In conversazione con Riccardo Giacconi / Il teatro dei sonnambuli
Riccardo Giacconi: La mattina del 30 ottobre 1911, mentre si trova nel cortile della caserma Cialdini di Bologna in attesa della partenza per la guerra di Libia, il soldato Augusto Masetti spara un colpo di fucile contro il tenente colonnello Stroppa, ferendolo a una spalla. Una volta interrogato, Masetti dirà di non ricordarsi di nulla, e che per questo motivo non può pentirsi. Vorrei iniziare parlando del tuo libro Suggestione (Bollati Boringhieri, Torino 2011) e, in particolare, di questo episodio, legato ai temi del libro, ma che hai deciso di non includere.
Andrea Cavalletti: È questa, in effetti, l’epoca delle amnesie, delle depersonalizzazioni, della suggestione. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si moltiplicano i casi di doppia personalità, o di donne e uomini che spariscono e, dimentichi di sé, iniziano altrove una vita nuova. La vicenda dell’anarchico Masetti rientra in questo panorama, e ha perciò radici lontane. Come la parola ‘suggestione’ nominava allora ciò che alla fine Settecento si chiamava ‘mesmerismo’ o ‘magnetismo animale’, così nella perdita e nello sdoppiamento della personalità si rinnovava l’antica storia delle possessioni. Detto questo, più che insistere sul problema della responsabilità, mi pare essenziale mettere in luce il tenore politico della possessione suggestiva, e della sua imprevedibilità.
RG: Sembra che in Colombia un caso simile a quello di Masetti abbia dato origine a un personaggio per marionette, chiamato el espiritado. Durante una serie di interviste che ho realizzato, molti dei marionettisti di Bogotà mi hanno detto che per essere un bravo marionettista, devi saper lasciarti andare all’oggetto che stai animando. Si tratta di una possessione doppia: anche l’oggetto sta animando te. Mi sembra un’idea simile a un passaggio del tuo libro, quando scrivi: “La voce del carattere si indetermina in quella del magnetizzatore. Ma al tempo stesso anche l’influenza del magnetizzatore si smarrisce nel genio del magnetizzato. Si ha una compresenza perfetta, una duplicità insuperabile, una totale indeterminabilità”. Vorrei chiederti di parlare di quest’idea di un potere che, mentre agisce, deve anche, in qualche modo, lasciarsi animare. Tu lo definisci come il paradigma dell’insicurezza del potere.
AC: Sì, faccio appello alla teoria hegeliana del ‘duplice genio’, per cui l’attività e la passività si indeterminano. Ma andiamo con ordine: il grande psichiatra Hippolyte Bernheim affermava che tutto è suggestione. Poi Freud ha sollevato la sua obiezione: se la suggestione spiega tutto, che cosa spiega la suggestione? Questa domanda retorica, scherzosa, introduce l’esigenza di una nuova teoria, quella appunto psicoanalitica. Il mio libro tenta invece di prendere sul serio il motto di Bernheim: tutto è davvero suggestione, e lo è nel contesto biopolitico-securitario che ancora ci governa. Il modello biopolitico è infatti storicamente e logicamente suggestivo e questo proprio perché non poggia, in fondo, su nulla: o meglio, su una insicurezza o una indeterminabilità costitutiva.
Ora, l’interpretazione del ‘magnetismo animale’ che Hegel offre in alcune dense pagine della Enciclopedia delle scienze filosofiche (delle quali si era già occupato, da un punto di vista diverso Jean-Luc Nancy) mette in luce proprio questo aspetto. Queste pagine sono legate poi da strettissimi rapporti (e da una perfetta corrispondenza terminologica) a quelle celeberrime sulla dialettica servo-padrone. Dunque, Hegel illustra la relazione tra magnetizzatore e magnetizzato a partire dal legame immediato, ‘magico’, che unirebbe il feto, un essere puramente passivo, alla madre, o meglio al genio materno capace di influenzare il feto determinando alcune sue disposizioni – caratteriali, ad esempio, o anche fisiche, somatiche. Nel caso della ‘malattia dell’anima’ chiamata ‘magnetismo animale’, invece, questo rapporto con la sfera sensibile viene esercitato da un individuo o genio esterno: non è più quindi un rapporto interno, immediato, magico, ma un vero e proprio rapporto di soggezione o di ‘potere’ (Macht).
Esso si esercita tuttavia sulla stessa sfera della sensibilità sulla quale si era impresso il primo influsso materno, la sfera che ora fa capo al genio o carattere del soggetto, cioè a tutto ciò che vi si è sedimentato dopo la nascita: abitudini, inclinazioni, ecc. Sulla sensibilità del magnetizzato insistono in altre parole due influssi, due geni: il magnetizzatore e il carattere. L’influsso è duplice: esterno (del magnetizzatore) e non solo esterno (del carattere), e proprio per questa duplicità è impossibile determinare se un’azione sia stata indotta, favorita, ordinata dall’uno o dall’altro. È impossibile stabilire se un dato comportamento risale al carattere o dal condizionamento esterno. Così il magnetizzatore, malgrado tutto, non saprà mai se il sonnambulo obbedisce a lui o al proprio carattere, non potrà davvero sapere se il soggetto stia eseguendo l’ordine o assecondando un’inclinazione del proprio genio.
Vi è una insuperabile insicurezza, o indeterminazione dei rapporti di potere suggestivi. Ed è per questo che, nel libro, in cui non parlo direttamente di Masetti, ma di Mario, il personaggio che nel racconto di Thomas Mann Mario e il mago uccide il mago ipnotizzatore Cipolla (alter ego di Mussolini), ho proposto di sostituire il paradigma del resistente animato dalla coscienza e dalla volontà. Alla lettura classica di Hans Mayer, basata sui concetti di volontà e resistenza, ho inteso opporre un’interpretazione incentrata sulla indeterminabilità e sull’ambiguità del gioco suggestivo.
In effetti, l’opposizione volontà/suggestione non è affatto scontata. Se la volontà non può generare la suggestione, diceva ad esempio un epigono di Bernheim, la suggestione genera la volontà. Il che vale anche per la resistenza: questa viene suscitata, provocata dal suggestionatore, che deve innanzitutto capire quali ordini il soggetto non eseguirà e a quali, invece, sarà sensibile: se non tutti faranno tutto, tutti faranno qualcosa. Perciò, per spiegare il gesto di Mario (o di Masetti), ho tentato di illuminare ciò che sfugge completamente dal controllo del mago. Animando le volontà, provocando le resistenze, questi crede di controllare i soggetti, di soggiogarli e di gestire un rapporto di potere ordinato, verticale, gerarchico. Per essere forte, il mago deve credere alla sua forza e perciò non riconosce la duplicità del genio, non contempla la possibilità che coloro che paiono eseguire i suoi ordini stiano in realtà seguendo un’altra voce, che nulla è quindi così netto, che tutto è in fondo indeterminato e imprevedibile.
Ciò che al mago suggestionatore resta oscuro, sembra invece chiaro ai burattinai di cui mi parli: si tratta per loro di lasciarsi andare, insieme, alla voce del proprio genio e a quella del genio-burattino – del personaggio –, di raggiungere lo stadio d’indeterminabilità in cui burattinaio e burattino sono ormai indistinguibili.
RG: Infatti, nelle mie conversazioni con burattinai e marionettisti tornava spesso l’idea dello spazio vuoto, di quello spazio da lasciare libero perché l’animazione possa avere luogo. Mi ha fatto pensare all’omonimo libro di Peter Brook del 1968, che inizia così: “I can take any empty space and call it a bare stage. A man walks across this empty space whilst someone else is watching him, and this is all that is needed for an act of theatre to be engaged”.
AC: È in fondo uno spazio vuoto della coscienza, della volontà: è il momento in cui emerge la sfera della passività, della disponibilità all’influenza e dell’indeterminazione. Se l’animazione del burattinaio riesce, è per lo stesso motivo per cui quella del mago Cipolla fallisce: perché non si sa chi sta animando chi, e non si pretende di saperlo. Il mago politico – cioè il dittatore come ‘grande attore’, per riprendere la definizione di Mussolini offerta da Camillo Berneri – vuole instaurare un rapporto di subordinazione e assoggettamento ed esercitare un controllo dei quali il burattinaio giustamente non si preoccupa, attenendosi invece all’indeterminabilità dei rapporti suggestivi o alla duplicità della possessione. Potremmo dire che il mago politico è davvero, in tutti i sensi, un cattivo burattinaio.
Nei termini di Brook, come giustamente li intendi tu, potremmo invece dire che colui che si erge a capo o ‘grande attore’ tenta invano di riempire – coi suoi comandi – ciò che per il vero burattinaio resta un ‘empty space’. Certo, in gioco è qui una teoria dell’ispirazione (o appunto del genio), che però rivela – come tutti i nostri concetti estetici – un tenore decisamente politico. Il vuoto che è in questione, è un vuoto di comando, un’assenza di arché. Dunque alla possessione dei molti da parte del capo si oppone l’ispirazione anarchica dei tuoi burattinai, o dei geni duplici, indeterminabili. Ecco, dobbiamo diventare burattinai, artisti, raggiungere e coltivare la duplicità o l’ambiguità del genio, la perfetta inseparabilità di soggettivazione e assoggettamento, per non assoggettare e non essere semplicemente assoggettati.
RG: Com’è nata l’idea di scrivere un libro sulla suggestione? Mi sembra che accenni a una mancanza, nell’analisi politica, di riflessione sul concetto di volontà, che è qualcosa non di dato ma che si costruisce.
AC: Riprendo l’idea della volontà come costruzione – e come prodotto della suggestione – dai grandi psicologi francesi dell’Ottocento: la cito per contestare la teoria di Mayer (e implicitamente tutte le teorie della volontà come elemento primo, inderivabile, su cui si è preteso e si pretende ancora di costruire un’etica e una politica).
Ora, il personaggio del mago Cipolla in Mario e il mago, chiaramente ispirato a Mussolini, ha anche il suo modello esatto nel famoso Cesare Gabrielli, l’ipnotista che si esibiva nei teatri italiani in quel periodo e che viene ritratto anche ne I bambini ci guardano di De Sica (il film è del 1943, e Gabrielli appare qui una figura stanca, in declino, come la dittatura fascista). Alla fine dell’Ottocento, comunque, gli ipnotizzatori avevano apprestato un canone che valeva non solo per i loro spettacoli, ma anche per lo studio scientifico dei fenomeni del sonnambulismo, del magnetismo animale, dell’isteria. Charcot, per esempio, nella sua aula-teatro della Salpêtrière, come ha notato Joseph Delboeuf, allestiva dei veri e propri spettacoli nei quali l’imitazione giocava una parte essenziale e, come hanno ripetuto i suoi detrattori, non faceva che ripetere, variandolo e urbanizzandolo appena, il modello degli ipnotisti da baraccone. Dunque Mann, nel suo racconto, squaderna l’ampio catalogo delle tecniche suggestive apprestato da personaggi come il famoso Donato (un vero capostipite, del quale Gabrielli è il degno discendente) e da altri, che esercitavano invece la loro arte nelle cliniche più prestigiose. In particolare, Cipolla usa l’alternanza dell’invito suadente e del comando imperioso, cioè una tecnica elaborata proprio da Bernheim. E in effetti Mann doveva certamente conoscere le sue teorie: se non direttamente, almeno attraverso i saggi di Freud (che di Bernheim era stato anche traduttore), e innanzitutto Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921).
L’importanza di Bernheim, comunque, è in ogni senso fondamentale. Uno degli aspetti più interessanti e attuali della sua teoria è l’idea che la suggestione non si attua in maniera precisamente verticale ma, per così dire, circolare, con un effetto o un condizionamento di ritorno per cui il suggestionatore ordina patendo gli effetti dei suoi stessi ordini. Ovvero: comando, so comandare, se reagisco bene alle risposte del suggestionato. Il vero ordine scaturisce cioè dalla reazione all’ordine, è un suggerimento che, a seconda di come viene recepito e dell’effetto di ritorno, innesca un certo gioco di potere, un gioco che il suggestionatore può dominare nella misura in cui si dimostra felicemente sensibile alle risposte. In poche parole, comanda chi si convince di comandare. Non vi è dunque una posizione verticale del potere che sia data una volta per tutte; vige piuttosto un rapporto complesso, nel quale la posizione di comando viene di volta in volta costruita (proprio come viene costruita la volontà). Il suggestionatore deve così mantenersi in stato di grazia e proprio il potere carismatico ha sempre bisogno di una verifica.
Potremmo dire che il potere politico funziona secondo questa circolarità, che l’incantatore è felicemente vittima del suo stesso fascino, che ogni suggestione è un’autosuggestione, e potremmo spiegarci in questo modo il ruolo dei sondaggi, metodi di verifica che possono aiutare ma possono anche tradire, poiché sono comunque macchinosi, e non potrebbero sostituire la pura sensibilità e la riposta irriflessa. Questo gioco, che come dicevo prima resta sempre indeterminabile e insicuro, Mann lo mostra “con la lente d’ingrandimento e al rallentatore” (Lukács), lo restituisce nella sua dimensione micrologica.
RG: In quel caso si tratta anche di come il potere agisce a livello individuale, di come il mago Cipolla agisce su una persona specifica.
AC: Esatto. Si tratta del grande problema del rapporto fra l’individuale e il collettivo. Il giovane Fromm, per esempio, aveva fatto notare che in Freud (cioè in Psicologia delle masse e analisi dell’io) questo rapporto è una pura e semplice analogia, cioè resta in fondo irrisolto. Nel 1884, per fare un altro esempio, Gabriel Tarde, il maestro della sociologia, il primo vero teorico dell’imitazione e della moda, aveva definito la vita in società come uno stato di sonnambulismo (“Non avere che idee suggerite e crederle spontanee: questa è l’illusione del sonnambulo come dell’uomo sociale”), affermando che per spiegare i fenomeni dell’imitazione generale il sociologo deve cedere la parola allo psicologo, cioè guardare al caso particolare del rapporto tra terapeuta e paziente. Tarde poteva citare così i teorici contemporanei della suggestione (“Bernheim e gli altri”) perché nel suo sistema il passaggio dalla psicologia alla sociologia, dal singolo al grande numero, è possibile sulla base del ‘sociomorfismo universale’, cioè dell’idea che tutto è immediatamente sociale, che ogni essere e ogni fenomeno non è che un’associazione (secondo Tarde imitativa) di esseri e fenomeni. Ma consideriamo da questo punto di vista la teoria hegeliana del ‘duplice genio’: l’indeterminazione delle influenze non confonde solo due geni intesi come due individui, ma ogni ordine e ogni risposta nella lunga serie delle influenze collettive. Il comando del magnetizzatore si confonde con altre inclinazioni, che vengono dalla ‘seconda natura’, dall’educazione, da una storia personale che non è solo personale. Non vi è allora un rapporto a due che, moltiplicandosi, o per una trasposizione analogica, diviene un rapporto di massa. In realtà il suggestionatore non è che il portavoce di un potere che ha una storia molto più lunga, di un gioco suggestivo che coincide con la sua stessa tradizione. Bernheim parlava di un condizionamento sempre anteriore.
RG: Scrivi che lo stato totalitario è “non solo il più assassino, ma anche il più ipnotico e suggestivo”, e che “la suggestione autoritaria è l’esito necessario e il fantasma mai sopito di ogni stato”.
AC: La spiegazione della frase di Bernheim secondo cui “tutto è suggestione” viene dalla storia della biopolitica: il biopotere è suggestivo. Secondo la tesi di Foucault, il biopotere prende in carico e insieme detiene le condizioni di vita della popolazione, se è potere di gestire, curare la vita e di disporne respingendo nella morte, e il totalitarismo non è che un suo sviluppo parossistico: è il potere più protettivo, che più si prende cura della vita degli individui, che più vuole proteggerli e fortificarli e, d’altra parte, è anche il potere più assassino, che espone la popolazione alla morte (la morte è capace di purificare e rafforzare la razza). Quello che io cerco di aggiungere è, come già accennavo, che il sistema biopolitico-securitario è in origine (storicamente e logicamente) un apparato suggestivo, e che pertanto il totalitarismo rappresenta (logicamente e storicamente) uno sviluppo estremo degli stessi dispositivi o delle tecniche di suggestione: è insieme il sistema più intensamente bio-tanatopolitico e suggestivo.
Ho ricordato il libro del filosofo e militante anarchico Camillo Berneri, Mussolini grande attore (1934), la prima analisi della prestazione ‘attoriale’ del capo. I divi della scena politica del primo Novecento usano in effetti le trasmissioni radio, il cinema e i cinegiornali. I loro canovacci erano stati apprestati d’altro canto dagli psicologi della massa della fine dell’Ottocento: la Psicologia delle folle di Gustave Bon era diventato un testo paradossalmente ispiratore, e il concetto base di queste analisi era il concetto di ‘prestigio’. Secondo Tarde, il capo è prestigioso, e questo basta a farne un capo. Non a caso il mago Cipolla è un attore, un ipnotizzatore e un prestigiatore.
RG: All’interno di quest’orizzonte biopolitico, che paradigma propone la figura di Masetti? Io ho spesso guardato alla sua vicenda attraverso le nozioni di confessione, aleturgia e parrhesia, analizzate da Foucault nei suoi ultimi cicli di lezioni al Collège de France. Se lo stato predispone delle tecniche attraverso cui un soggetto deve legarsi, veridicamente, alle proprie azioni, possiamo forse guardare alla presunta amnesia di Masetti come a un tentativo di mettere in crisi il dispositivo statuale della confessione? Nel suo caso, un soggetto si dichiara separato dalle proprie azioni in quanto amnesico, estatico, fuori-di-sé. Se il potere statale vuole al contempo produrre una verità e legare il soggetto alle proprie azioni, il controesempio di Masetti propone un individuo separato dalla propria azione.
AC: Nell’ultimo corso al Collège de France, nel 1984, Foucault individua alcuni esempi di cinismo moderno nell’artista e nel militante politico. Il problema del rapporto fra il nichilista a cui si riferisce Foucault e la figura di Masetti andrebbe indagato a fondo. D’altro canto la suggestione è una definizione dei soggetti. Così come Foucault diceva che non esistono soggetti ma processi di soggettivazione, potremmo dire, con Bernheim, che non ci sono soggetti ma solo giochi di suggestione. Questi tendono a determinare, stabilire le resistenze, dunque le debolezze, le variabili del carattere. La costruzione del soggetto-paziente è una sorta di dressage, di allenamento, di educazione. Ma proprio il carattere è inafferrabile e tutta la costruzione può, come nel caso di Masetti, cedere all’improvviso. La disciplina militare, che come diceva Jarry è un ultimo abbrutimento allo stato ipnotico, può dar voce al genio imprevedibile.
Torniamo a Bernheim e alla sua clinica di Nancy. Davvero tutto è suggestione? Non c’è altro che suggestione? Sì e no. Delboeuf, che ho già nominato, condivideva il motto di Bernheim. Egli aveva compiuto, come Freud d’altronde, una visita a Nancy e aveva assistito agli impressionanti successi della terapia suggestiva. Ma aveva anche riconosciuto che proprio dove tutto è suggestione, lì può apparire in realtà un soggetto non suggestionabile. Si tratta dello stesso Bernheim. In qualsiasi modo si cerchi di suggestionarlo, dice Delboeuf, egli si dimostra refrattario: se il suggestionatore infatti cerca di farlo concentrare su qualcosa (certi ipnotisti usavano già allora un punto o un diadema luminoso), egli resta unicamente concentrato sulla tecnica che l’altro sta cercando di utilizzare. Direi che al di là della dinamica di potere (e di morte) che lega Cipolla e Mario, Stroppa e Masetti, emerge allora un piano diverso, che potremmo dire della pura tecnica. Un piano non suggestivo, non violento, che Walter Benjamin chiamava
dei ‘mezzi puri’. Proprio contro lo spettacolo imbastito dai totalitarismi, Benjamin e Brecht in effetti avevano fatto appello alle tecniche. Il teatro epico brechtiano è una tecnica capace di distruggere gli effetti di rapimento, di fascinazione su cui si basa il teatro classico. Per Brecht, come per Benjamin, il pubblico del cinema o del teatro classico è una massa in stato di ipnosi, che segue ammaliata il capo o l’attore sulla scena. Il vecchio teatro – dice Brecht – è un teatro di suggestioni, mentre il teatro epico si fa con gli argomenti.
RG: Alla fine del libro parli anche dell’idea di tradizione in Benjamin, cioè di una vita in cui “non ci sono propriamente maestri o capi poiché tutto è sempre educazione”. Si tratta di un altro paradigma da opporre al potere suggestivo?
AC: Sì, è in fondo la stessa cosa di cui parlavo prima. Benjamin vuol far scomparire dall’educazione la figura suggestiva del maestro, o meglio la gerarchia che separa maestro e allievo, proponendo una didattica che è, allo stesso tempo, apprendimento (o un apprendere che è insegnare). Sto citando, come nel libro, una lettera giovanile a Gershom Scholem, ma la coerenza fra il Benjamin d’ispirazione più anarchica degli anni Dieci e Venti e il marxista eterodosso degli ultimi anni è molto stretta. Nel grande saggio del 1921, Per una critica della violenza, la tecnica viene collocata nella sfera dei ‘mezzi puri’ non violenti (il che ovviamente non significa: neutrali. Se in virtù della sua presunta neutralità la tecnica finisce immancabilmente nelle mani del più forte, per Benjamin si tratta invece di isolare la tecnica dalla Gewalt, dal potere, dalla violenza, dalla forza dell’autorità). Il tema della tecnica viene poi ripreso e rielaborato dalla metà degli anni Trenta, nel celebre saggio dedicato a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e in quelli, appunto, sul teatro di Brecht. In una importantissima nota del saggio sulla riproducibilità, Benjamin affronta il tema della massa suggestionata, di Le Bon, della psicologia delle folle e della classe rivoluzionaria. Alla folla, la materia prima dei fascismi, che è sempre compressa, in uno stato di tensione e insieme di panico, impaurita e pericolosa, sensibile all’ebbrezza della guerra e disposta alla follia razzista, egli oppone un’idea di classe assolutamente originale. Questa infatti non viene concepita a partire da una base di massa (gli operai, i contadini), ma da un momento distruttivo, di dissoluzione o allentamento della folla, delle tensioni che la animano, ovvero come allentamento o distensione (Auflockerung) della massa ipnotizzata.
Ora, il teatro epico è appunto una tecnica di distensione, di Auflockerung. Nel momento in cui il pubblico tenderebbe a seguire, rapito, la vicenda, Brecht la interrompe bruscamente, per dare luogo all’analisi dei fatti. Si studiano così le diverse possibilità: perché qualcosa è accaduto, cosa non è accaduto, come e perché tutto sarebbe potuto andare altrimenti... La storia mostra cioè lo spettro delle possibilità, viene allentata, come il maestro di danza – dice Benjamin – allenta le articolazioni della ballerina per farle compiere evoluzioni inaspettate. Ma allora insieme alla storia, anche il pubblico si rilassa, si allenta, diventa cioè un collaboratore, non segue più lo spettacolo in uno stato passivo e di tensione quasi ipnotica: osserva gli eventi con distacco e li analizza criticamente. Viene meno allora anche la ‘quarta parete’, il muro immateriale che separa materialmente gli spettatori dalla scena, cioè ogni differenza fra drammaturgo, attore e pubblico. Il rivoluzionario, diceva in effetti Benjamin, non si erge sulla massa, come un divo, è invece capace di lasciarsi sempre di nuovo riassorbire nella classe. La sua è una prestazione anti-suggestiva, basata sulla tecnica, e il giusto orientamento politico è per lui un giusto orientamento tecnico. Possiamo insomma riconoscere facilmente, dove cade la “quarta parete”, anche una diversa declinazione dei temi della lettera a Scholem sull’educazione.
RG: Molti burattinai in Colombia mi hanno detto di essere interessati all’amnesia di Masetti: da una parte perché essa è, in qualche modo, un paradigma della pratica del burattinaio; dall’altra perché può essere vista come un ‘atto anarchico perfetto’. L’amnesia tenta di smantellare la responsabilità, ovvero quei meccanismi che
lo stato utilizza per legare un individuo alle sue azioni. In un breve film del 1964, in cui è intervistato da Sergio Zavoli, Masetti continua a sostenere di avere un vuoto di trentasei ore nella memoria, e domanda: “Come fate a esser pentito di una cosa che non sapete?”.
AC: Masetti ha perso il compos sui, la padronanza di sé. D’altra parte si trova in una caserma, sottoposto alla disciplina militare. Un’azione sua, in quel contesto, non potrebbe darsi: dunque al suo posto può esservi soltanto una lacuna. Quella di Masetti è una frase molto giusta e intelligente, che rovescia la possessione contro lo stesso potere militare che si appropria delle vite altrui. Essa rovescia inoltre il problema della responsabilità o della irresponsabilità di coloro che sono sottoposti a quel potere, trasforma e mina la frase “non sono io il responsabile, obbedisco agli ordini” (pensiamo naturalmente a Eichmann col suo “non sono io a non obbedire”). Insomma: poiché un tempo avete voluto assoggettarmi, non venite ora a chiedermi spiegazioni. Il problema della responsabilità e dell’azione lascia spazio al tema dell’imprevedibilità, o della duplicità che rende l’una e l’altra inassegnabili.
RG: Masetti è poi ricoverato e dichiarato pazzo dallo Stato che, per non farlo diventare un eroe, non può giustiziarlo. Il dispositivo giudiziario cede quindi il posto a quello psichiatrico; il suo gesto è trasformato da politico a ‘degenerato’ o, per usare un termine di Foucault, ‘anormale’. Tu scrivi che il governo biopolitico, come macchina di suggestione di massa, “cattura la popolazione tracciando le partizioni fra sano e malsano, normale e anormale”.
AC: Sì, e lo fa in nome delle categorie di coscienza, volontà, padronanza di sé. Bisognerebbe invece mostrare che coscienza, volontà e padronanza di sé non sono, in realtà, che prodotti di un gioco suggestivo.
Il testo è tratto da Riccardo Giacconi, The Variational Status, appena co-pubblicato da Humboldt Books, ar/ge kunst Bolzano e FRAC Champagne-Ardenne.