Musica e politica / Il ritorno del nazionalismo musicale
In un passo del Doktor Faustus di Thomas Mann il narratore incontra all’uscita da un concerto un intellettuale nazionalista. L’episodio è ambientato negli anni Venti, a metà strada tra la sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale e l’ascesa al potere di Hitler:
Mi bloccò in una conversazione, che da parte sua cominciò con una critica del programma di quella sera: questo accostamento di Berlioz e Wagner, di virtuosismo latino e magistero artistico tedesco, era una mancanza di gusto, che oltretutto non riusciva a nascondere un’intenzione politica. Sapeva troppo di intesa franco-tedesca e di pacifismo, e infatti questo Edschmidt [il direttore d’orchestra] era noto per essere un repubblicano e inaffidabile da un punto di vista nazionale. Questo pensiero gli aveva rovinato tutta la serata. Purtroppo oggi era diventato tutto politica, non c’era più purezza spirituale da nessuna parte. Per resistere a questa tendenza era necessario prima di tutto che alla testa delle grandi orchestre ci fossero uomini di sentimenti indubitabilmente tedeschi.
Io non gli dissi che era lui a politicizzare la questione, e che la parola ‘tedesco’ oggi non era affatto sinonimo di purezza spirituale, ma un motto di partito. Osservai solo che una buona dose di virtuosismo, latino o no, c’è anche nell’arte così apprezzata all’estero di Wagner…
Siamo qui in presenza di un paradosso che tocca la natura della musica colta europea, una forma d’arte tradizionalmente percepita dai suoi produttori e dal suo pubblico come pura e immateriale, ma in realtà vicinissima al potere politico e sempre capace di piegarsi ai suoi scopi. L’ideale di un “uomo di sentimenti indubitabilmente nazionali” alla guida di un’orchestra non è affatto superato, come dimostra l’amicizia esibita in pubblico fra Putin e Valery Gergiev, uno dei maggiori direttori d’orchestra in attività. Nel caso russo c’è senza dubbio una volontà da parte del governo di comunicare attraverso il rispetto per una forma tipica della cultura tradizionale un’immagine opposta rispetto a quella del nemico americano, cioè di un paese in cui le star del pop salgono sul palco in campagna elettorale (in genere per i democratici). Per i governi autoritari di diversi paesi non occidentali investire nella musica classica è un modo per affermare le proprie ambizioni globali. Per fare un esempio fra i diversi possibili, un monumentale e costosissimo teatro d’opera è stato inaugurato nel 2013 ad Astana, capitale del Kazakistan. Fatto inquietante: nonostante la sua diffusione sia molto diminuita nell’ultimo mezzo secolo e fra le generazioni più giovani una familiarità con il repertorio sia rara anche ad alti livelli di preparazione culturale, dal punto di vista dell’autorappresentazione del potere la musica classica ha tuttora un’efficacia enorme.
Fino a pochi anni fa si sarebbe potuto dire che in Europa questo uso diretto della musica a scopi politici non esisteva più, o, più correttamente, che la musica veniva usata per celebrare cause internazionaliste anziché nazionaliste, esempio tipico l’Inno alla gioia usato come inno dell’Unione europea, circostanza che avrebbe senza dubbio scandalizzato l’intellettuale nazionalista di Mann (ma l’ipocrisia alla base ha attirato critiche anche da posizioni più ragionevoli: J. Schmidt, “Not These Sounds”: Beethoven at Mauthausen, 2005). Alcuni temi nazionalisti non sono però mai stati lontani dal mondo della musica classica italiana, e il loro ritorno in anni recenti sembra tanto meno sorprendente quanto più se ne segue la storia sotterranea.
C’è infatti un ambito in cui una lettura nazionale nel patrimonio musicale italiano è sempre stata dietro l’angolo, ed è ovviamente l’opera ottocentesca, con la sua tradizionale associazione con il risorgimento. Nel 2011, anno delle celebrazioni per l’unità d’Italia, il Teatro dell’opera di Roma mise in cartellone il Nabucco, opera giovanile (1842) di Verdi, da molto tempo, ma probabilmente non prima del 1860, letta in chiave patriottica. A dirigere era Riccardo Muti, colui che negli ultimi decenni si è battuto più di ogni altro per una valorizzazione della musica in quanto patrimonio nazionale. Il coro del “Va’ pensiero” fu bissato e al pubblico fu permesso di cantare, cosa inconsueta in teatro. Il discorso tenuto da Muti è un manifesto della sua concezione: la cultura va finanziata perché altrimenti “la patria sarebbe davvero bella e perduta”.
Due anni dopo, 2013, altra ricorrenza, il bicentenario verdiano. In questa occasione il grande direttore pubblica un libro intitolato Verdi l’italiano, dai toni decisamente apologetici. Non ci dovrebbe essere bisogno di aggiungere che il patriottismo di Muti, personaggio perfettamente inserito nelle istituzioni musicali internazionali, non ha toni xenofobi e si accompagna a una viva ammirazione per i grandi della musica tedesca ed europea.
Se da una figura istituzionale come Muti si passa a personaggi ai margini del mondo musicale il nazionalismo musicale si presenta in tutt’altra forma, quella autentica e originaria. Nell’ultimo anno una polemica ha infiammato il mondo della musica classica italiana. Due musicologi non accademici, Luca Bianchini e Anna Trombetta, hanno pubblicato nel 2017 un libro intitolato Mozart la caduta degli dei. L’obiettivo è niente meno che dimostrare che Mozart non era un grande musicista. Il punto centrale della dimostrazione, insieme all’idea che Mozart non avesse studiato composizione, è che i capolavori della maturità siano stati scritti non da lui ma da un altro musicista, la cui vena geniale sarebbe stata sfruttata anche da Haydn e che in futuro sarebbe stato il maestro di Beethoven. Questo genio negato della musica sarebbe il veneto Andrea Luchesi, nome finora praticamente ignoto alla storia della musica. Il motivo di questa enorme ingiustizia storica sarebbe il nazionalismo tedesco all’origine della grande narrazione della storia della musica degli ultimi tre secoli. Da un punto di vista stilistico e paleografico la teoria della paternità luchesiana delle opere di Mozart è a dir poco fantasiosa, ma questo non ha impedito che un ampio seguito di estimatori si formasse intorno alla coppia di autori, soprattutto online. Dalla questione Mozart-Luchesi la polemica si allarga nei mesi successivi alla pubblicazione a una crociata in favore della musica italiana dell’epoca, contro la storiografia tedesca e i suoi guardiani stranieri, spesso anglosassoni, talvolta, vergogna, anche italiani. I nomi da riscattare sono quelli di Galuppi, Cimarosa, Paisiello, Cherubini, Salieri (il più calunniato di tutti), e molti altri.
Queste posizioni possono essere ascritte alla categoria oggi molto popolare di complottismo, e in effetti hanno incontrato sul web una certa fortuna in ambienti interessati alla scoperta e alla diffusione di verità alternative. Tuttavia la categoria di nazionalismo centra meglio il problema, che in questo caso non è tanto, o non originariamente, la sfiducia nei confronti delle versioni ufficiali quanto la contrapposizione tra un’Italia vittima e un Europa settentrionale carnefice.
In altri casi non è l’Italia ma identità regionali a essere al centro dei tentativi di politicizzare la storia della musica. L’uso di “Va’ pensiero” da parte della Lega Nord, che in Italia ha suscitato soprattutto ironie, ha invece attirato una certa attenzione da parte di musicologi stranieri. Al lato opposto del paese, la cosiddetta scuola napoletana del Settecento è diventata negli ultimi anni un cavallo di battaglia di sostenitori di un atteggiamento che si può definire di nazionalismo meridionale, come ho sostenuto in un articolo recentemente apparso sulla Rivista italiana di musicologia. La campagna, in linea con il revisionismo dai toni neoborbonici esemplificato dai libri del giornalista Pino Aprile, ha fra i suoi protagonisti Enzo Amato, autore di un libro dall’eloquente titolo La musica del sole – alla scoperta dell’insuperabile scuola napoletana del Settecento, e il proprietario della pagina youtube Raimondo di Sangro (che prende il nome da un colto aristocratico napoletano del Settecento, figura di culto in ambienti nazionalisti meridionali), entrambi non sorprendentemente fra i fautori della campagna antimozartiana.
Se la polemica su Mozart è particolarmente accesa, probabilmente perché si tratta del compositore il cui nome più di ogni altro è entrato a far parte della cultura popolare, altri casi hanno riprodotto con meno clamore mediatico uno schema simile. Fra gli esempi in cui mi è capitato di imbattermi, in ordine sparso: le tante (in realtà poche) rappresentazioni di opere wagneriane nei teatri italiani sono un modo per compiacere la Merkel, nuova padrona dell’Europa; le romanze di Tosti sono superiori ai Lieder di Hugo Wolf nonostante gli snob dicano il contrario; Bach ha imparato tutto trascrivendo Vivaldi. Il popolare programma di lirica “La barcaccia” su Radio 3 ha subito per mesi le chiamate insistenti di un appassionato che contestava lo spazio concesso alle “tedescherie”. Mozart la caduta degli dei non è quindi un caso isolato, ma il frutto più visibile di un momento storico in cui questi temi sono tornati prepotentemente di attualità.
Come è facile notare, in tutti questi casi all’Italia viene contrapposto lo stesso nemico, ovvero la Germania. Ci sono diverse ragioni per questa insistenza. La prima è interna alla storia musicale: la tradizione austro-tedesca occupa un posto centrale nella musica colta europea dal Settecento in poi e il confronto con questa ingombrante realtà è inevitabile se si è scelto un approccio in termini nazionali. Nella musicologia degli ultimi decenni la critica del germanocentrismo della disciplina nella sua storia ottocentesca e novecentesca è un tema comune, il cui esempio forse più noto è la monumentale Oxford History of Western Music (2006) del musicologo americano e specialista di musica russa Richard Taruskin, che attacca duramente anche teorici e studiosi prestigiosi come Adorno e Carl Dahlhaus. Anche se non si condividono i toni molto accesi di Taruskin è ragionevole ammettere che il nazionalismo tedesco è stato un fattore nella creazione del canone della musica europea. Gli antitedeschi italiani si appoggiano quindi in una certa misura su modelli rispettabili all’interno della musicologia accademica.
Nello stesso tempo, di nuovo, la musica colta è una tradizione in cui la nazionalità come criterio estetico ha avuto storicamente un’importanza enorme. In particolare a partire dal romanticismo i caratteri nazionali, interpretati in senso essenzialista, delle varie tradizioni musicali sono stati un tema pervasivo. In confronto il rock non si presterebbe mai altrettanto bene a un discorso nazionale, nemmeno in Gran Bretagna, nonostante l’importanza che ha avuto nella società britannica dagli anni Sessanta a oggi. Verdi è più italiano di quanto i Beatles siano inglesi. Il nazionalismo torna a perseguitare la musica colta quasi come un riflesso automatico, un’etichetta appicciata da troppo tempo da cui non ci si riesce a liberare.
Nel caso specifico dell’Italia c’è anche da considerare l’importanza che il patrimonio culturale ha nell’autorappresentazione del paese (pensare alla fortuna giornalistica dell’idea che una percentuale altissima del patrimonio artistico mondiale si trovi in Italia). Chi propone tesi riconducibili all’immagine dell’Italia come culla delle arti ha sempre la strada spianata perché si appoggia su idee radicate nell’opinione pubblica grazie ai media e in parte anche grazie alla scuola.
È chiaro, però, che il processo in corso ha anche importanti ragioni politiche. L’attrazione per posizioni nazionaliste nasce da una disillusione purtroppo non ingiustificata nell’ordinamento internazionale liberale e soprattutto nella sua manifestazione nelle istituzioni europee. Non è ovviamente un caso che il nazionalismo musicale sia tornato in auge negli anni in cui la Grecia veniva distrutta dalle politiche di austerità imposte dall’Europa a guida tedesca. Data la memoria mai del tutto sopita della Seconda guerra mondiale, il risentimento contro il governo tedesco si è rapidamente trasformato in un’ostilità generale contro la Germania, riportando a galla clichés di lungo periodo che nei decenni passati erano stati solo momentaneamente coperti dall’immagine di un paese aperto e cosmopolita.
Non è la prima volta che il nazionalismo italiano prova a riscrivere la storia della musica. In maniera non sorprendente, la prima epoca d’oro del revisionismo nazionalista in musica si ebbe con il fascismo. In alcuni casi le riletture iniziate o promosse in Italia hanno avuto successo e si sono affermate a livello internazionale. La musica strumentale italiana dell’epoca di Corelli e Vivaldi beneficiò di un ritorno di interesse dettato fra l’altro dal desiderio di avere in epoca barocca dei grandi nomi italiani da contrapporre ai grandi nomi tedeschi di Bach e Händel. Anche la rinascita di Monteverdi è avvenuta almeno in parte con intenti nazionalisti, come è stato sostenuto da diversi studiosi.
In altri casi i tentativi fallirono in quanto eccessivi. Fausto Torrefranca, famoso (o famigerato) per aver attaccato da giovane la musica “francesizzante” ed effeminata di Puccini in un pamphlet di rara aggressività, pubblicò nel 1930 un tomo intitolato Le origini italiane del romanticismo musicale. Un nome (di nuovo) quasi ignoto come quello di Giovanni Benedetto Platti veniva elevato al rango di grande innovatore e contrapposto, come il maestro agli allievi, ai tedeschi suoi contemporanei, in particolare Carl Philipp Emanuel Bach. Nel 1939 seguì Il segreto del Quattrocento, in cui Torrefranca provava a dimostrare, contro l’opinione comune, l’esistenza di una grande polifonia italiana nel XV secolo. Al musicologo immerso nel clima culturale degli anni Trenta doveva sembrare inaccettabile l’idea che in questo campo Francia e Paesi Bassi guardassero dall’alto l’Italia di Masaccio, Brunelleschi, Botticelli. La grande polifonia italiana doveva esistere e si materializzò, nello studio di Torrefranca, in manoscritti retrodatati e tradizioni popolari sommerse (qui la prima pagina di una divertente recensione scritta nel 1940 da Alfred Einstein, tra l’altro uno dei musicologi novecenteschi più odiati dagli autori di Mozart la caduta degli dei).
Una differenza ovvia fra l’epoca attuale e quella del fascismo è che le idee nazionaliste e le tentazioni revisioniste non sono istallate ai vertici della musicologia italiana. I revisionisti di oggi non sono i principali musicologi italiani, come era Torrefranca nella sua epoca (e va sottolineato che Torrefranca, nonostante molte delle sue teorie siano e fossero già all’epoca improponibili, era uno studioso di valore), ma dei dilettanti. C’è anche un’altra differenza, però, ed è ovviamente internet. La diffusione che la rete può dare alle idee discusse è probabilmente superiore a quella, in passato, delle pubblicazioni di uno studioso pur importante. Se nel ritorno del nazionalismo non c’è di per sé nulla di nuovo, questo cambiamento nei rapporti di forza fra centro e periferia della cultura crea invece una situazione inedita: la musica colta, il prodotto di una lotta all’apparenza impossibile delle istituzioni contro i naturali cambiamenti di gusto che fanno della musica una delle attività artistiche più legate a fattori sociali, temporali, generazionali, sfugge al controllo degli specialisti e viene arruolata in una lotta contro i nemici del popolo, fra cui figurano in prima linea i suoi precedenti guardiani, gli adepti della “musicologia ufficiale”.
Che un revisionismo del genere possa anche salire al potere si vede da esempi stranieri, fra cui la Russia è ancora quello più evidente: il ministro della cultura russo Vladimir Medinsky ha sostenuto, fra molto altro, che l’omosessualità di Čajkovskij è una calunnia degli occidentali che vogliono diffamare la Russia.
La reazione dei musicologi italiani agli attacchi ha oscillato tra un silenzio sprezzante e la confutazione indignata. Questa seconda strada è stata seguita da Michele Girardi e Carlo Vitali (gli articoli sono raccolti sul sito), subito bollati dagli autori del libro antimozartiano come fiancheggiatori del nazismo. Il terreno è scivoloso: come sempre, nelle discussioni sui social la differenza fra uno studioso e un ciarlatano rischia di essere poco visibile al pubblico neutrale e non specializzato.
C’è quindi il rischio di arrivare al punto in cui buona parte del pubblico in sala crede che la sinfonia che sta ascoltando sia stata scritta da Luchesi anziché da Mozart? Per ora sembrerebbe di no. Una delle conseguenze dei mutamenti mediatici appena evocati è proprio che il pubblico che recepisce queste idee è ben distinto da quello attempato e benestante che continua ad andare ai concerti. Quello che invece può accadere e sta già accadendo è l’uso della storia della musica nel discorso pubblico in modi che riproducono in maniera tristemente esatta quelli situati da Mann nell’Europa di novant’anni fa.