnologia e corpo sia ormai stata imboccata con decisione. In altre parole, sembra che si stiano muovendo i primissimi passi verso la concretizzazione di uno dei topoi più cari alla letteratura fantascientifica: quello dell’organismo cybernetico.
E se è vero che la realtà supera la fantasia, chissà che in futuro non superi la fantascienza.
Questo articolo è uscito originariamente su giaccionove