Medicina narrativa / Il narratore ferito
Arthur Frank comincia scrivere dopo essere stato colpito da un infarto all'età di 39 anni; poco dopo si ritrova con una diagnosi di Seminoma del testicolo, dopo un tribolato percorso diagnostico. Cerca di mettere in ordine i suoi pensieri e decide di scrivere questo libro per lasciare una testimonianza ad altri che sono passati attraverso il tortuoso percorso clinico di una diagnosi e di una terapia, soprattutto nel mondo delle malattie oncologiche e delle malattie croniche in generale. È così che nasce Il narratore ferito (Einaudi, 2022), la prima opera tradotta in italiano di Frank, che oggi è professore emerito di Sociologia all’Università di Calgary
L’introduzione all’edizione italiana, ben curata de Christian Delorenzo, presenta molto bene lo scrittore: “A costituire l'ossatura dell'opera sono le esperienze di malattia e di cura che Frank si trova ad affrontare in prima persona. Sarà lui stesso a dire che si tratta piuttosto di un memoire analitico e che gli episodi narrati lasciano ampio spazio alla riflessione e alla concettualizzazione, istituendo talora un dialogo con le storie degli altri.
La figura del paziente sottoposto al controllo, se non addirittura alla colonizzazione della medicina, smette di corrispondere in toto con la persona malata che comincia invece a rivendicare di avere voce in capitolo per quanto riguarda il proprio corpo.
La patologia, soprattutto se cronica, non è sempre in primo piano, ma rimane lì sullo sfondo e diventa una compagna di vita; a volte resta in silenzio anche se non manca di ricordarci, ad ogni controllo di routine, che esiste. Nel percorso intellettuale di Frank tutti gli episodi narrati tornano a più riprese e forniscono la base per nuove elaborazioni teoriche. Innumerevoli sono le metafore e i concetti riferibili alla malattia come avvenimento che contiene un alto potenziale pedagogico. Frank a un certo punto si chiede, insieme al teologo protestante William May: “Come mostrarsi all'altezza della situazione?” Il narratore ferito è una risposta non solo intellettuale, ma anche morale, a questa domanda.
Il narratore ferito è un lavoro di auto aiuto e di ricerca nello stesso tempo.
Il messaggio di fondo sembra il seguente: per costruire le nostre storie ci servono quelle degli altri, ecco perché la sofferenza deve essere raccontata. Tutti siamo narratori feriti. Non che la sofferenza, attraverso il racconto, scompaia per magia, ma più storie si ascoltano, più si riducono il dolore e la solitudine. Il narratore ferito è una guida, un manuale. Il corpo umano, con le sue fragilità, è un testimone della sofferenza. Molti arrivano impreparati al giorno in cui diventano narratori feriti e per questo è necessario un vademecum.
Il narratore ferito è stato scritto per aumentare i contatti tra le persone con una storia di malattia da raccontare e siccome non esistono modelli precostituiti, l’autore ha ideato tre categorie che vengono usate per strutturare e interpretare le storie che corrispondono ad altrettanti modi di vivere la malattia: restituzione, caos, ricerca.
Le modalità della restituzione caratterizzano di solito la vita di tutti i pazienti: gli operatori sanitari si aspettano che qualsiasi evento sia letto all'interno di una narrazione che prevede il pieno recupero e ogni avvenimento deve essere un passo verso l'obiettivo della salute. Anche Frank ovviamente voleva stare bene e apprezzava questa forma di rassicurazione, ma aveva anche bisogno di riconoscere che, in quel momento preciso, soffriva e che la guarigione non era affatto scontata. Dare al medico il ruolo di protagonista, relegando il narratore a oggetto delle sue gesta non va bene a Frank: lui scrive “ho preso parte a questo tipo di storia, ma non poteva essere davvero la mia”. Il modello narrativo della restituzione non lascia spazio, per esempio, al caos creato dalla malattia. In molte persone c'è un divario tra il dolore che aumenta e l’agenda dei medici che prendono in mano la situazione clinica: mentre uno pensa che la sua vita stia deragliando arrivano rassicurazioni che non possono essere colte.
Molte persone affette da patologie croniche parlano di questo iato. In questi casi è difficile raccontare una storia, anche perché viene a meno il senso del futuro. Anatole Broyard in La morte asciutta scopre di avere un cancro alla prostata in rapida progressione e dice “Mi sembra che ogni persona con una patologia grave abbia bisogno di sviluppare uno stile per vivere la malattia”. Frank pensa che le storie siano strumenti particolarmente efficaci per elaborare questo stile. La narrazione più che un semplice resoconto è un lavoro di scoperta. Purtroppo spesso i medici sono una parte del problema e scoraggiano le nostre storie, quando non coincidono con il loro sistema di classificazione delle malattie e il loro sistema di raccolta dati che chiamano anamnesi.
Frank assume spesso posizioni polemiche contro il sistema di cura, contro le schematiche metodologie scientifiche in uso per la diagnosi e la terapia. Raccoglie voci contrastanti, scrive di testimonianze scritte da poeti e narratori occasionali, riporta dati di letteratura non medica, apre un mondo nuovo con le voci di chi fatica a farsi sentire.
Nella prefazione dice: "La figura del narratore ferito è antica. Tiresia il veggente che rivela le vere origini di Edipo è stato accecato dagli dei. È la sua ferita a conferirgli un potere narrativo. Giacobbe riceve un colpo al femore durante la lotta con l'angelo: è una parte della sua storia ed è il prezzo da pagare per raccontarla e la sua ferita è la testimonianza che non mente”.
Nel primo capitolo Frank prende in esame il bisogno di raccontare per costruire nuove mappe e percezioni del rapporto con se stessi e con il mondo attorno. Le storie non solo parlano del corpo ma dal corpo sono generate, in una visione unitaria corpo-mente, così fortemente influenzate dal contesto storico. Sente la necessità di schematizzare il ruolo del malato in un contesto diversificato della esperienza di malattia. Riconosce tre categorie: premoderna, moderna e postmoderna, dove le grandi differenze sono che, nel periodo moderno, è la narrazione medica, con tutte le tecnologie, ad avere la meglio, mentre l’esperienza post-moderna della malattia inizia quando le persone malate si rendono conto di essere coinvolte più di quanto la narrazione medica sia in grado di dire: la malattia postmoderna diventa una esperienza, una riflessione sul corpo, sul sé e sulla meta a cui la vita, attraverso la sua mappa, conduce.
Nel periodo moderno le storie di pazienti hanno un ruolo alternativo, non ufficiale, non compaiono nelle cartelle cliniche; oltre lo spartiacque postmoderno i racconti acquisiscono un’importanza primaria e c’è qualcosa in più rispetto alla osservanza delle aspettative fornite dagli operatori sanitari, anche se entrambi gli aspetti rimangono.
Alla fine della sua testimonianza sul cancro, Frank parla di società della remissione per descrivere un mondo, cioè tutte quelle persone che effettivamente sono considerate guarite dalla medicina moderna (o modernista, come la chiama lui); tutti coloro che hanno avuto un tumore, seguono programmi di cardiologia riabilitativa, soffrono di diabete e altre patologie croniche, portano protesi o altri dispositivi meccanici, che hanno qualche disabilità o sono in fase di recupero. A rendere possibile l'esistenza concreta di una società della remissione sono le conquiste tecniche della medicina moderna. È post-moderna invece la consapevolezza di quello che significa convivere con la malattia, in tutte le sue fasi, anche nella guarigione, che quasi mai ti permette di recuperare una piena integrità.
Frank chiama in causa Rita Charon che, da medico, crede nella Medicina Narrativa per costruire una nuova identità del medico e del rapporto medico-paziente, ma coinvolge nelle sue storie anche Susan Sontag e Zygmunt Bauman nel costruire il nucleo dell’etica postmoderna.
Cita Albert Schweitzer “la fratellanza dei segnati dal dolore” per indicare come la condizione comune possa diventare una base per creare legami empatici.
Noi raccontiamo per porre rimedio al danno che la malattia provoca al nostro senso dell'orientamento nella vita; la malattia può essere considerata proprio alla stregua di un naufragio e la sensazione è che la tempesta della malattia provochi condizioni di incertezza, stanchezza, sofferenza, paura, condizioni che impediscono una narrazione fluida, perché si perde il senso del tempo e si perde il senso del futuro. Per raccontare una vita interrotta c’è bisogno di modalità inedite e c’è differenza tra raccogliere una anamnesi e ascoltare una persona.
Frank si addentra in territori inesplorati al tempo della prima pubblicazione del suo libro: la ricerca del sé caotico generato dal trauma e la perdita di quello che chiama il modello della restituzione, perché il corpo è imprigionato nei bisogni del momento che vengono frustrati; si è troppo vicini al vissuto per comprenderlo, non è possibile riflettere e quindi sembra impossibile raccontare una storia. È necessario però rispettare una narrazione caotica sia dal punto di vista morale che da quello clinico. Il corpo della persona malata sembra a volte essere considerato un semplice vettore di una patologia. Questo spesso accade per chi pratica attività scientifica e professionale. Ma la testimonianza di chi sta male e la competenza professionale devono avere la stessa dignità.
Abbiamo qualcosa da insegnare anche quando stiamo male e questo è il senso di una pedagogia della sofferenza.
Il narratore ferito rappresenta una lunga riflessione sulla differenza tra la mera sopravvivenza – in senso biologico – e il riconoscimento, che assume la forma più pura nell'ambito della testimonianza, dove realizziamo, insieme con gli altri, che la nostra vita è significativa.
Ho intervistato Christian Delorenzo il curatore di questo testo e gli ho chiesto “Perché uno dovrebbe leggere questo libro?” e la sua risposta è stata che è un saggio imprescindibile, una sorta di must e di classico che ha nutrito l'ambito delle Medical Humanities e ha contribuito in maniera sostanziale a creare il campo della Medicina Narrativa. È un libro che ha fatto storia, ha aperto una strada in un momento in cui, a metà degli anni 90, non era affatto semplice parlare di malattia nella sfera pubblica. Il narratore ferito ha dato cioè un enorme contributo culturale a pratiche che oggi magari possono sembrarci più scontate ma che fino a trent'anni fa non lo erano.