Un'infanzia comunista a Firenze
Pubblichiamo un antefatto inedito relativo al nuovo libro di Luca Scarlini, Siviero contro Hitler. La battaglia per l’arte (Skira). In libreria da gennaio
Da bambino non andavo d’accordo con mio padre. Come lui non era quasi mai dalla mia parte nei vari eventi quotidiani. Quando alle elementari, in una scuoletta di campagna a Sesto Fiorentino, mi chiedevano che mestiere faceva, visto che ne aveva vari, improbabili, provvisori e immaginosi, dallo scarso quanto precario reddito, quello che mi veniva per primo era “eroe”. Già per segnalare la sua veste di partigiano segretario regionale dell’ANPI toscana.
Mi riusciva sempre difficile pronunciare quella parola: a un certo punto mi veniva da ridere. L’eroe nello specifico era bulimico di paste con la crema, budini di riso e ammirazione. Ovviamente a momenti da bambino diventavo anoressico per non seguire i suoi trip di iperalimentazione (tre colazioni per mattina, sempre dicendo: prima non ho mangiato). Di conseguenza da subito sono stato bravissimo nello sfuggire ai trucchi di oratori di sinistra altrettanto ingordi di onori. Ho sentito il primo comizio, di Pietro Ingrao, che avevo quattro anni e mezzo. Capivo subito quando cominciavano le tresche dei grandi valori e dei massimi sistemi, e quindi mi scollegavo e andavo altrove con l’immaginazione.
Tra i rari momenti di mondanità dell’anno, c’era una partenza in pompa magna verso l’ambasciata russa a Roma, la sontuosa Villa Abamelek, dove gli ambasciatori sovietici servivano caviale su letti di ghiaccio ai comunisti italiani in adorazione. Intensa era la preparazione al momento della loro presenza nella Mecca del bolscevismo sul territorio del Belpaese. Io ne ero escluso perché troppo piccolo e comunque non allineato. Poi ne subivo comunque il racconto per cinque-sei giorni. Ovviamente, se cominciavo (e la tentazione era forte) a minimizzare le glorie abbacinanti del sol dell’avvenire, arrivavano gli sganassoni e le rampogne contro il mio istinto di sabotatore e qualunquista.
Almeno c’era poi il cabaret esagitato ma divertente delle feste dell’Unità, che erano colorate e si vedevano degli spettacoli interessanti. Io lì scappavo dal controllo ideologico, e correvo a spiare gli attori e i cantanti che provavano. Nel 1975 ho fatto da scorta, ammirato delle invidie che suscitavo nei passanti, a una statuaria Miriam Makeba al Pratone delle Cornacchie alle Cascine.
Uno dei pochi momenti di consenso con mio padre, comunque, erano certe visite meno usuali a persone che come lui in qualche modo avevano fatto parte della Resistenza o che avevano a che vedere con dei momenti di quel periodo anche in modo indiretto, che però per mestiere non facevano gli eroi. Gente non troppo propensa ai comizi quotidiani, insomma. Tra i simpatici c’era un signore con gli occhiali spessi che aveva militato nella squadra di calcio del POUM a Barcellona con George Orwell, che lo cita per allusione in Omaggio alla Catalogna. Su di lui a Firenze girava una leggenda esilarante.
Sarebbe stato l’ideatore di una beffa nei giorni della tremenda Primavera Hitleriana del 1938. Visto che gli esercizi avevano obbligo di adornare con foto del Duce e del Führer le vetrine piene di prodotti di eccellenza italiani, egli aveva suggerito ai commessi di una pasticceria del centro di mettere solo le belle scatole di latta dei biscotti Lazzaroni. Lo scherzo era stato individuato, ma solo dopo qualche ora, e il nostro si era dissolto, per evitare le furie dei fascisti fiorentini che si affannavano bestemmiando a smontare la vetrina.
Uno dei giri più rari con mio padre, ma più sorprendenti, era quello che portava dal suo ufficio in Santa Croce, verso l’Oltrarno, a due dimore legate all’arte, o meglio a due veri e propri musei privati. Prima una visita reverente da John Pope-Hennessy a Palazzo Canigiani, in via dei Bardi, con cui il legame mi sfuggiva. Lì mettevo a prova un po’ del rudimentale inglese studiato a scuola, e che cominciavo a padroneggiare in una versione “childish”. Guardavo sui tavoli immagini e schede delle opere del Cellini, di cui lo studioso britannico era appassionatissimo cultore.
Mio padre mi guardava male perché lui l’inglese non lo parlava proprio. A denti stretti mi diceva che volevo sempre mettermi in mostra e che era meglio se stavo al mio posto. Poi parlavano in italiano, o in inglese con la traduzione di un anziano signore scozzese ex-militare, di cui non sapevo il nome, e che era connesso in qualche modo a mio padre. Sciorinavano ricordi di guerra e dopoguerra, di cui non capivo niente. Prendevo un libro e lo sfogliavo, lentissimamente, annuivo ogni quarantacinque secondi e fuggivo in un paese fatto di saliere d’argento. Poi mi risvegliavo dalla trance due secondi prima che mio padre mi chiamasse, e giù in strada, giù dalla torre verso il Lungarno, verso un’altra dimora importante. Venivo istruito di non chiacchierare troppo, di rivolgermi a quella persona con il titolo “professore”, che era una persona importante: un ministro.
Avevo dieci anni, mi pare. A scuola avevo imparato l’espressione di riguardo: eccellenza, da usare con le autorità, però non ero sicuro di quando dovevo adoperarla, e se dovevo inchinarmi o meno. Comunque all’idea dell’inchino rinunciavo subito: troppo rischioso. Uno si distrae e va a sbattere contro gli angoli. Io dicevo buongiorno, guardavo per un momento quel signore dai capelli radi, azzimato, dai completi impeccabili con cravatta abbinata e mi mettevo a fissare le immagini. Quadri, sculture, pagine miniate. Tutto in stile neomedievale, con letti a baldacchino e sedie di legno Savonarola. Mi sembrava il teatro: mi distraevo subito dal linguaggio in codice di mio padre e dell’altro signore. L’unica volta che rimasi a sentire, parlavano della celebrazione di un pittore morto nella Resistenza, Bruno Bècchi, di cui stavano allestendo una mostra in quei giorni a Firenze.
Quel signore si chiamava Rodolfo Siviero, era famoso come lo 007 dell’arte. Negli anni gli interessi mi hanno portato a studiare questa figura che conserva il suo segreto, dato in primo luogo dalla sua professione di spia e dalla complessità del suo itinerario esistenziale.
Con mio padre non vado granché d’accordo nemmeno retrospettivamente, però gli devo di aver incontrato una figura di cui mi interessa ancora la determinazione e il mistero. Ne ho scritto in alcuni libri, per scorcio, negli anni e ora qui assume un ruolo da protagonista. Visto che la vicenda prende avvio a Firenze dove si giocano alcuni dei suoi snodi principali, penso a una partita di calcio in costume, gioco tipico di origini rinascimentali, ancora oggi praticato tra urla e gesti bruschi (vuole la leggenda che qualche anno fa un giocatore abbia strappato a morsi l’orecchio di un rivale) nell’estate, sui prestigiosi sfondi turistici di Piazza Santa Croce.
Un gioco, quindi, che ha sia della cerimonia, che dello scontro fisico violento e senza scrupoli. Da una parte stanno i villains: i tiranni che hanno attentato al patrimonio artistico d’Europa, e in specie d’Italia, paese particolarmente esposto, per la propria natura e per le colpe di Mussolini, alle aggressioni ai propri beni, anche per la decisa inefficacia di leggi che poco tutelavano.
Nel fuoco della guerra da una parte stava Hitler, insieme ai suoi sodali Göring e Himmler, decisi di trarre il massimo possibile dal conflitto e dalla Shoah, appropriandosi di opere d’arte e cultura di ogni tipo. L’obiettivo era l’esasperazione del proprio fasto, la trasformazione delle dimore del potere in veri e propri musei viventi. Dall’altra Rodolfo Siviero, spia del SIM, personaggio del mistero per molti aspetti, ma al momento giusto coordinatore di una struttura di resistenza solida e di grande impatto, nata di corsa, voluta con grande tenacia da lui. Un gruppo composto da pezzi dell’antico servizio segreto militare italiano, insieme a partigiani, studenti, studiosi, sovrintendenti.
Sembra, in questo caso, come in quelli altrettanto sorprendenti dei funzionari delle sovrintendenze a Roma e nelle Marche che si misero in moto contro la follia del tempo, una ennesima versione della storia di Davide e Golia e un po’ lo è. Lo sfondo per Siviero è Firenze, città-scrigno, la cui bellezza è una risorsa e un problema a un tempo, sia in tempo di pace, che evidentemente, con ben più gravi esiti, nelle spire di un conflitto violentissimo. Che la battaglia cominci. Senza regole e senza esclusione di colpi. La posta in gioco è la salvezza dell’arte italiana, che, mai come nella follia della Seconda Guerra Mondiale, è stata esposta al rischio della distruzione finale.