Jonathan Haidt: la generazione ansiosa
«Il vialetto serpeggiava tra alberi di arance e limoni, e al posto dei pacifici ciottoli rossi c'erano, ogni tanto, mattonelle con accorati appelli all'ispirazione. “Sogna” diceva uno, con la parola incisa dal laser nella pietra rossa. “Partecipa” diceva un altro. Ce n’erano a dozzine. “Socializza”, “Innova”, “Immagina”. Per poco non calpestò la mano di un giovanotto con una tuta grigia; stava installando un'altra mattonella che diceva: “Respira”.»
Sono passati oltre dieci anni da quando Mae Holland si affacciava all'idillico campus del quartier generale del Cerchio, la Big Tech che è il vero protagonista dell'omonimo romanzo di Dave Eggers, e pensava “Mio Dio, questo è un paradiso”. Una storia che ancora poteva parere distopica si apriva con una serie di esortazioni, di verbi che hanno in parte subito uno slittamento semantico che pare sospetto piuttosto di svuotamento. Perfino l’esortazione a respirare suona diversa, se è vero che il respiro viene trattenuto da alcuni durante la digitazione in una cosiddetta “apnea digitale”, con un inceppamento che poi si fa automatico e trasmigra nelle apnee notturne. L'affanno nella respirazione è anche tra i sintomi della nomofobia (da “no-mobile-phone phobia”), neologismo registrato dai dizionari negli anni recenti che segnala la paura di restare sconnessi dal proprio cellulare.
La dipendenza dalla rete non è ancora ufficialmente registrata come patologia dal DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ma è oggetto di studi e terapie, e certo i sintomi elencati alla voce di wikipedia ricordano quelli di altre dipendenze, non solo da sostanze ma da abitudini compulsive – la dipendenza da videogiochi è per l’OMS una malattia dal 2018. Del resto, il “digital detox” non è più solo un desiderio o un modo di dire: a una prima ricerca su google, compare nel sito dell’Agenda digitale europea e in quelli di noti istituti sanitari. Solo che adesso non basta più fare come Jonathan Franzen, che se ben ricordo per scrivere Le correzioni aveva tappato con la cingomma la presa del cavo di rete del computer. E se anche il wi-fi per un po’ aveva lasciato dei buchi nello spazio e quindi nel nostro tempo – la breve epoca in cui si potevano eleggere a oasi di produttività le allora poco tecnologiche biblioteche italiane – dall'arrivo dell'iPhone nel 2007 la connessione è con noi sempre; e gli effetti su chi ha conosciuto solo questa realtà, ossia la generazione Z, i nati dopo il 1995, cominciano non solo a farsi sentire ma a essere misurabili.
Più che “con noi”, la connessione è dentro di noi: l’abbiamo introiettata. In particolare l'hanno introiettata i ragazzi che ci sono cresciuti, e che sono ormai in rete in alcuni paesi per un monte ore equivalente a quello di un lavoro full-time, e per il resto del tempo comunque pensano a quello, ne sentono la mancanza, restano nel mondo fisico “in prestito”, con il retropensiero al mondo nel telefono, a quel che potrebbero ricevere o postare.
Del resto i percorsi della dopamina e il meccanismo di ricompensa che inducono a quest’allerta permanente, e le innovazioni per renderla tale – like, retweet, infinite scrolling che porta a raddoppiare la permanenza on line, ecc. – sono studiati scientificamente. Se nel 2020 il documentario The Social Dilemma aveva scosso molti, dovremmo ormai tutti essere consapevoli che l’esistenza online di default è l'obiettivo delle piattaforme, il modello di business su cui si fondano: vendono la nostra attenzione per un tempo più prolungato possibile, nell'arco della nostra giornata (erodendo le ore di sonno, con effetti più devastanti sul cervello ancora plastico di bambini e adolescenti) ma anche della nostra vita (si punta ora ad assuefare piccoli in età prescolare; secondo i dati Unesco in Francia, per esempio, i bambini sotto i due anni passano già oltre tre ore al giorno di fronte allo smartphone). Dobbiamo essere sempre di più a usare la rete, passarci sempre più tempo, e postare e rimbalzare sempre più “contenuti”, in modo da ingaggiare altri. Una frenesia in cui siamo insieme lavoratori non retribuiti e merce. Dei dipartimenti dedicati a studiare modi e strumenti sempre più sottili e rapaci per impadronirsi della nostra attenzione racconta molto bene Johann Hari in L'attenzione rubata (La nave di Teseo, 2023) frutto appassionante di tre anni di ricerche, incontri ed esperimenti personali sul tema, con descrizioni e interviste che dovrebbero bastare a farci sentire che, da soli, resistere non serve a niente, o quasi. Non si tratta in questo caso di “innovazioni” o di “invenzioni” come le tante del passato, come vorrebbe chi taccia di luddismo, passatismo e tecnofobia chi manifesta preoccupazione o vorrebbe il riparo di qualche regolamentazione. Sono innovazioni onnipervasive e studiate perché agiscano fisicamente sull'individuo in modo che da solo non riesca a sottrarvisi. Inoltre, quando inizia nell’infanzia, il martellamento impedisce a chi cresce di compiere esperienze che solo in determinati anni possono fissarsi nel corpo, che comprende il cervello, e plasmarne le funzioni cognitive; il tempo perduto quindi in questo caso lo è per sempre, perché il suo peso è qualitativo, specifico dell’età, non quantitativo.
Se il costo individuale è enorme, viene anche da chiedersi quale sia il costo sociale, per la civiltà stessa. Qual è il costo-opportunità (ossia quello a cui giocoforza si rinuncia quando si sceglie, e si investe tempo, denaro, energia in qualcosa) della somma di vite passata davanti allo schermo di un cellulare? Come si chiede il sociologo francese Gérald Bronner in Apocalypse cognitive, ancora non tradotto: “Quali sono i Newton, gli Einstein o i Darwin che non potranno sviluppare appieno le proprie potenzialità intellettuali perché una parte della loro immaginazione sarà stata assorbita da zuccherini mentali invece che dal duro sforzo dell'esplorazione metodica del possibile?”. Senza arrivare ad esempi così alti, chiedersi che cosa succederà di una civiltà organizzata in questo modo è una cosa che conviene a tutti – considerando anche che il digital divide adesso ha assunto anche un altro significato: sono i ragazzi in condizioni più disagiate a passare più tempo al cellulare.
In questo sprofondamento nello schermo rinunciamo al “capitale sociale” duraturo, fatto di conoscenze a tu per tu, di relazioni che si dispiegano nella vita non editata a beneficio altrui, in cui il corpo (quello vero, che contiene, che è le nostre emozioni), conta. E lo sostituiamo con un “capitale social” che fa venire in mente le “persone a punti” della serie Black Mirror, e che costringe a vivere tesi alla confezione di un’iconografia di sé che finisce per fare velo anche all’incontro intimo, non mediato con l’altro. E anche con noi stessi.
Sulla scorta di una serie di dati e indagini a largo raggio, e di una visione del ben-essere psicoemotivo radicata nei saperi filosofici e religiosi e comprovata dalle neuroscienze, al dovere di proteggere i minori da ciò che crea dipendenze ci chiama con decisione lo psicologo sociale Jonathan Haidt (di cui in Italia erano già usciti, per Codice, Felicità: un’ipotesi. Verità moderne e saggezza antica, e Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione) nel suo nuovo saggio, The Anxious Generation. How the Great Rewiring of Childhood Is Causing an Epidemic of Mental Illness, ora tradotto Con il titolo di La generazione ansiosa da Rizzoli. Un’anticipazione che non poteva non colpire era uscita su The Atlantic (poi tradotta da Internazionale), creando immediatamente un fiorire nel mondo di articoli e commenti, e facendo schizzare il volume fresco di stampa in testa alla classifica del New York Times, in cui è sceso a distanza di qualche mese al terzo posto.
A partire dalle rilevazioni dell’aumento dai primi anni Dieci – appena dopo l'introduzione di like, retweet e fotocamera frontale, e l'acquisizione di Instagram da parte di Facebook – nella generazione Z dei paesi occidentali, di ansia, depressione maggiore, disturbi dell’attenzione, anoressia, schizofrenia, accessi ospedalieri per atti di autolesionismo, suicidi, e comparando questi dati con quelli relativi alle altre fasce di età, Haidt stabilisce con la diffusione dello smartphone non solo delle correlazioni ma dei nessi causali. Analizzando i fattori essenziali per uno sviluppo sano, fa risalire l'inizio della crisi a un periodo già precedente, ossia agli anni Novanta. Fino ad allora il gioco libero senza la supervisione di genitori adulti, e tra bambini di età diverse, era la regola, e permetteva in situazioni tutto sommato poco rischiose di acquisire sicurezza, capacità di gestire e riparare i conflitti, propensione a creare relazioni e gruppi – un apprendimento sociale per cui il nostro cervello è una spugna in particolare dai nove ai quindici anni. In seguito, con la maggiore mobilità, l’allentarsi dei legami di vicinato, l'allungarsi della giornata scolastica, la propagazione più rapida di notizie di casi allarmanti quanto rari, e la sparizione di un vivere comune che in qualche modo si faceva spontaneamente garante anche per i figli altrui, si è generato tra i genitori, che di figli ne hanno sempre meno, un culto della sicurezza sopra tutto. Così, bambini e ragazzi sono stati meno esposti a quelle attività fondamentali per il loro sistema naturalmente “antifragile”, ossia che si struttura e impara dall’incontro con sfide e ostacoli, con l’imprevisto. Dell’esito tra gli studenti universitari di una crescita iperprotetta Haidt aveva già scritto nell’articolo The Coddling of the American Mind, poi diventato un libro, che adesso risulta particolarmente interessante rileggere alla luce delle derive della cultura woke. Con l'arrivo del telefonino è poi arrivato lo strumento ideale, il “guinzaglio elettronico” come ben lo definiva il titolo di un volume del 2009 pubblicato da Donzelli – scriveva Daniela Brancati nell’introduzione: “Oggi si può ridurre in schiavitù una persona senza che se ne renda conto, creando intorno a lei una fitta nebbia, usando strumenti e oggetti di pratica quotidiana, familiari”. Con lo smartphone infine è sopravvenuta una progressiva diminuzione dell'attività fisica all’aperto (colpisce la diminuzione drastica degli accessi ospedalieri per piccoli infortuni legati al gioco), in una protezione che in realtà è finta, perché espone nel contempo bambini e ragazzi a tutti i rischi connessi alla rete, al suo anonimato, a messaggi che possono essere programmati per sparire. Se nel mondo fisico da qualche anno in Italia vige l’obbligo di accompagnare a scuola i figli fino ai quattordici anni, in quello virtuale nessuno li protegge dall’accesso a qualunque contenuto e contatto.
Parallelamente, l'immersione dei genitori nei loro stessi cellulari spinge a una convivenza di solitudini – l'acronimo Lat, che segnalava Living Apart Together, ossia l'abitudine delle coppie a vivere in case diverse, adesso potrebbe segnalare all’opposto una tendenza al Living Alone Together.
Nell’insieme di questi meccanismi Haidt vede dei veri e propri bloccanti della transizione all'età adulta. Così, i ragazzi fanno sempre meno sesso (a cui il loro immaginario può venire iniziato da contenuti porno di ogni tipo – e forse anche lì sta la radice di terribili episodi di stupri di gruppo), prendono meno la patente, cercano meno lavoro.
Al tempo sottratto ad altre attività, al calo e allo scadimento di relazioni sociali sincroniche, in gruppi in cui non si può entrare e uscire o essere cacciati con un clic, alla mancanza di sonno, alla frammentazione dell'attenzione e allo sviluppo una dipendenza che lascia comunque insoddisfatti, come quella dalle slot machine, si aggiunge il senso di minaccia di chi nell’arena dei social può essere in ogni momento oggetto di derisione o demolizione. Forse anche per tutto questo non è strano che un film di animazione che ha per protagonista l'Ansia, Inside out 2, sbanchi al botteghino. L'attacco alle ragazze, la cui approvazione sociale è più legata all'immagine fisica, ora sempre in vetrina, è particolarmente subdolo, tanto che una lettura spiegherebbe “perché le femmine sembrino oggi mettere in dubbio le proprie caratteristiche di genere, dichiarandosi omosessuali, ma soprattutto bisessuali o transessuali in misura maggiore rispetto ai loro coetanei. Inconsciamente, si terrebbero così aperta una uscita di sicurezza”, e il rovesciamento di direzione della transessualità, con una prevalenza verso il maschile, come riporta Luigi Zoja nel suo Il declino del desiderio (Einaudi, 2022). I maschi sono maggiormente vittime di abuso di videogiochi e pornografia, fenomeni destinati ad aumentare con il perfezionamento mimetico della realtà (il film preferito di Sam Altman, ceo di Open AI, è Lei, in cui Joaquin Phoenix nel 2013 si innamorava della voce femminile dell’assistente virtuale, artificialmente intelligente ed empatica; adesso l’amante te la puoi costruire – qui una riflessione sulle implicazioni). Anche la loro salute mentale peggiora, pur in maniera diversa, e cresce il numero di quelli che paiono in qualche modo evitare la vita, come i Neet, gli hikikomori o i cosiddetti “erbivori” giapponesi.
A maggio la Commissione Europea ha avviato per queste ragioni contro Meta un procedimento formale. A fronte delle accuse provenienti da più parti di danni alla salute mentale degli adolescenti, è solo di pochi giorni fa l’annuncio del gigante statunitense di un futuro progetto pilota in cui saranno per la prima volta resi accessibili a un gruppo di ricercatori dei dati sull’utilizzo di Instagram.
L’appello di Haidt è perentorio come il titolo del suo articolo sull'Atlantic: End the phone-based childhood now. Ed è articolato nell'ultima parte del libro, oltre che sul suo www.afterbabel.com, che contiene anche molte indicazioni pratiche sulle azioni da intraprendere a vari livelli: familiare, scolastico, locale, istituzionale. L’urgenza è comunque quella di azioni collettive, alla Durkheim, che dovrebbero essere rese possibili anche dal fatto che molti – ragazzi e adulti – si dichiarano disposti o desiderosi di dismettere lo smartphone “se lo facessero anche gli altri”. L’aumento delle vendite dei dumbphone, simili ai vecchi telefonini, parrebbe suffragare questo dato. Intanto, come avvicinarsi all’obiettivo? Secondo Haidt, dovrebbe essere fissata una “maggiore età digitale” a sedici anni (ancora bassa se si tiene conto dei tempi evolutivi del cervello), le piattaforme dovrebbero essere obbligate per legge a verificare le età, le scuole dovrebbero bandire l’uso del cellulare non solo durante le lezioni ma per tutto l’orario. Non è più un’epoca in cui basta lo smalto dell’insegnante a interessare, e del resto chi di noi boomer avrebbe potuto interessarsi al poveretto avendo sotto il banco una sorta di borsa di Eta Beta con dentro tutti i suoi giochi, giornaletti, passatempi preferiti, “amici”, che per di più l’avessero pungolato di minuto in minuto con squittii di vario tipo? È una competizione che neanche il prof Robin Williams dell’Attimo fuggente forse riuscirebbe a vincere! La misura invocata guarda inoltre molto più in là della prestazione scolastica: un tempo così lungo esente dallo smartphone, con ricreazioni più lunghe in cui giocare e chiacchierare, garantirebbe più spazio mentale, e una bella pausa di libertà dalle ansie così ben descritte da Haidt e moltissimi altri. E in una testa vuota di interruzioni e notifiche c’è più spazio per pensare, per fantasticare, e per vivere. Sono molte, in vari paesi, le scuole che lo stanno già sperimentando e che ne osservano i benefici, su cui paiono concordare anche gli studenti; come in altri casi, è evidentemente l'abitudine o la sostanza a cui ci si rivolge nel tentativo di placare l'ansia a generare l'ansia stessa.
Ad agosto 2023 il rapporto Unesco chiamava i governi dei vari paesi a regolamentare l’uso della tecnologia a scuola. Sulla scorta dell’analisi di duecento sistemi scolastici, stimava che quasi un paese su quattro già proibisse lo smartphone in classe. In quest’anno altri se ne sono aggiunti, per esempio la Norvegia, o hanno ampliato le misure – la Francia intende estendere il divieto dalle lezioni a tutto l’orario scolastico.
Contro questo sfondo (che non tiene conto dei futuri effetti della diffusione dell’AI), le polemiche sollevate dalla circolare del ministro Valditara sul divieto dell’uso del cellulare durante le lezioni (e non dall’ingresso all’uscita della scuola, come auspica Haidt), paiono ideologiche, oppure scaturire da una non piena consapevolezza di un liberissimo mercato della distrazione che segue strategie diverse e molto più insinuanti di quelle che hanno diffuso altri prodotti e innovazioni. Non è un rifiuto della tecnologia tout-court: per scopi didattici si possono comunque usare computer e tablet, di cui le scuole dovrebbero essere dotate. Né sembra avere senso ascriverla a volontà di controllo, semmai propria dei colossi del digitale, che vengono a sostituirsi alla politica, decidendo alla fine loro del funzionamento della vita della polis (orientando anche scelte elettorali, pensiamo allo scandalo di Cambridge Analytica) intesa in senso anche geograficamente molto lato (quali saranno nel lungo periodo le implicazioni geopolitiche dei contenuti veicolati per esempio dal cinese TikTok?). Forse regolamentare l’uso dello smartphone è un tentativo di arginare il nuovo “tecnofeudalesimo”, per usare il titolo dell’ultimo libro di Yanis Varoufakis.
La realtà dell'evoluzione della tecnologia ha superato negli ultimi anni la fantasia, e così invece del comprensivo Circle di Eggers ora c’è Meta, che con il suo logo ispirato al simbolo dell’infinito promette di trascendere, di andare – e trascinarci, volenti o nolenti – “oltre”, in una dimensione che ancora ci sfugge, com’è di tante che cominciano con quel prefisso. Così, nel suo documentario del 2016 Lo and Behold sulla nascita e l'evoluzione della rete, Werner Herzog inseriva vignette di automobili volanti e navicelle spaziali formato famiglia in stile anni Cinquanta, quando tutto ci si immaginava ma non il world wide web. Ma alla possibilità, nelle parole di un intervistato fatalista e “più realista del re”, che i figli dei figli dei nostri figli non abbiano più bisogno di compagni in carne ed ossa, opponeva l'immagine finale di un piccolo cerchio – vero – intergenerazionale con chitarre e cori: una comunità di persone allergiche alle onde del wi-fi che si è creata nell’area protetta intorno al telescopio di Green Bank, West Virginia (e in cui si cresce come nell’epoca pre-smartphone: così). Per trovare un punto di mezzo, per consentire ai nostri figli di farsi filtro, per non essere fagocitati da una anomia disperante, leggere Haidt può essere un primo passo sistematico e bipartisan.
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