Tutti gli Hopper del Presidente
I consigli del presidente.
Il 30 gennaio scorso Obama era in visita ufficiale, in Wisconsin. In un passaggio del suo discorso indirizzato a un pubblico di giovani, il presidente li ha esortati a lavorare nell’industria manifatturiera. Specializzarsi in questo campo, Obama dixit, offre più prospettive di lavoro che una laurea in storia dell’arte. Resosi immediatamente conto della gaffe, ha aggiunto che, ovviamente, non c’è niente di male a studiare storia dell’arte (“I love art history”) e, tra le risate generali, ha pregato gli storici dell’arte di non sommergerlo di lettere di protesta. Gli è sfuggita una battuta, una di quelle non scritte in cui il senso comune se non l’inconscio prendono il sopravvento e s’esprimono a loro modo.
Barack Obama alla General Electric di Waukesha
Qualcuno non l’ha ascoltato fino in fondo. Il 12 febbraio, Obama ha risposto per iscritto a una professoressa di storia dell’arte specializzata in arte medievale e Rinascimento italiano che l’aveva contattato passando per il sito della White House. Obama si è scusato per le sue “off-the-cuff remarks”, ovvero le sue osservazioni estemporanee. Estemporanee, in effetti, lo sono per chiunque abiti a Washington DC: quale città, negli Stati Uniti ma non solo, offre più possibilità di lavoro per gli storici dell’arte? Meno estemporanee, però, data l’aria che tira nelle scuole, nelle università e nei musei americani.
Il ministro dell’Istruzione Arne Duncan ha promosso una discussa politica per la scuola pubblica che, incentrata sui test di valutazione, porta a trascurare le materie non soggette a tali criteri valutativi quali, guarda caso, la storia dell’arte e altre materie non scientifiche.
Le facoltà umanistiche sono da anni il bersaglio dei repubblicani, una tendenza che va di pari passo alla diminuzione della titolarizzazione (tenure) dei posti universitari (negli Stati Uniti come in Francia, le due tradizioni che conosco meglio, sull’Italia non azzardo analisi, latitando da troppo tempo). Gli studenti americani nel frattempo s’indebitano con vari istituti di credito per pagare le rette proibitive dei campus, così che, per i neolaureati nelle Humanities, alla difficoltà di trovare il primo impiego si aggiunge l’ipoteca pesante del debito contratto. No one is innocent, come recitava un sempre valido slogan punk: lo stesso Obama ha lasciato vacante il posto di direttore del National Endowment for the Arts – un’agenzia federale che finanzia le arti visive – per più di un anno, da novembre 2012 alla settimana scorsa (è notizia di questi giorni la sua proposta di nominare Jane Chu, vedremo).
Infine, il museo di Detroit ha rischiato la vendita all’asta dei suoi gioielli di famiglia (Van Gogh, Picasso, Rodin, Bruegel, Giovanni Bernini, Caravaggio, Rembrandt...) per far fronte alla bancarotta dell’economia locale. Per non citare la Corcoran Gallery, salvata, pare, per il rotto della cuffia.
Siamo lontani anni luce dal Federal Art Project promosso da Franklin Roosevelt durante il New Deal (1935-43), che ha permesso a tanti artisti – praticamente tutta la generazione degli espressionisti astratti – di guadagnarsi da vivere contribuendo a creare un’arte pubblica americana. O da John F. Kennedy quando, all’Amherst College (Mass.) nel 1963, in un discorso in onore del poeta Robert Frost, si augurava che l’America si decidesse presto a considerare il conseguimento nel campo delle arti sullo stesso piano che nel campo della finanza o della politica.
John F. Kennedy all'Amherst College
Insomma, se quella di Obama è solo una battuta, tradisce nondimeno il disco rotto del capitalismo finanziario, secondo cui una buona educazione – come gran parte delle attività umane – si misura esclusivamente col suo rendiconto economico. E’ la stessa logica che porta a considerare il patrimonio artistico come un bene da sfruttare economicamente piuttosto che come elemento identitario di una comunità.
La foto del presidente
Per la cronaca, non ho inviato nessuna email al presidente né ho intenzione di farlo. In fondo ha ragione: chi vuole batter cassa s’iscrive a Economia e commercio, non a Storia dell’arte, a meno che vogliate passare il vostro tempo ad autenticare quadri falsi. Né sento di dover difendere una disciplina accademica che, se è in crisi, è bene che intraprenda anzitutto un approfondito esame di coscienza senza esclusioni di colpi, piuttosto che di scalpitare non appena viene pungolata. Se la storia dell’arte se la passa male, la colpa è in gran parte degli storici dell’arte, non di Obama.
La vicenda ha tuttavia un epilogo inatteso. Il 7 febbraio, tra la gaffe e la lettera di scuse, sul sito ufficiale della Casa bianca è apparsa una foto (scattata da Chuck Kennedy) di un Obama immerso nella contemplazione di due dipinti di Edward Hopper, padre della pittura modernista americana.
Esposti nel lato sud-est della Sala ovale, Cobb’s Barns, South Truro e Burly Cobb's House, South Truro non sono firmati, forse perché non destinati alla vendita. Furono donati da Josephine, moglie e modella del pittore, al Whitney Museum of American Art, che non ha tardato a pubblicare uno sbrodoloso comunicato stampa in cui si dichiara onorato della scelta presidenziale.
Edward Hopper, Cobb’s Barns, South Truro
Edward Hopper, Burly Cobb’s House, South Truro
I due dipinti, risalenti ai primi anni trenta, rappresentano il paesaggio naturale di Cape Cod (Mass.), là dove Hopper e sua moglie trascorrevano l’estate. Prima di costruire una casa progettata dall’artista, affittarono dal direttore dell’ufficio postale locale A.B. Burleigh Cobb quello che soprannominarono il “Bird Cage Cottage”. All’epoca della sua prima retrospettiva al Museum of Modern Art di New York (1933), quel gran solitario di Hopper si ritirava in campagna, non lontano dalla più vivace Provincetown, per realizzare disegni e dipinti dell’architettura vernacolare americana immersa nel paesaggio. A volte sono le case a svettare, come nel quadro più grande installato in alto, altre volte le case sono protette se non mimetizzate nella vegetazione, come nel quadro sottostante. In entrambi i casi, appaiono distanti dalle contingenze della storia – e, non dimentichiamolo, sono gli stessi anni del Federal Art Project di Roosevelt.
Anziché guardare il giardino soleggiato fuori dalla finestra, un Obama ozioso circoscrive la sua esperienza estetica all’interno delle due cornici dorate. Riesce così a rubare un attimo al tempo, un attimo che vorrebbe protrarre a lungo – e “long” è l’unica parola leggibile sul tappeto, parte di una citazione di Marthin L. King (“The arc of the moral universe is long but it bends toward justice”) –, un attimo in cui dimentica il peso delle sue responsabilità per sciogliere le briglie dello sguardo e lasciarlo scorrazzare per le colline erbose di Cape Cod.
La foto suggerisce tuttavia che si tratta di un momento fugace: sul tavolo giace l’agenda nera, zeppa, è facile immaginarlo, d’impegni di lavoro, e non certo il catalogo ragionato di Hopper. In mano tiene, quasi inconsciamente, un foglio; qualcuno deve averglielo infilato di soppiatto tra il gomito e il fianco, come una lettera glissata sotto una porta. Sembra già di sentire una voce educata che di spalle – ovvero giusto accanto a noi osservatori della fotografia – sussurra: “Presidente, permette?”, per ricordargli la prossima incombenza. Niente di più facile poi che farsi un’idea delle sue giornate: l’agenda quotidiana di Obama è riportata nei dettagli sul sito della Casa bianca, molto più snello dell’imbalsamato sito del Quirinale nostrano.
Lo sguardo del presidente
Sul “Washington Post” Philip Kennicott ha accostato lo scatto di Obama a quello di Kennedy ripreso di spalle da George Tames mentre legge i giornali sulla scrivania (The Loneliest Job, 1961). Si tratta di una posa rara per un politico. Fa pensare piuttosto ai personaggi dipinti di spalle nell’atto di guardare qualcosa che ci è offerto allo sguardo. Come se ci suggerissero una postura spettatoriale che non interrompa l’intensità del dialogo tra l’opera e l’osservatore. Siamo così agli antipodi delle scene fotografate nei musei da Thomas Struth, con le geometrie variabili tra la massa dei visitatori e i personaggi rappresentati. Ma non solo.
George Tames, The Loneliest Job, 1961
Guardando Obama che guarda Hopper penso a un’altra immagine in cui guardiamo Obama guardare: May 1, 2011 di Alfredo Jaar (2011) esposta alla Triennale di Parigi nel 2012. Jaar è partito dalla foto ufficiale (scattata da Pete Souza) in cui Obama e il suo staff vede sullo schermo a cristalli liquidi le immagini dell’imboscata mortale contro Bin Laden. Rispetto alla foto hopperiana dove lo sguardo è sottratto a favore dell’oggetto di contemplazione, qui guardiamo Obama guardare un’immagine sottratta al nostro sguardo, sottratta dalla composizione fotografica come dalla successiva decisione del governo in carica di non diffonderla.
May 1, 2011, Alfredo Jaar
Di questa immagine ci restano così solo le reazioni leggibili sui volti dei rappresentanti del popolo americano. Jaar l’ha affiancata a uno schermo bianco, a un monocromo – cioè a due immagini assenti – così come a una legenda che ci aiuta a identificare uno ad uno i testimoni dell’evento esclusivo.
Il décor del presidente
E’ tradizione che ogni presidente degli Stati Uniti decori a suo piacere la Sala ovale della Casa bianca: dal pavimento alla carta da parati, dalla scrivania al mobilio, dal tappeto alle opere d’arte.
Durante la campagna elettorale, quando un giornalista chiese a George W. Bush quale sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto da presidente, questi gli rispose: ripulire la Sala ovale. Non scherzava: rifà il parquet in quercia e noce, con un disegno a spina che risale ai tempi di Roosevelt; fodera due sedie con delle strisce gialle e blu un po’ pacchiane che fanno sdraio da spiaggia. E soprattutto sostituisce il tappeto blu di Clinton con uno di lana giallo pallido, coi raggi di sole che irradiano dallo stemma centrale. Disegnato dalla stessa Laura Bush assieme a un interior designer texano (Ken Blasingame), questi raggi trasmettono l’ottimismo e l’estroversione del presidente, nonché il senso divino della missione che l’America era destinata a svolgere nel mondo. Per soli 61.000 dollari circa (mi riferisco al prezzo del tappeto).
Obama invece si affida al californiano Michael Smith, che definisce il suo stile decorativo “updated traditional” (una definizione della politica di Obama?). L’ambiente si fa più controllato, neutralizzato da eventuali tensioni. E’ uno spazio pratico in cui lavorare e sentirsi a proprio agio piuttosto che una residenza regale che ostenta i suoi blasoni. Dominano i color terra, ruggine, caramello e le tinte ocra che smorzano i contrasti netti. Tale severità, che ad alcuni è apparsa eccessiva, è spezzata tuttavia da alcuni sprazzi di colore, come le due lampade blu, il cesto di mele e non più i fiori sul coffee table, la carta da parati a strisce per rivitalizzare lo spazio che sostituiscono le strisce solari del tappeto.
L’arredamento è semplice ma stylish, col tappeto di lana riciclata (al 25%) realizzato in Michigan, il divano in cotone vellutato con trame rosse bianche e blu al posto dei tessuti broccati, un tavolo moderno di mica acquistato a New York. E, ancora, quattro ceramiche di artisti nativi americani contemporanei (provenienti dal National Museum of the American Indian) al posto dei piatti cinesi di Bush che facevano tanto casa di nonna papera, persino tre dispositivi meccanici dalla collezione del National Museum of American History: un telegrafo, una dentatrice e una ruota a pala per navi a vapore.
Del suo predecessore Obama mantiene alcuni elementi, tra cui: l’orologio a pendolo, un tavolo per le foto di famiglia, le tende di seta damascate, la scrivania, dono della regina Vittoria a Rutheford B. Hayes nel 1880, realizzata coi resti di una nave ripescata nell’Artico e usata da tutti i presidenti da Kennedy in poi (tranne Johnson, Nixon e Ford).
Tra le opere d’arte, ha tenuto la statua di bronzo The Bronco Buster di Fredric Remington, un ritratto del primo presidente George Washington di Rembrandt Peale. Si è sbarazzato invece di un busto di Eisenhower e soprattutto di uno di Winston Churchill donato dal governo britannico dopo gli attacchi dell’11 settembre, sostituendolo con uno di Abraham Lincoln.
I dipinti del presidente
Resta da scrivere un’analisi sui rapporti tra agire politico e gusti estetici. Nessun presidente ha ad esempio mai scelto dipinti astratti, probabilmente troppo vuoti, sfuggevoli, semanticamente aperti. Come interpretare un monocromo nero di Ad Reinhardt nel salone ovale? La scelta di Obama dei due Hopper è quanto di più ambizioso si sia mai visto alla Casa bianca, una vera e propria apertura al modernismo: due paesaggi senza elementi antropomorfi, in cui non resta altro che la presenza muta delle case. In fondo la storia dell’arte, ha dichiarato Obama dopo la gaffe, era la sua materia preferita al liceo. E poi non ha vinto le elezioni anche grazie a Shepard Fairey, lo street-artist arrestato una quindicina di volte che, per le presidenziali, ha realizzato i manifesti Hope – le sue prime immagini di propaganda – in cui era leggibile l’autenticità e l’idealismo del leader?
Se guardiamo al resto dei dipinti pescati da Obama dalla collezione della Casa bianca troviamo: un dipinto patriottico del braccio della Statua della libertà di Norman Rockwell, sebbene per tre mesi (luglio-ottobre 2011) abbia esposto, in un corridoio per dar meno nell’occhio, un altro dipinto di Rockwell decisamente politico, con richiami al razzismo e al Ku Klux Klan: The Problem We All Live With.
Norman Rockwell The Problem We All Live With
Ancora, un paesaggio urbano con la bandiera americana sulla Fifth Avenue di New York – una sorta di Jasper Johns impressionista – di Childe Hassam (The Avenue in the rain, 1917);
Childe Hassam The Avenue in the rain
un ritratto di Abraham Lincoln di George Henry Story e The Three Tetons di Thomas Moran che il presidente, in un’altra foto di spalle, si adopera a raddrizzare.
Il suo gusto artistico moderno e cosmopolita ha di fatto impedito a Obama di tenere le opere regionaliste di Bush, a partire dai tre dipinti di Julian Onderdonk (1882-1922), un pittore texano impressionista sconosciuto fuori dai patri confini, prestati dai musei di San Antonio e di El Paso. Niente Georgia O’Keefe ovviamente, per spostarci al vicino New Mexico: ve lo immaginate Bush seduto alla scrivania a rileggere il Patriot Act mentre, sopra la sua testa, troneggia un fiore rosa gigante coi petali aperti che suggerisce apertamente il dischiudersi di un sesso femminile?
Ma il quadro preferito di Bush, il più lontano dal respiro metafisico degli Hopper, è tuttavia quello di un artista tedesco emigrato negli Stati Uniti, Wilhelm H.D. Koerner. A Charge to Keep è per Bush così importante che la sua autobiografia porta lo stesso titolo.
Wilhelm H.D. Koerner. A Charge to Keep
Non solo: egli era solito spiegare ai suoi ospiti l’iconografia da cow-boy del dipinto riferendosi al titolo, citazione di un inno cristiano metodista di Charles Wesley, associato a 1, Corinzi 4:2 (nella versione cattolica ufficiale: “Ora, quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele”). Bush s’identifica nell’uomo a cavallo che scala la collina per diffondere il verbo metodista in un’America ancora brulla e immorale, in quell’atto di coraggio in cui l’azione prevale sul pensiero. “This is us!”, affermava fiero davanti al dipinto.
La salvezza del presidente
Ora, è bastato andar a verificare il contesto nel quale Koerner ha pubblicato A Charge to Keep per smentire clamorosamente la storiella mendace di Bush. Il quadro non rappresenta affatto un missionario cristiano, un eroe temerario che trotta verso il futuro per civilizzare l’America ma, al contrario, un ladruncolo di cavalli che scappa al linciaggio, un fuorilegge che se la squaglia prima che lo acciuffino! Ecco, Bush storico dell’arte non è in finale diverso dal Bush politico: uno scaltro imbroglione – con la differenza che una lettura iconografica taroccata non porta oggi la guerra coi suoi “danni collaterali”.
Scenario: uno storico dell’arte è ufficialmente accolto alla Casa bianca. Nel corso della visita guidata, Bush sciorina la solita palla sul dipinto che tutti gli invitati hanno finora bevuto senza batter ciglio. Lo storico dell’arte, poco aduso al protocollo diplomatico, non ce la fa a trattenersi e scoppia a ridere. Davanti alle telecamere di tutto il mondo, racconta al presidente le intenzioni di Koerner.
L’evento scatena reazioni inaspettate: la fiducia dei suoi elettori crolla vertiginosamente e la sera stessa migliaia di cittadini scendono in piazza brandendo slogan quali: “VIA IL LADRO DI CAVALLI!”. La situazione degenera finché egli è costretto a dimettersi e a riparare lontano, incontrando così – come in un malocchio – lo stesso destino del protagonista del suo dipinto preferito. Caro Obama, e se fosse stata proprio la storia dell’arte a salvarti?