Billie Eilish, non so come sentire
Nel maggio scorso Billie Eilish ha pubblicato il terzo disco a suo nome, Hit me hard and soft, scritto, suonato e prodotto come i precedenti con il fratello Finneas O’Connell. Dieci mesi prima la cantante aveva dato alle stampe What was I made for?, canzone composta dai due per la colonna sonora del film Barbie di Greta Gerwig, canzone che avrebbe poi vinto un Golden Globe, un Grammy Award e un premio Oscar. Fin dal primo ascolto il brano mi fece pensare a una canzone come Falling di Angelo Badalamenti, il tema portante della serie tv Twin Peaks. Proprio come succedeva col motivo di Badalamenti, la canzone pareva abitare una dimensione onirica. Più che di canticchiarla, s’era tentati di sospenderla in modalità repeat per godere il più a lungo possibile dello stato di quiete che ispirava: turns out I’m not real, just something you paid for, dice il testo della canzone: pare che io non sia reale, solo qualcosa per cui hai pagato.
Quel senso di trasognatezza si è intensificato non appena ho messo sul piatto il nuovo disco di Billie Eilish e ascoltato la prima canzone, Skinny. La chitarra tremolante di Finneas che imposta il tono emotivo, il gemito fragile e ondivago di Billie, le acquatiche armonie vocali che riverberano come tessitura di fondo, il tutto suggellato da un’inattesa quanto deliziosa coda cameristica affidata all’Attacca Quartet. Un gran bell’esercizio di equilibrismo emotivo prima ancora che musicale. Per settimane ho assediato amici e conoscenti chiedendo loro se avessero ascoltato il disco, perché lo stesso mi sembrava racchiudere, oltre a una manciata di belle canzoni, un significato profondo rispetto al tempo che stiamo vivendo, qualcosa che però non riuscivo a mettere compiutamente a fuoco. Per farlo ho letto delle recensioni, ho guardato una lunga intervista a Billie Eilish e al fratello dove mi si sono chiariti molti aspetti legati al processo che ha portato alla realizzazione del disco, le ragioni dietro le canzoni, la maturazione artistica della cantante, come si è evoluto il rapporto col fratello sul piano artistico, il fatto che la Eilish ritiene che questo sia il suo lavoro più personale, e via dicendo. E poi ho riascoltato il disco. Niente. Per quanto seducente la sua essenza continuava a sfuggirmi. Alla fine, ho optato per la meno verosimile delle ipotesi: e se l’essere fuori fuoco fosse l’essenza di questo disco?
I don’t know how to feel
But I wanna try
I don’t know how to feel
But someday I might
(Non so come sentire, ma ci proverò. Non so come sentirmi, ma un giorno potrei riuscirci).
In una delle recensioni in cui mi ero imbattuto, firmata da CJ Thorpe-Tracey per la rivista britannica The Quietus, si legge: “non credo vi sia qualcuno nella musica mainstream moderna (semplifichiamo pure in pop, ndr) – e di certo nessuno sulla stessa scala di fama mondiale – che sia disposto ad analizzare e a rivelare l’ampiezza del proprio trauma con l’intensità di Billie Eilish. Artificio performativo e ricerca di autenticità si tengono vicendevolmente la mano”. Mi colpì anzitutto la parola trauma perché non avevo considerato, ascoltando le canzoni di Billie Eilish, che le stesse potessero esser lette come la reazione a un trauma. Non avevo insomma colto, proprio come già succedeva con le melodie composte da Angelo Badalamenti per David Lynch, che quelle bolle di irrealtà potessero svolgere la funzione di un airbag emotivo il cui scopo primario è quello di proteggerci dalle insidie del mondo e dalle ferite che ci procura. Quanto più stranianti, quanto più asincrone rispetto alla realtà che le circonda, tanto più efficace il loro effetto lenitivo.
Uno dei motivi del fascino e del successo di Billie Eilish mi pare consista nel fatto che nelle sue canzoni invenzione artistica e racconto personale sono non solo inscindibili, ma frutto di due menti artistiche che stanno evolvendo e maturando l’una di fianco all’altra. Billie Eilish e il fratello rappresentano il punto più sofisticato del cosiddetto bedroom pop, il pop pensato e prodotto fra le mura della propria camera, il pop che non necessita di studi d’incisione, produttori esterni o budget fuori norma. Billie Eilish e Finneas hanno portato questo processo creativo a un livello di perfezionismo tecnologico che si smarca ormai dalla dimensione lo-fi solitamente associata al genere, senza per questo rinunciare alla componente principale della sua poetica: la ricerca di intimità con l’ascoltatore unito alla vulnerabilità di chi racconta. I dischi di Billie Eilish sono lo-fi nella misura in cui la cantante registra le parti vocali sul divano di casa usando un microfono di bassa qualità e perché al fratello capita di ricavare il suono di un rullante dall’accensione di un fiammifero in bagno (succedeva in Watch, dall’EP d’esordio, l’equivalente dello schiocco delle dita ai tempi di Elvis), ma poi l’estetica lo-fi si trasforma in un campo di sperimentazione e di ricerca dove la voce e i suoni più rudimentali vengono sottoposti a un sofisticato trattamento digitale, anche laddove mantengono il respiro acustico. Siamo cioè di fronte a un processo creativo che parte deliberatamente da un elemento scabro ed essenziale (un segmento vocale di Billie Eilish o l’accensione di un fiammifero in bagno), per poi precisare in una seconda fase, quella di mix e di produzione, il senso e le intenzioni da dare alla canzone.
Quanto sottolineato da CJ Thorpe-Tracey nella recensione su The Quietus – artificio performativo e ricerca di autenticità si tengono vicendevolmente la mano – è forse l’aspetto più rilevante nel lavoro di Billie Eilish. Le canzoni s’impregnano di senso solo nel momento in cui passano attraverso il processo di elaborazione digitale. Può cioè succedere che la validazione di uno spunto poetico emerga soltanto quando la canzone viene sottoposta al controllo narrativo in fase di produzione. Per raggiungere il suo scopo, non importa quanto autentica o azzeccata, un’intuizione poetica in Billie Eilish pare sempre avere necessità di passare attraverso un ulteriore processo di autenticazione. È in questo secondo stadio di lavorazione che la canzone acquisisce una forma compiuta e una sua identità. Di fronte allo schermo di un computer, intenti a elaborare una traccia vocale o un suono nativo, Billie Eilish e Finneas O’Connell non stanno soltanto posizionando quelle tracce nel modo migliore all’interno del mix, e non stanno soltanto organizzando un racconto sonoro come succedeva già ai tempi di George Martin (il quinto Beatle), ma stanno di fatto affidando a un software l’autenticazione ultima di un sentimento umano.
È altrettanto interessante notare come Billie Eilish usi la voce alla stregua di uno strumento musicale ma anche come uno strumento di moltiplicazione di sé. Fin dal primo disco quella che sentiamo è una voce plurima, nel senso che la Eilish e O’Connell spesso registrano diverse tracce di una data parte vocale e poi addizionano quelle tracce in fase di mix creando un originale effetto di stratificazione armonica, così che a cantare la stessa frase o la stessa linea melodica non è una sola voce ma tante varianti della stessa persona: un coro di personalità o di identità parallele. Questo è uno degli aspetti più intriganti del suo lavoro. Lo è sul piano musicale perché quest’uso della voce le consente di coprire uno spettro armonico ed emotivo allo stesso tempo vasto e variegato, occupando uno spazio all’interno della canzone che altrimenti sarebbe destinato ad altri strumenti, ma determina anche, sul piano poetico, la possibilità di presentarsi come un’entità mutevole che affida alla voce il compito di esibire e insieme di occultare le sue tante facce, in particolare proprio le emozioni fuori fuoco (I don’t know how to feel).
Sarebbe davvero interessante avere sott’occhio la sessione in Logic Pro X – l’applicazione DAW (Digital Audio Workstation) usata da Phinneas O’Connell per produrre musica – di una canzone come Bittersuite, riuscito esempio di organizzazione spaziale del suono. Se ascoltiamo con attenzione il brano che, come indica il titolo, si sviluppa in forma di suite, e se abbiamo dimestichezza con la rappresentazione grafica dei software oggi in uso per registrare la musica (Logic Pro X ma anche Pro-Tools), riusciamo letteralmente a vedere il brano che prende forma sotto i nostri occhi come se avessimo di fronte una partitura orchestrale. Con un colpo d’occhio è possibile capire quale ruolo è assegnato ad ogni singolo strumento o ad ogni singolo suono che aggiungiamo al mix, e qual è la sua funzione all’interno della sequenza sonora del brano. Vero è che l’acquirente di Logic Pro X di Apple oggi trova gratuitamente nel pacchetto la sessione di un’altra canzone di Billie Eilish, Ocean Eyes, dove in particolare è possibile notare come le tracce vocali ritenute nel mix finale siano sei, ognuna con una diversa funzione e denominate rispettivamente verse vocals, verse harmony, vocal stack, vocal response, ghostly vocals e vocal textures.
Se è vero che il tema dell’identità è al centro dell’opera di Billie Eilish, è altrettanto vero che in questa individuazione di sé, nella dimensione adolescenziale o post-adolescenziale che ha rappresentato fin qui il suo campo d’azione, tutto pare condurre verso un orizzonte di incertezze, di dubbi, di una tormentata messa a fuoco di sé: chi sono, come dovrei sentire, come mi devo relazionare agli altri, come posso vivere da popstar senza smarrire la mia identità. Nelle sue canzoni l’emozione umana è il cuore stesso del racconto, ma la sua certificazione passa sempre attraverso una serie di interventi di natura digitale che ne informano letteralmente la sostanza. Il disco Hit me hard and soft ha raccolto da un lato critiche entusiastiche – Neil McCormick sul Telegraph l’ha paragonato addirittura a Blue di Joni Mitchell; Zane Lowe a The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd – e dall’altro l’ammirazione un po’ diffidente di chi, pur riconoscendone la bontà, avverte come queste canzoni si presentino come un prelibato nutrimento per una moltitudine di entità singole affamate di emozioni.
Al di là dei suoi aspetti tecnici, stilistici e persino poetici, la canzone è anzitutto un’esperienza che rompe il diaframma dell’individualità per traghettarci in uno spazio comune. Falling, il tema di Twin Peaks, svolgeva la funzione di balsamo per una comunità alle prese con la manifestazione elusiva del Male. L’irrealtà dei temi di Badalamenti, per stranianti o spettrali che fossero, rispecchiavano pur sempre lo stato di tensione emotiva di una collettività, e come tali puntavano a tutelare quella collettività da un nemico comune. Forse proprio in questo risiede la principale differenza fra la trasognatezza dei temi di Badalamenti e quella altrettanto pregnante delle canzoni di Billie Eilish: pur se amate e condivise da una moltitudine di ascoltatori, le canzoni della Eilish si presentano come il rifugio di tante entità singole, impermeabili al mondo esterno, e danno la sensazione, ma spero di sbagliare, che nel definire con tanta maestria uno spazio di espressione individuale finiscano col negare alla canzone la sua funzione vitale: tessere il filo emotivo di una comunità.